Pagine

14 dicembre 2003

Allen Sinai

"Non c'è nulla di atipico o di preoccupante in questa improvvisa accelerazione della ripresa americana: basta rifarsi agli esempi del passato per rendersi conto che una fiammata come quella che stiamo vivendo è del tutto normale quando la macchina produttiva si rimette in moto dopo una recessione". Allen Sinai, uno dei principali economisti degli Stati Uniti, è convinto che lo sbalzo del terzo trimestre (+8,2%) non sia un accidente momentaneo, ma il primo segnale concreto che il mondo ha davvero svoltato l'angolo.
Per andare dove?
"La ripresa americana ha cambiato marcia e presto l'accelerazione si sentirà anche da queste parti, anche se non escludo una certa volatilità: succede sempre così quando si arriva a una svolta in presenza di fattori esterni, come il terrorismo e le incertezze geopolitiche, che spingono in direzione opposta. In pratica, penso che la crescita americana si attesterà sul 5-6% nel primo semestre 2004, sul 4-5% per tutto l'anno. Questo spingerà l'Europa, che l'anno prossimo potrebbe finalmente superare la soglia del 2%".
Malgrado il supereuro?
"Certo il supereuro è una bella incognita, ma non sarebbe un problema se la crescita europea si basasse sulla domanda interna come quella americana. Invece i consumatori europei non spendono e probabilmente hanno le loro buone ragioni. Ma i governi europei non possono pretendere di farsi sempre trainare dall'export: se vogliono far girare la macchina in maniera autonoma devono mettere più soldi nelle tasche dei consumatori. L'unica strada è applicare una politica fiscale e monetaria espansiva, come si vede dai risultati americani".
In pratica?
"Per spingere la gente a consumare bisogna tagliare le tasse e per spingere le aziende a investire bisogna abbassare il costo del denaro, che avrebbe anche l'effetto benefico di riequilibrare il differenziale fra i tassi americani ed europei e quindi di bloccare la corsa del supereuro".
Ma queste sono proprio le politiche che hanno gonfiato il doppio deficit negli Stati Uniti, quello pubblico e quello commerciale. In Europa ci sono regole di austerità fiscale e monetaria che non consentono di andare in questa direzione.
"Sono regole assurde, che andrebbero cambiate. Vi costringono a remare nella direzione sbagliata. Quando l'economia gira la spesa pubblica può scendere, ma quando l'economia ristagna la spesa pubblica (e quindi il deficit) deve per forza aumentare se si vuole stimolare la crescita. Invece il Patto di stabilità vi costringeva a fare esattamente il contrario. E' stata una fortuna che la realtà vi abbia portato a violarlo, ora però andrebbe riformulato, perché così com'è fa solo danni. Lo stesso discorso vale per la politica monetaria: quando l'economia è ferma non ha senso combattere contro l'inflazione. In particolare se la Fed abbassa i tassi in maniera aggressiva, perché la Bce rema contro la ripresa, consentendo l'allargamento di un simile divario fra il costo del denaro al di qua e al di là dell'Atlantico?"
Insomma, lei mi sta dicendo che il supereuro ce lo siamo costruito noi, non è una reazione alla caduta del dollaro?
"E' frutto di un concorso di circostanze, in cui la strategia della Bce gioca un ruolo determinante. Io stesso, da investitore, non posso fare a meno d'investire nell'euro e lo sto già facendo da tempo. Non perché abbia poca fiducia nel dollaro, ma perché in effetti il rendimento della valuta europea, finché i tassi resteranno così alti, è molto più appetibile".
Quindi lei non teme un crollo verticale del dollaro, dovuto alla preoccupazione degli investitori davanti alla crescita smisurata dei deficit gemelli?
"No, non mi pare questo il problema. Deficit gemelli molto consistenti ne abbiamo avuti anche in passato e quando l'economia si è rimessa a crescere poco a poco sono rientrati da soli. Ora il problema da risolvere era un altro: la crisi economica. E con una politica espansiva l'abbiamo risolto. Il recente aumento degli investimenti aziendali lo dimostra: presto le imprese ricominceranno ad assumere ed entreremo in un periodo di crescita stabile".
E se l'euro dovesse superare quota 1,30?
"Fino a 1,30 non lo ritengo uno squilibrio troppo problematico. Oltre 1,30 escludo gravi ripercussioni negative sull'economia americana, ma per quella europea potrebbe essere un brutto colpo".

Ricerche di mercato, da cenerentola a star

Da "parente povero" della consulenza a star del marketing. Con un giro d'affari da 16,6 milioni di dollari, in crescita del 4,5% malgrado la crisi globale, il mondo delle ricerche di mercato sembra un'isola felice circondata dai mari burrascosi della consulenza e della pubblicità, mercati contigui che in questi anni sono rimasti strangolati dai tagli alle spese operati dalle imprese in ritirata. Nella gestione aziendale, evidentemente, le ricerche di mercato - fonte insostituibile d'informazioni sulla clientela e testa di ponte verso l'innovazione dei prodotti - sono diventate talmente necessarie da non finire sotto la scure nemmeno in periodi di recessione. Anzi. Semmai i ricercatori si allargano anche sul terreno degli altri: l'ultimo trend del settore è la "consulenza informativa", un eufemismo usato in contrapposizione con il concetto di "consulenza gestionale" per illustrare la presenza sempre più frequente di ricercatori con incarichi strategici al fianco di amministratori delegati e direttori generali. "Siamo esperti nell'analisi dei dati e quindi mi sembra logico che veniamo chiamati anche a valutarli e interpretarli", spiega serenamente Gill Aitchinson di Ipsos, il colosso francese delle ricerche di mercato, che ha recentemente unificato le divisioni consulenza e ricerca. Quasi tutti i grandi nomi del settore, da Nielsen a Kantar, da Ims a GfK, offrono ormai anche un servizio di consulenza accanto alle loro più tradizionali attività di ricerca. Wpp, casa madre di Kantar e numero tre mondiale della pubblicità (dietro alle americane Omnicom e Interpublic), ha appena reclutato Tamara Ingram, ex a.d. di Saatchi & Saatchi, per dare più slancio alla sua divisione di consulenza informativa. "Spesso i clienti restano impantanati nei dettagli e nelle metodologie rigorose usate dalla ricerca tradizionale: il segreto è finalizzare i risultati ottenuti ai bisogni del cliente, partendo da una conoscenza approfondita del suo business. Insomma, un'informazione non è un'informazione se non porta all'azione e alla crescita", spiega Ingram. Molti tradizionalisti temono che mischiare la cultura consulenziale con quella del ricercatore puro finirà per danneggiare la credibilità dei risultati finali. E anche l'uso strumentale delle ricerche di mercato a fini squisitamente pubblicitari, sempre più in voga negli ultimi anni, viene criticato pesantemente dei puristi. "Dubbi e paure comprensibili - commenta l'associazione europea di categoria, Esomar, in un recente studio sull'argomento - che però dovrebbero essere ben presto placati dai crescenti sforzi per concordare standard qualitativi comuni alle diverse associazioni territoriali, volti a monitorare con precisione la performance del settore". Ma evidentemente fare concorrenza a consulenti e pubblicitari, usando le informazioni raccolte per dare consigli sul branding o sulle strategie innovative delle imprese, paga. Secondo i dati Esomar, i tassi di crescita delle ricerche di mercato nei dieci Paesi che rappresentano l'80% del business, nel 2002 sono stati notevoli: dal 2% degli Usa al 54% della Cina, con un 10% della Francia, un 8% in Germania, un 6% nel Regno Unito, un 3,5% in Italia, non si può certo dire che il settore navighi in cattive acque. In termini di fatturato, l'Italia occupa il sesto posto nella graduatoria dei primi dieci Paesi, con un giro d'affari da 500 milioni di euro e circa ventimila addetti (su 650mila mondiali). Al primo posto ci sono naturalmente gli Stati Uniti con una quota del 38% (equivalente a quella dell'Unione europea), seguiti dal Regno Unito, la Germania, la Francia e il Giappone. Il mercato mondiale è molto concentrato, con le prime dieci società che si accaparrano il 54% della torta. Al contrario in Italia il mercato è estremamente frammentato, con pochi grandi e numerosissimi piccoli istituti. Nel 2002 le prime cinque società internazionali (Ims, Iri, Ipsos, Nielsen, GfK) hanno messo a segno un fatturato di circa 120 milioni di euro, superiore a quello di quasi 80 milioni delle prime cinque locali (Eurisko, Unicab, Dpxa, Databank e Hdc). Secondo i dati Assirm (l'associazione di categoria che raggruppa 34 istituti di ricerca equivalenti ai tre quarti del mercato italiano), le aree di maggiore rilevanza, oltre ai beni di consumo, sono i farmaceutici, i media, i beni durevoli e semidurevoli, le telecomunicazioni e l'informatica, ma l'utilizzo delle ricerche di mercato è largamente diffuso a supporto delle decisioni di imprese e istituzioni in tutti i settori. Sul fronte delle metodologie, continua ovviamente ad espandersi l'uso di Internet, che per le ricerche di mercato ha rappresentato una vera e propria rivoluzione. Tanto nell'analisi quantitativa, che descrive e misura i fenomeni, quanto nell'analisi qualitativa, che scava nelle cause all'origine dei comportamenti, l'utilizzo diretto o indiretto della rete è sempre più diffuso. Da un fatturato globale di 92 milioni di dollari registrato nel '99, le ricerche via Internet dovrebbero raggiungere quest'anno un giro d'affari di 648 milioni (nel 2002 erano a quota 542 milioni). Secondo l'Assirm, però, in Italia il metodo più in crescita è il focus group tradizionale, che serve a verificare la percezione di un determinato prodotto o messaggio pubblicitario presso un piccolo gruppo di 8-10 persone condotte da un moderatore esperto. Sul fronte delle indagini quantitative, cioè quelle che mirano a dare una lettura oggettiva di comportamenti, opinioni, conoscenze e atteggiamenti attraverso strumenti statistico-matematici, si consolida invece il metodo dell'indagine telefonica. Resta valido, in ogni caso, il concetto espresso da Peter Drucker nel suo famoso saggio sulla "Società post-capitalista": la risorsa fondamentale per l'impresa non è più rappresentata dal capitale, dalle risorse naturali o dal lavoro, ma dalla conoscenza e dai soggetti che la generano.

30 novembre 2003

Gary Becker

"Il patto di stabilità è morto, ma è inutile recriminare: la sua morte dimostra che qualsiasi accordo di politica fiscale non può prescindere dalle esigenze della crescita economica. L'importante, ora, è che l'Europa colga quest'occasione per cambiarlo, altrimenti resterà una costante fonte di conflitto". Gary Becker, premio Nobel per l'economia e docente all'universtià di Chicago, patria dei monetaristi alla Milton Friedman, non ha dubbi sulla necessità di riformulare i criteri su cui poggia la stabilità dell'eurozona. E soprattutto non ha dubbi sull'urgenza di ridare fiato all'economia tedesca, locomotiva del Vecchio Continente che va rimessa in moto al più presto se ci si vuole agganciare alla ripresa americana.
Non crede che sarebbe stato meglio evitare questa profonda frattura tra le autorità politiche e monetarie d'Europa?
"Le risponderò con un'altra domanda: lei pensava davvero che Germania e Francia si sarebbero piegate alla regola del 3%, accettando di pagare una penale salatissima in caso di violazione? Una norma così rigida sembra messa lì apposta per non essere rispettata e in effetti è successo proprio così".
Quindi è il patto che secondo lei si basa su presupposti sbagliati…
"Il patto identifica un problema importante: livelli insostenibili di debito pubblico possono portare a una crisi, che avrebbe conseguenze disastrose in un'unione monetaria come la vostra. Ma la Germania e la Francia non hanno livelli di debito preoccupanti. I Paesi dell'eurozona con uno stock di debito eccedente il 100% del Pil sono solo tre: l'Italia, la Grecia e il Belgio. Per questi Paesi può avere senso un limite drastico come quello del deficit al 3%, che li costringa a ridurre il livello del debito. Ma per gli altri, compresa la Germania e la Francia, le regole devono essere più elastiche".
Ad esempio?
"Una regola che obbliga i Paesi a contenere rigidamente le proprie spese anche durante i periodi di recessione è destinata a non durare, soprattutto in un'unione monetaria, dove i governi nazionali non possono più usare lo strumento della politica monetaria per compensare altri squilibri. Se si vuole mettere un limite, dunque, bisognerebbe escogitare un sistema più flessibile, ad esempio un tetto del 60% allo stock del debito, com'è scritto nel trattato di Maastricht. I singoli Paesi dovrebbero poi regolarsi da soli per restare al di sotto di questa soglia, spendendo più liberamente nei periodi di recessione e cercando di ridurre la spesa pubblica quando il ciclo è favorevole".
Non crede che una norma così generica finirebbe per danneggiare la stabilità dell'euro e far crescere l'inflazione?
"Credo che l'Europa abbia molto più bisogno di crescita che di stabilità. La performance dell'economia europea è stata mediocre anche negli anni del boom, a causa di alcune debolezze strutturali. Se per stimolare la crescita c'è bisogno di tagliare le tasse, come sta cercando di fare adesso il governo Schroeder, lasciamogliele tagliare, anche se questo aumenta il deficit. Negli Stati Uniti è stato fatto così e ora abbiamo un deficit che supera quello dei tedeschi. Ma la nostra economia ha ripreso a girare e col tempo il deficit rientrerà da solo".
Non teme una brusca scivolata del dollaro?
"Non vedo grandi pericoli in questo senso. Il dollaro debole per ora ci ha fatto soltanto comodo".
Suggerimenti?
"Per diventare più competitiva l'Europa deve concentrarsi sulle riforme del mercato del lavoro, del welfare, della sanità… Sono questi i temi su cui bisogna spostare il dibattito. Come si fa a stimolare la produttività (che in Europa cresce meno dell'1%, contro il 2,5% degli Usa) costringendo la gente a non lavorare più di 35 ore alla settimana, come in Francia?"

24 novembre 2003

L'intelligenza delle cose

Tutto è cominciato nell' 86, alla Philips Automation di Monza, «dove lavoravo alla progettazione di sistemi elettronici». E' lì che Luigi Battezzati, docente al Politecnico di Milano e consulente della Gea oltre che maggiore esperto italiano di Rfid (Radio frequency identification), si è imbattuto nei primi sistemi di programmazione remota in radiofrequenza, gli antenati degli attuali radio tag, le etichette elettroniche destinate a sostituire i codici a barre per identificare i prodotti lungo la catena di montaggio o sugli scaffali dei supermercati. «Allora - racconta Battezzati - erano scatolette un po' più grandi di un cellulare, piccole radio con antenna interna e dotate di batterie. Costavano 2-300 dollari l' uno e venivano usati soprattutto nell' industria automobilistica (ad esempio alla Bmw) o nelle ferrovie per identificare il contenuto dei vagoni (ad esempio in Finlandia)». I radio tag che abbiamo a disposizione oggi sono chip non più grossi di un capello, che possono essere inseriti in una targhetta identica a quella dei codici a barre: non hanno più bisogno di una batteria perché utilizzano l' energia trasmessa dal segnale radio che li attiva, né di un' antenna tradizionale perché basta una spira su supporto flessibile e il costo ormai è sceso al di sotto del mezzo dollaro. «Lo sviluppo di tecnologie dotate di memoria distribuita e capaci di rispondere a interrogazioni wireless - spiega Battezzati - sta cambiando completamente le logiche di gestione della produzione industriale. Un' etichetta intelligente come questa, ad esempio, non solo può tenere traccia di tutta la storia del prodotto, ma non richiede nemmeno alcun tipo di manutenzione o ricarica». Per questo l' Rfid, che dà intelligenza e memoria anche agli oggetti fisici, viene spesso definito l' Internet delle cose. I campi applicativi di questa nuova tecnologia spaziano dalla gestione dei vassoi riciclabili su cui viaggiano milioni di confezioni della divisione alimentare di Marks & Spencer alle lavatrici intelligenti della Merloni, dal supermercato del futuro inaugurato recentemente dalla Metro a Rheinberg, in Germania, al negozio di Prada a New York, dagli occhiali intelligenti della Safilo alla supply chain intelligente di Benetton. Il raggio d' azione si allarga molto se s' includono anche i sistemi riutilizzabili, molto usati nell' industria automobilistica (Ford e Ducati) e nella gestione dei mezzi di trasporto, dalle ferrovie svizzere ai pedaggi autostradali tipo Telepass, dalle carte di accesso delle ferrovie giapponesi alla gestione dei bagagli all' aeroporto di San Francisco. «La tracciabilità dei processi dalla materia prima al prodotto finale e anche oltre è una rivoluzione di portata storica, su cui ormai sono mobilitati in forze i centri di ricerca di tutto il mondo», commenta Battezzati. A partire dall' AutoId Center del Mit, sponsorizzato da diverse multinazionali, dove il direttore Kevin Ashton assicura che avremo venti miliardi di tag in uso entro il 2007 e mille miliardi entro il 2010, fino al Politecnico Federale di Losanna, dove Battezzati interviene su questo tema nell' ambito del master di logistica. Anche al Politecnico di Milano sono in corso studi di fattibilità per aprire un osservatorio permanente sull' Rfid, il primo in Italia e uno dei primi in Europa. L' idea è di collegarsi con gli altri sforzi della ricerca europea, da quelli intrapresi all' Ecole nationale des ponts et chaussées di Parigi a quelli dell' istituto Fraunhofer di Monaco di Baviera. Ma per sviluppare una ricerca internazionale in comune, superando confini e barriere, la strada è lunga. Classe ' 56, laureato al Politecnico di Torino, specializzato in Economia aziendale alla Sda Bocconi, Battezzati ha lavorato fino al ' 91 in varie società internazionali d' ingegneria, dalla Philips all' Alcatel, nella progettazione e gestione di sistemi produttivi. Dall' 87 al ' 91, con il Fata Group di Torino, ha progettato e diretto la costruzione della prima fabbrica russa per la produzione di sistemi di refrigerazione, un gigantesco stabilimento vicino a Kazan che sforna 70mila celle frigorifere all' anno. Dal ' 91 è entrato in consulenza con Gea, continuando a progettare fabbriche chiavi in mano come lo stabilimento di Nola della Alenia. Da tre anni è tornato al Politecnico di Milano, dove insegna gestione della produzione industriale. E il cerchio si chiude: a quasi vent' anni dal suo incontro con i primi apparecchi di tracciamento in radiofrequenza, nello stabilimento Philips di Monza che oggi non esiste più, a settembre ha visto i nuovi chip partecipare al Gran premio di Monza nascosti dentro ai biglietti, per monitorare il numero di degli spettatori. «Nonostante il problema della privacy, che potrebbe essere superato - conclude Battezzati - è questo il futuro della logistica».

23 novembre 2003

Ma il bilancio sociale chi lo legge?

L'industria alimentare è sotto accusa per il diffondersi dell'obesità. Agli operatori di telefonia mobile vengono imputate responsabilità nella diffusione fra i teenager della pornografia online. L'industria discografica viene attaccata se porta in tribunale i pirati elettronici che si scambiano file musicali. Il settore finanziario, infangato dagli scandali societari alla Enron, è sotto la lente d'ingrandimento di azionisti vicini e lontani. Fare impresa oggi è diventato sempre più difficile e le grandi multinazionali, ma anche le aziende più piccole, sono continuamente chiamate a rendere conto delle proprie scelte etiche in materia sociale e ambientale. L'idea che l'azienda debba impegnarsi anche sul fronte della responsabilità sociale, oltre che nella battaglia per la performance economica, in realtà non è nuova: dai numi tutelari sette-ottocenteschi Jeremy Bentham e Carlo Cattaneo a un moderno guru del management come Peter Drucker, che sin dagli inizi degli anni Quaranta ha parlato di "dimensione sociale delle imprese", gli esempi non mancano. La novità sta nella crescente richiesta di trasparenza su questi temi, nella necessità di uscire dagli schemi paternalistici del passato per fissare nero su bianco le esigenze della comunità e misurare con precisione la performance delle aziende su questo fronte. Il rendiconto non va più diretto solo agli shareholders, i portatori di azioni, ma anche agli stakeholders, i portatori di interessi, siano essi interni o esterni all’impresa (dipendenti, fornitori, clienti, enti pubblici, comunità, ambiente). Di fronte alle richieste del pubblico, molte aziende stanno dunque prendendo il toro per le corna e cercano di trasformare la propria "pagella" etico-sociale in un vantaggio competitivo. Unendo così l'utile al dilettevole. Lo strumento principe per questo reporting non finanziario è il bilancio sociale. Quaranta delle prime cinquanta aziende europee producono un bilancio sociale. Regno Unito e Olanda sono i due Paesi più all'avanguardia su questo fronte: Vodafone è stata una delle prime aziende europee a seguire la strada del bilancio sociale e il suo direttore responsabile in materia, Charlotte Grezo (ex Bp) è famosa per il suo impegno, molto sostenuto dal presidente Chris Gent. Negli Stati Uniti sono solo 22, sulle prime 50 dell'S&P, le aziende che producono un bilancio sociale, ma il trend è in forte crescita. Microsoft, Lucent, United Technologies e Altria (casa madre di Kraft e Philip Morris) si sono associate quest'anno a Business for Social Responsibility, un'organizzazione a cui appartengono quasi cinquecento aziende - fra cui Wal-Mart, Sony, General Motors, Pfizer e Shell - che offre sostegno e consulenza in questo percorso. Per l'impresa la strada dello sviluppo sostenibile e dello stakeholders management si può rivelare una vera e propria patente di competitività. L'impresa socialmente responsabile, che comprende le aspettative dei propri interlocutori, aumenta la propria legittimità prevenendo eventuali situazioni di conflitto. Spesso la responsabilità sociale si traduce anche in aumento della qualità, perchè si trattengono i talenti, migliora il clima interno e aumenta il grado di partecipazione di tutti i dipendenti verso gli obiettivi dell'azienda. Di riflesso, c'è anche un riconoscimento da parte dei mercati finanziari che gradiscono l'impegno dell'azienda sotto il profilo della trasparenza e del miglioramento dei processi. Certo il bilancio sociale non rappresenta una garanzia assoluta del buon comportamento di un'azienda. Soprattutto i primi tentativi spesso contengono più apparenza che sostanza. Ma le aziende che imboccano questa strada sono costrette a esprimere la propria posizione sui passaggi critici dei propri processi produttivi, a porsi degli obiettivi da raggiungere e a stabilire dei metodi per misurare i progressi. Chi non prende sul serio questo processo fallisce gli obiettivi e non supera i monitoraggi successivi. Gli indicatori chiave di solito si concentrano sulle responsabilità di fronte al mercato (numero dei reclami, livello della soddisfazione dei clienti, capacità di servire anche clienti con esigenze particolari, casi di comportamento anti-competitivo…), nei confronti dell'ambiente (consumo di energia e dell'acqua, produzione di rifiuti, emissioni di gas serra, altre emissioni come ozono, radiazioni, particolati…), nei confronti dei dipendenti (profili dei lavoratori in base al sesso, alla razza, agli handicap o all'età, livelli di assenteismo, numero di reclami da parte dello staff, numero di incidenti sul lavoro, numero di violazioni di leggi sulla salute o la sicurezza, tasso di turnover, livello del training fornito ai dipendenti…) e verso la comunità (valore della beneficenza in rapporto agli utili al lordo delle tasse, valore del tempo dedicato dallo staff al volontariato…). Tutta questa trasparenza, però, ha anche i suoi svantaggi: l’enorme aumento dei report non finanziari sta portando a un vero e proprio sovraccarico d’informazioni. Negli ultimi due anni la lunghezza media dei bilanci sociali esaminati in uno studio di SustainAbility, un think-tank dedicato, è aumentata da 59 a 96 pagine. Ma chi li legge? E soprattutto: sono davvero rilevanti? La sfida per il mondo della responsabilità sociale, ora che l'impegno delle aziende si fa più diffuso, è trovare uno standard comune per dare obiettività e confrontabilità ai giudizi, oltre che per sintetizzarli in dati il più possibile schematici. Ma soprattutto, ammoniscono gli imprenditori, l’importante è non cadere nell'eccesso di rendere queste regole obbligatorie per tutti. Il dibattito su questo fronte si fa sempre più acceso e proprio il mese scorso le Nazioni Unite hanno pubblicato una bozza di "Normativa sulle responsabilità delle multinazionali" che ha gettato molti manager nel panico, perché prospetta l'istituzione di una vera e propria censura delle aziende accusate di violazione dei diritti umani. Un passo falso, che rischia di far chiudere le imprese a riccio di fronte a nuovi lacci in cui si sentono sempre più ingabbiate.

17 novembre 2003

Luc Soethe

Luc Soete, celebre economista dell' università di Maastricht, è convinto che costruire un nuovo Mit in Italia non sia l' idea migliore. Dall' 88 dirige il Merit, un centro di eccellenza in studi socio-economici sull' innovazione tecnologica, dopo aver lavorato allo Spru, l' istituto gemello dell' università del Sussex, e insegnato a Stanford. Soete, a Milano per una conferenza internazionale del progetto Star sulle politiche per la banda larga, pensa che per l' Europa sia meglio costruire sull' esistente. E costruire in fretta, se non si vuole perdere altro terreno prezioso. Gap «Certo - dice Soete -, per colmare il gap che ci allontana dagli Stati Uniti in materia d' innovazione l' Europa avrebbe proprio bisogno di tanti nuovi Mit: ma il Mit è un' istituzione nata 150 anni fa da precise circostanze economiche e culturali, che hanno portato a un mix unico al mondo di eccellenza scientifica e di spirito imprenditoriale, con risorse finanziarie inimmaginabili in un continente come l' Europa, dove l' industria ha quasi smesso d' investire in ricerca e sviluppo. Lasciamo ai Paesi emergenti, che già lo stanno facendo a piene mani, la buona volontà di partire da zero. Da noi è inutile riversare valanghe di risorse pubbliche in nuove istituzioni che rischiano di fallire non appena inaugurate. Usiamole semmai per promuovere la ripresa degli investimenti privati, realizziamo politiche innovative per eliminare le barriere culturali, sociali e istituzionali che impediscono lo sviluppo della conoscenza». Sono centri di ricerca come il campus di Philips a Eindhoven, di Shell a Lovanio, di Microsoft a Cambridge o quello appena fondato da StMicroelectronics insieme a Motorola vicino a Grenoble - secondo Soete - la risposta giusta alla sfida lanciata a Lisbona nel marzo del 2000, che voleva fare dell' Europa, entro il 2010, la società più competitiva e dinamica del mondo, basata sulla conoscenza. Invece, in questi tre anni il gap in materia di conoscenza e sviluppo tecnologico si è allargato, la produttività europea si allontana da quella americana e la crescita economica è sempre più in ritardo. Ma non è sulla ricerca pubblica che l' Europa perde terreno, anzi. Su quel fronte il gap è modesto e in via di riduzione. E' sugli investimenti privati che il piatto piange. «Peccato che siano proprio gli investimenti privati - fa notare Soete - il motore della crescita e dello sviluppo tecnologico. Non a caso i Paesi europei più sviluppati in questo senso, come Finlandia e Svezia, sono quelli che spendono di meno nella ricerca pubblica, mentre i meno sviluppati, come la Grecia, il Portogallo e la Spagna, sono quelli che spendono di più». E' da questo divario che bisogna partire per capire qual è il sasso su cui il treno europeo dell' innovazione è deragliato. Perché la ricerca universitaria in Europa non riesce ad attrarre capitali privati? E' un problema di qualità? E' troppo frammentata? E' troppo chiusa negli steccati nazionali? «Non si tratta di qualità - risponde Soete -. Semmai è la frammentazione che limita i rapporti fra università e imprese. In Europa ogni università si butta sulle aree più promettenti della ricerca, come le scienze della vita, le nanotecnologie, i nuovi materiali, l' information technology, con il risultato di formare una miriade di piccoli gruppi di ricerca ma nessun centro di eccellenza con un peso specifico sufficiente ad attrarre l' attenzione dell' industria privata. D' altra parte l' industria è sempre più lontana dalla ricerca pura e quindi non offre ai ricercatori un ambiente adatto a perseguire i loro interessi». Per rimettere in moto il treno dell' innovazione bisognerebbe portare gli scienziati a innamorarsi delle applicazioni industriali e le imprese a innamorarsi della scienza. Ogni incentivo in questo senso è benvenuto. Lisbona Ma l' obiettivo di Lisbona - avverte Soete - si sta rivelando irrealistico. «In Portogallo infatti gli euroleader non hanno dichiarato solo l' intenzione di trasformare la nostra società nella più competitiva del mondo, ma anche la necessità di farlo senza abbandonare le sicurezze del passato. Ma sono compatibili questi due obiettivi?». In altre parole: si possono conciliare distruzione creativa, innovazione e imprenditorialità con un ambiente che garantisce sicurezza e protezione del posto di lavoro? «Da questa prospettiva - dice Soete - il gap tra Europa e Usa in capacità innovativa può anche essere il prezzo da pagare per mantenere in piedi un modello che pone l' accento soprattutto sulla sicurezza sociale».

16 novembre 2003

I pericoli del counter-branding

Quando ha cominciato a diffondersi in tutto il mondo la moda di rubare dalle Mercedes la stella a tre punte per appendersela al collo come un medaglione, a Stuttgart c'è stato un attimo di disorientamento. Da un lato l'inattesa popolarità del logo lusingava gli uomini del marketing, dall'altra l'associazione con la piccola criminalità non ha proprio dato lustro al marchio. A un certo punto le richieste di rimpiazzare il famoso distintivo erano diventate talmente tante, che la casa tedesca ha dovuto mettere a disposizione un servizio automatico per la clientela. Ben di peggio è successo più di recente alla rivale Audi in Inghilterra: la scorsa estate la carcassa di una TT crivellata di proiettili con dentro il cadavere di un giovanissimo rapper è finita sulle prime pagine di tutti i giornali in occasione di un regolamento di conti tra bande rivali fuori da un concerto di Lisa Maffia dei So Solid Crew. Da allora il gruppo - i cui membri sono accusati di tentato omicidio, possesso di armi e commercio di droga - usa liberamente il logo Audi nel suo materiale promozionale. A Ingolstadt non si strappano i capelli, ma ci siamo vicini. Non è la prima volta, del resto, che un marchio automobilistico finisce associato ai gusti dei criminali: negli ultimi anni Novanta il "trifoglio" Mitsubishi circolava in tutte le discoteche stampato sulle pasticche di ecstasy. Le "mitsi" - molto ricercate per la loro fama di straordinaria purezza - generarono una tale ondata di popolarità per la marca di automobili che nessun ufficio marketing potrebbe mai sognare di costruire a tavolino. Ma l'associazione con la delinquenza per un brand può essere il bacio della morte. Soprattutto se l'aura noir si scontra frontalmente con i valori su cui è impostato il marchio. Nel caso di Audi, che ha lavorato anni per costruirsi un'immagine sportiva, moderna e sofisticata, la sparatoria di Turnmill potrebbe trasformarsi in un incidente di percorso non da poco, soprattutto nei suoi rapporti con la clientela britannica. "D'altro canto - dicono a Ingolstadt - sono situazioni su cui possiamo incidere ben poco e nessuno ci potrà certo accusare di complicità con le attività illegali di questa gente". Resta il fatto che spesso ha più effetto sull'immagine di un brand un episodio casuale come questo di tutte le campagne pubblicitarie del mondo. Molte delle marche prese di mira non hanno la minima idea dei motivi per cui sono state scelte: perché le subculture metropolitane tipo hip hop e i gruppi di musica rap si concentrino su questo o quel marchio per farne una bandiera è un mistero non ancora rispolto. Ma l'attenzione del marketing per questo tipo di fenomeni cresce in rapporto alla penetrazione sempre più massiccia delle mode di strada nella società. Ad esempio Allied Domecq (numero uno mondiale nella produzione di liquori) non ha disdegnato il brivido da ghetto metropolitano conferito dal disco "Pass the Courvoisier" del gruppo hip hop Busta Rhymes al venerabile cognac di Napoleone. E già partono i primi ammonimenti: "Attenzione a non farsi prendere dalla tentazione di incorporare le subculture metropolitane nell'immagine del proprio brand", diffida Sophie Spence, dell'agenzia Mother. "E' un passaggio ancora troppo pericoloso", conclude Spence. Se non altro perché le subculture tendono a costruire e distruggere i loro idoli a velocità supersonica, ma soprattutto perché finiscono per coinvolgerli in vicende non particolarmente entusiasmanti, come si è visto con Audi. Per restare nell'ambito delle pasticche di ecstasy, ad esempio, ora le "mitsi" sono completamente scomparse e gli esemplari più ricercati sono targati con l'aquila di Armani o con la coroncina di Rolex. Anche l'improvvisa popolarità fra gli hooligan inglesi del classico scozzese Burberry, a righe rosse e nere su sfondo beige, potrebbe durare lo spazio di un mattino, ma in questo caso è stata sicuramente la campagna di svecchiamento intrapresa dal marchio britannico per emanciparsi dalla sua clientela tradizionalista a scatenare l'interesse dei tifosi violenti. La scelta ardita di testimonial come Madonna, Kate Moss e David Beckham, che ha quintuplicato il fatturato dell'austera casa londinese e lanciato il mito dell'a.d. Rose Marie Bravo (ex-Saks Fifth Avenue), non implica necessariamente un aumento di popolarità nei bassifondi, ma spesso la trasformazione radicale di un marchio può degenerare e il ridimensionamento dei prezzi di molti accessori ha favorito la comparsa di camicie e berretti da baseball di Burberry sugli spalti più temuti degli stadi britannici. Un passaggio inverso è invece quello che sta compiendo Ben Sherman, marchio spesso associato con ambienti neonazisti, soprattutto per quanto riguarda la camiceria: le decise contromosse della casa di moda per distanziarsi dagli ambienti della destra violenta hanno avuto successo, ma le perdite sono state dolorose. "Sapevamo che il nostro brand era considerato di destra - spiega Andy Rigg, marketing manager di Ben Sherman - soprattutto in Francia, in Germania e in Italia. Per questo abbiamo deciso di uscire dai canali distributivi tipici di quegli ambienti, perdendo un bel po' di affari. Ma alla lunga è uno sforzo che paga". Eliminate anche le teste rasate e i toni aggressivi dalle campagne pubblicitarie, ora Ben Sherman è pronto per il pubblico più vasto. In definitiva, è facile farsi scippare sotto il naso l'immagine di un marchio senza motivi ben definiti, ma non è impossibile riacchiapparlo prima che degeneri e spesso il fenomeno rientra da solo abbastanza rapidamente, soprattutto se si tratta di un brand molto forte. Tutti ricordiamo come il tipico slogan Enjoy Coke sia stato immediatamente trasformato in Enjoy Cocaine e stampato su milioni di t-shirt. Da allora ad oggi Coca-Cola ha avuto parecchi grattacapi, ma non le sono certo derivati dal deragliamento di uno slogan che sembrava fatto apposta per essere preso in giro.

9 novembre 2003

Il cliente? Va attratto con l'assenza

Il cliente ha sempre ragione, si diceva una volta. Oggi invece il cliente ha un profilo elettronico depositato in chissà quanti archivi con tutte le sue preferenze, il suo numero di telefono e il suo indirizzo di posta elettronica, che vengono quotidianamente bombardati da chiunque gli voglia vendere qualcosa. Lo chiamano customer relationship management (Crm) e dovrebbe migliorare la comunicazione tra fornitori e clienti, per non farseli scappare. Invece spesso ottiene l'effetto contrario. Tant'è vero che solo un quarto degli investimenti riversati negli ultimi dieci anni su questo fronte ha prodotto il ritorno desiderato. E non si tratta di noccioline: nel 2002 la spesa mondiale in Crm ha toccato i dodici miliardi di dollari e secondo le previsioni di Frost & Sullivan è destinata a raddoppiare nel giro di quattro anni. Eppure le aziende specializzate in Crm sono in profondo rosso: l'anno scorso hanno perso globalmente 8,8 miliardi di dollari. E dopo questa débacle comincia a farsi strada qualche dubbio. La marea montante di offerte speciali, promozioni e carte fedeltà che invadono la posta elettronica o quella reale, gli auguri di compleanno dell'operatore mobile sul telefonino, le intrusioni quotidiane di ogni tipo stanno diventando talmente moleste che ormai siamo alla crisi di rigetto: si calcola che il cittadino occidentale sia sottoposto a circa settecento sollecitazioni pubblicitarie e di marketing al giorno. Come si può pretendere che le prenda sul serio? E' a questo problema che hanno cercato di dare risposta, ognuno dal suo punto di vista, Frederick Newell e Stephen Brown, con due libri usciti a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro: Why Crm Doesn't Work, pubblicato quest'estate da Bloomberg Press, e Free Gift Inside (Capstone Publishing). Newell, consulente a San Diego e celebrato autore di loyalty.com e The New Rules of Marketing, riparte dai fondamentali con la sua riflessione. In qualsiasi rapporto tra fornitori e clienti, infatti, non bisogna mai perdere di vista la base di partenza: cliente e fornitore hanno interessi nettamente divergenti. Il cliente, infatti, non ha nessun piacere di intrattenere relazioni con il fornitore, mentre il fornitore sì. O meglio: mentre al fornitore fa comodo conoscere estesamente gusti e abitudini del cliente, le uniche relazioni che il cliente vuole avere con il fornitore concernono la qualità dei suoi prodotti e il livello dei suoi prezzi. Ma la sofisticazione tecnologica dei profili della clientela è cresciuta talmente in fretta con lo sviluppo del commercio elettronico, dell'interattività della rete e dell'analisi dei dati che la gente ha la sensazione di essere braccata dalle aziende invece che servita con sensibilità e rispetto. Di conseguenza, dice Newell, è necessario fare un passo indietro e rimettere il cliente al centro del quadro, offrendogli l'opportunità di "comunicarci che cosa le interessa, che tipo di informazioni desidera, che livello di servizio vuole avere e come vuole che noi comunichiamo con lei - dove, quando e quanto spesso". Non più customer relationship management, dunque, ma customer management of relationships, suggerisce Newell, ribaltando i rapporti di forza. Anche Stephen Brown, partendo da una base completamente diversa, va a parare nella stessa direzione: i clienti non possono più essere sedotti sommergendoli di inviti e promesse, ma vanno invece attratti con l'assenza. Teneteli alla larga - suggerisce Brown - e loro accorreranno, cercando affannosamente proprio quello che non possono avere con facilità. Docente di marketing all'università dell'Ulster, Brown è noto per il suo approccio anticonformista alla materia. In Free Gift Inside Brown sviluppa nei dettagli un tema già accennato nel saggio Torment Your Customers (pubblicato sulla Harvard Business Review), dedicando un intero capitolo al fenomeno Harry Potter. Come in altri esempi tratti dall'industria culturale (vedi l'uscita di Star Wars nel '99), il libro del maghetto è un tipico caso di marketing dell'assenza: segretissimo fino all'ultimo, con severe restrizioni agli stampatori e casi rocamboleschi di "furti" sventati o di copie vaganti vendute per sbaglio nella profonda West Virginia, l'editore ha contribuito a creare un clima di eccitazione molto maggiore di qualsiasi sventagliata di promozioni tradizionali. Lo stesso concetto della rarità dei diamanti, fa notare Brown, è una favola inventata da De Beers. Ma se sono le favole che fanno vendere di più - lancia il sasso nello stagno - perché non raccontarle?

3 novembre 2003

Piccolo è bello

Quando le luci si spengono e il Paese rimane al buio, a Bergamo c' è un centro commerciale dove la vita continua normalmente. E non grazie a un generatore che ingurgita fiumi di gasolio, ma in virtù di un silenzioso armadietto che beve metano per poi riversare energia elettrica e aria calda nelle esauste vene del sistema. «Con la liberalizzazione l' energia in eccesso può essere immessa nella rete di distribuzione nazionale e rivenduta, ammortizzando il costo della macchina», spiega Fabio Fontana, amministratore delegato di Jucker Energia, che commercializza in Italia le minicentrali diventate di moda dopo il blackout di settembre. Turbine Le unità di micro-cogenerazione sono impianti che utilizzano turbine a gas per dare energia elettrica e termica (calore o refrigerazione) a grandi condomini, ospedali, centri commerciali e sportivi, scuole e stabilimenti produttivi con un' efficienza che sfiora l' 80% (contro il 35% delle normali centrali termoelettriche) e un impatto ambientale di molto inferiore a quello fissato dagli accordi di Kyoto. In generale possono essere usate da tutti gli utenti di dimensioni medio-grandi che esprimono una necessità costante di energia elettrica e termica: è così in tutto il Centro e Nord Europa, dove circa il 10% dell' energia complessiva proviene da impianti decentrati di questo genere, per non parlare dell' Olanda, dove siamo ormai al 40%, con ovvie ricadute sulla sicurezza dell' approvvigionamento energetico. Molto sfruttate anche nei Paesi in via di sviluppo (India e Cina in testa) e negli Stati Uniti soprattutto dopo il blackout in California, le minicentrali a gas sono considerate in Occidente un valido supporto per le reti energetiche nazionali sempre più sovraccariche, oltre che un modo economico ed efficiente per produrre energia senza dispersioni di calore dannose per l' ambiente e con bassissime emissioni di ossidi di azoto e di anidride carbonica. Ma non in Italia. La secolare concentrazione della produzione di energia nelle mani di un soggetto unico e la disastrosa condizione della rete elettrica nazionale, a cui manca l' interconnettività richiesta dalla liberalizzazione europea, rende particolarmente difficile il decentramento della produzione di energia a livello locale. «Siamo sommersi di richieste - spiega Fontana, ingegnere nucleare già amministratore delegato di British Gas Italia e di Serene, joint-venture energetica con Fiat - ma le normative che regolano l' allacciamento alla rete nazionale sono talmente restrittive da trasformare ogni installazione in un rompicapo. La rete elettrica italiana è così antiquata da esigere l' utilizzo di barriere fisiche per regolare il flusso di energia che esce dal produttore locale. Gioielli E pensare che queste macchine, veri e propri gioiellini dell' elettronica prodotti dalla Bowman, leader mondiale del settore, nel Regno Unito vengono allacciate in un minuto e poi dialogano con la rete a livello di collegamento informatico. Qui sembra di spostarsi in un altro secolo». Il fatto è che la rete elettrica italiana non è fittamente interconnessa («magliata», si dice in gergo) come quella europea. Il nodo verrà presto al pettine, perché il regolamento Ue di accesso alla rete per gli scambi transfrontalieri di energia presuppone un adeguamento allo standard europeo. Resta il fatto che il decentramento della produzione di energia è considerato a Bruxelles una delle risposte più efficienti al sovraccarico delle reti nazionali e che la progressiva liberalizzazione ha aperto un mercato potenziale da 500 milioni di euro alle minicentrali di Jucker Energia, joint-venture fra il gruppo Jucker (che fa capo alla Esfin di Guido Scalfi) e Goal (la società di consulenza energetica di Fabio Fontana). «Un mercato - precisa Fontana - stimato sul 10% degli utenti idonei con un fabbisogno termico abbastanza elevato da giustificare l' impiego di una minicentrale». Stime prudenti, dunque, che con l' ampliamento della liberalizzazione a tutti gli utenti professionali l' anno prossimo potrebbero lievitare.

2 novembre 2003

L'adattabilità è il segreto del successo

Mettiamo a confronto i grafici di due elettrocardiogrammi: uno è apparentemente regolare e costante, l’altro invece presenta dei vistosi sbalzi. A occhio, il primo sembra “migliore” del secondo, ma non è così. Un battito cardiaco eccessivamente stabile indica che quel cuore è malato, perché non è in grado di adattarsi agli input ambientali, mentre l’apparente irregolarità indica la capacità di modificare il proprio ritmo in base alla quantità di ossigeno nei polmoni, il tasso di glucosio nel sangue e così via. Nella vita, la stabilità può essere confortante, ma molto pericolosa. Lo stesso si può dire per un’azienda. Adagiarsi sulla routine, stabilizzarsi sui parametri che ci hanno portato al successo può essere letale se questo ci impedisce di vedere il cambiamento in arrivo. L’accelerazione dei mutamenti tecnologici, di costume o politici portano sempre più spesso la clientela a considerare un prodotto obsoleto e a tradire il marchio abituale per un altro, più al passo con i tempi. Come si fa a evitare la stabilità che ha causato il crollo di Ibm nei primi anni Novanta? O che sta aprendo voragini nei bilanci di Sony in questi giorni? O che ha dato tanto filo da torcere a Fiat? L’unica risposta possibile alla velocità del cambiamento e al ciclo di vita sempre più breve dei prodotti, secondo Chris Meyer, è puntare tutto sull’adattabilità dell’impresa, con alcuni accorgimenti pratici tali da farla assomigliare al cuore sano e non al cuore malato. E non è il solo: da Stan Davis (Futuro Perfetto, Edizioni di Comunità) a Stephan Haeckel e Adrian Slywotsky (Adaptive Enterprise, Harvard Business School Press), da Ralph Stacey (Complexity and Creativity in Organizations, Berrett-Koehler Publishers) a Richard Pascale (Surfing on the Edge of Chaos, Tree Rivers Press), un’intera scuola di pensiero si sta formando sul concetto di convergenza tra biologia, informatica e business. Trarre dalla vita le proprie linee guida, trattando l’impresa come un organismo vivente e prendendo lezioni di adattamento dalla biologia, è già un sistema applicato in maniera più o meno consapevole da molti grandi executive. Gli algoritmi genetici sono ampiamente utilizzati per migliorare motori a reazione, programmi di produzione o modelli di credit-scoring. Ma per facilitare l’interazione fra questi mondi, che caratterizzeranno il volto dell’economia di domani, bisogna entrare in una mentalità gestionale basata sul tempo, in cui il costo del cambiamento non è più una spesa straordinaria ma un normale costo di gestione: dal return on equity al return on time. Per capire meglio questo approccio, basta guardare le aziende che lo usano già. Beyond Petroleum, ex British Petroleum, è uno degli esempi più citati. Lord John Browne, amministratore delegato del colosso britannico dell’energia, passa tutto il suo tempo a trasformare la volatilità da nemico in alleato. Impresa non facile in un mondo, come quello petrolifero, appassionato di stabilità e famoso per la refrattarietà al cambiamento. In Bp, invece, tutto è in movimento, a cominciare dal nome. Nei suoi sette anni al vertice, Browne è stato il primo a passare all’offensiva sul fronte ecologico, portando Bp a raggiungere il 20% della produzione mondiale di energia solare. E per vedere il futuro prima degli altri sta cercando di implementare il ciclo OODA (“osservare, orientare, decidere, agire”) più veloce del settore. In un ambito completamente diverso, quello finanziario, il campione dell’adattabilità è senz’altro Capital One. In soli sette anni di vita, Capital One è cresciuta fino a occupare il sesto posto nel gigantesco mercato americano delle carte di credito. I suoi fondatori, Richard Fairbank e Nigel Morris, hanno vinto la loro battaglia inventando il balance transfer, ovvero la possibilità di trasferire i propri debiti con altre società su una carta di credito erogata da Capital One a un tasso iniziale molto più basso. Ma questa invenzione non è nata dal nulla. Nel mondo di Fairbank e Morris, infatti, le idee proliferano a ritmi incalzanti e anche le più innovative hanno al massimo sei mesi di tempo prima che una folla di concorrenti invada il campo, annullandone l’utilità. Per vincere in questo ambiente Capital One si basa su una sperimentazione scientifica molto aggressiva, cercando di scoprire con centinaia di test diversi le esigenze di ogni singolo cliente e personalizzando al massimo le proprie offerte. La prima vittima di questo approccio è stato proprio il balance transfer, il loro cavallo di battaglia, abbandonato dopo soli di 18 mesi per raccogliere nuove sfide.

Etichette:


Chris Meyer

“L’economia di domani è figlia delle scoperte scientifiche di oggi. Le nuove tecnologie sono i fatti con cui tutti i manager devono confrontarsi se vogliono restare competitivi. E la biologia è la chiave per affrontare l’imperativo dell’adattamento”. Chris Meyer, di passaggio a Milano per presentare alla business community italiana il suo libro Bioeconomia (Edizioni Olivares), prevede un’accelerazione crescente del ritmo a cui viaggia l’innovazione: il tasso di cambiamento raddoppia ogni dieci anni. L’autore di Blur, che ha teorizzato la rivoluzione internet dalla sua posizione privilegiata di direttore del Center for Business Innovation di Cambridge (Massachusetts) di Cap Gemini Ernst & Young, è convinto che come l’information technology ha rivoluzionato il mondo con i microprocessori e i modem, ora la convergenza fra tecnologie informatiche e ingegneria molecolare sta già per creare una nuova ondata, che rischia di cogliere impreparate le imprese incapaci di adattarsi.
Quale sarà la prossima ondata?
“La parola d’ordine del momento è connettività: tecnologie come Bluetooth, WiFi, Gps o i vari tipi di banda larga servono a facilitare le connessioni fra gli esseri umani, a renderle più veloci e più diffuse. Ma la nuova realtà che si sta già evolvendo da questa base è il dialogo fra le macchine. Tecnologie come il radio tag che presto andrà a sostituire il codice a barre sui prodotti dei supermercati, consentono d’instaurare un dialogo automatico fra il punto vendita e il produttore e di telecomandare dal basso i ritmi di produzione in base alle esigenze del mercato. Alla lunga, consentiranno anche d’instaurare un dialogo fra i capi d’abbigliamento e la lavatrice per impostare al meglio i cicli di lavaggio, fra il frigorifero e il supermercato per rifornire automaticamente le nostre case di quello che manca o fra il cibo e il forno per cucinarlo a puntino”.
Detto così, sembra fantascienza.
“Ma se dieci anni fa, quando il Cd-rom era stato appena immesso sul mercato e internet non era ancora entrata nella nostra vita quotidiana, le avessero raccontato come viviamo oggi, non le sarebbe sembrato fantascientifico?”
E quali sono le ricadute sul mondo del business?
“La prima ricaduta è che non si può più pensare d’impostare i modelli di produzione una volta per tutte: gli impianti devono essere aperti alla novità, capaci di evolversi in base alle nuove esigenze. E anche in questo la biologia ci può essere d’aiuto: alla John Deere, per esempio, vengono applicati i metodi di selezione impiegati nell’allevamento dei purosangue per ottenere il programma di produzione utilizzato nella fabbricazione di seminatrici. Quarantamila codici diversi corrono ogni notte sulle piste virtuali dei vari stabilimenti per selezionare le combinazioni migliori, basandosi su algoritmi genetici che ormai sono ampiamente utilizzati anche in altri settori, per esempio nell’analisi dei mercati azionari”.
Altri suggerimenti gestionali?
“Bisogna copiare la natura, utilizzando sei regole di base. Stimolare l’auto-organizzazione, gestendo sempre le imprese in direzione bottom-up, mai top-down. Utilizzare solo sistemi aperti, che consentano la ricombinazione dei codici informatici, delle caratteristiche dei prodotti, delle persone e dei mercati. Dotare la propria azienda di sistemi di percezione e reazione automatica, capaci di rispondere al cambiamento in maniera appropriata. Fare tesoro delle informazioni ricevute, incorporandole nei processi di apprendimento interno. Provare molte opzioni diverse, come nella selezione darwiniana, valorizzando quelle vincenti. Destabilizzare continuamente gli elementi statici della propria organizzazione, adattandosi al ritmo dei cambiamenti ambientali”.

L'adattabilità è il segreto del successo

Mettiamo a confronto i grafici di due elettrocardiogrammi: uno è apparentemente regolare e costante, l’altro invece presenta dei vistosi sbalzi. A occhio, il primo sembra “migliore” del secondo, ma non è così. Un battito cardiaco eccessivamente stabile indica che quel cuore è malato, perché non è in grado di adattarsi agli input ambientali, mentre l’apparente irregolarità indica la capacità di modificare il proprio ritmo in base alla quantità di ossigeno nei polmoni, il tasso di glucosio nel sangue e così via. Nella vita, la stabilità può essere confortante, ma molto pericolosa. Lo stesso si può dire per un’azienda. Adagiarsi sulla routine, stabilizzarsi sui parametri che ci hanno portato al successo può essere letale se questo ci impedisce di vedere il cambiamento in arrivo. L’accelerazione dei mutamenti tecnologici, di costume o politici portano sempre più spesso la clientela a considerare un prodotto obsoleto e a tradire il marchio abituale per un altro, più al passo con i tempi. Come si fa a evitare la stabilità che ha causato il crollo di Ibm nei primi anni Novanta? O che sta aprendo voragini nei bilanci di Sony in questi giorni? O che ha dato tanto filo da torcere a Fiat? L’unica risposta possibile alla velocità del cambiamento e al ciclo di vita sempre più breve dei prodotti, secondo Chris Meyer, è puntare tutto sull’adattabilità dell’impresa, con alcuni accorgimenti pratici tali da farla assomigliare al cuore sano e non al cuore malato. E non è il solo: da Stan Davis (Futuro Perfetto, Edizioni di Comunità) a Stephan Haeckel e Adrian Slywotsky (Adaptive Enterprise, Harvard Business School Press), da Ralph Stacey (Complexity and Creativity in Organizations, Berrett-Koehler Publishers) a Richard Pascale (Surfing on the Edge of Chaos, Tree Rivers Press), un’intera scuola di pensiero si sta formando sul concetto di convergenza tra biologia, informatica e business. Trarre dalla vita le proprie linee guida, trattando l’impresa come un organismo vivente e prendendo lezioni di adattamento dalla biologia, è già un sistema applicato in maniera più o meno consapevole da molti grandi executive. Gli algoritmi genetici sono ampiamente utilizzati per migliorare motori a reazione, programmi di produzione o modelli di credit-scoring. Ma per facilitare l’interazione fra questi mondi, che caratterizzeranno il volto dell’economia di domani, bisogna entrare in una mentalità gestionale basata sul tempo, in cui il costo del cambiamento non è più una spesa straordinaria ma un normale costo di gestione: dal return on equity al return on time. Per capire meglio questo approccio, basta guardare le aziende che lo usano già. Beyond Petroleum, ex British Petroleum, è uno degli esempi più citati. Lord John Browne, amministratore delegato del colosso britannico dell’energia, passa tutto il suo tempo a trasformare la volatilità da nemico in alleato. Impresa non facile in un mondo, come quello petrolifero, appassionato di stabilità e famoso per la refrattarietà al cambiamento. In Bp, invece, tutto è in movimento, a cominciare dal nome. Nei suoi sette anni al vertice, Browne è stato il primo a passare all’offensiva sul fronte ecologico, portando Bp a raggiungere il 20% della produzione mondiale di energia solare. E per vedere il futuro prima degli altri sta cercando di implementare il ciclo OODA (“osservare, orientare, decidere, agire”) più veloce del settore. In un ambito completamente diverso, quello finanziario, il campione dell’adattabilità è senz’altro Capital One. In soli sette anni di vita, Capital One è cresciuta fino a occupare il sesto posto nel gigantesco mercato americano delle carte di credito. I suoi fondatori, Richard Fairbank e Nigel Morris, hanno vinto la loro battaglia inventando il balance transfer, ovvero la possibilità di trasferire i propri debiti con altre società su una carta di credito erogata da Capital One a un tasso iniziale molto più basso. Ma questa invenzione non è nata dal nulla. Nel mondo di Fairbank e Morris, infatti, le idee proliferano a ritmi incalzanti e anche le più innovative hanno al massimo sei mesi di tempo prima che una folla di concorrenti invada il campo, annullandone l’utilità. Per vincere in questo ambiente Capital One si basa su una sperimentazione scientifica molto aggressiva, cercando di scoprire con centinaia di test diversi le esigenze di ogni singolo cliente e personalizzando al massimo le proprie offerte. La prima vittima di questo approccio è stato proprio il balance transfer, il loro cavallo di battaglia, abbandonato dopo soli di 18 mesi per raccogliere nuove sfide.

27 ottobre 2003

Un salvavita per il mercato

Solo un mercato capace di offrire agli operatori un' assoluta trasparenza dei prezzi e una remunerazione decente degli investimenti «riuscirà a sbloccare l' impasse all' origine del blackout di settembre». Antonio Urbano, amministratore delegato di Dynameeting, il principale grossista indipendente che opera sul mercato italiano dell' energia, invita ad accelerare i tempi della liberalizzazione se si vogliono evitare altri blackout. Permessi più facili per chi vuole costruire nuove centrali, deroghe ai limiti di tutela ambientale per consentire alle centrali esistenti di funzionare a tutto vapore, esenzione dal diritto di terzi ad accedere alle nuove linee di interconnessione per incentivare la costruzione di altre linee ancora, accelerazione della riunificazione fra la proprietà e la gestione della rete, sono tutti provvedimenti utili. Ma per risolvere alla radice il problema della produzione insufficiente di energia in Italia, l' unico rimedio vero è portare a compimento la liberalizzazione con il varo della Borsa elettrica, annunciato mille volte e mille volte rimandato. Solo la garanzia di avere una piazza sicura su cui collocare la propria produzione, infatti, spingerà i capitali privati verso quegli investimenti nelle infrastrutture di cui il sistema Paese ha estremo bisogno. Ecco perché gli operatori chiedono il rispetto della scadenza dell' inizio 2004 - messa pesantemente in dubbio dalle polemiche sul decreto Marzano - e soprattutto il varo di uno strumento che diventi davvero la piazza centrale per agli scambi nazionali dell' energia e non un mercatino di periferia evitato da tutti. «Mi sono preso l' impegno di far partire la Borsa elettrica dal primo gennaio 2004, come previsto, e non ho dubbi che così avverrà, anche perché ho constatato un' enorme aspettativa in questo senso da parte della aziende», assicura Giorgio Szego, il neoeletto presidente del Gme, il gestore del mercato elettrico a cui è affidata l' organizzazione della Borsa. Szego, che insegna Economia dei mercati monetari e finanziari all' università La Sapienza di Roma e collabora da tempo con il Gme per mettere a punto la gestione degli strumenti derivati, è deciso a difendere la centralità del nuovo mercato. «E' importante che nella Borsa possano entrare a negoziare anche svizzeri e francesi, attori di primo piano sul teatro italiano dell' energia», spiega Szego, che già nel consiglio di domani prenderà in mano le redini dell' operazione. Ma il mercato resta scettico. «In un regime non obbligatorio, com' è giustamente il nostro, la Borsa si deve guadagnare sul campo il favore degli operatori, convincendoli di essere il punto di riferimento fondamentale con delle regole chiare, che assicurino la trasparenza dei prezzi, e con dei meccanismi che evitino gli abusi di posizione dominante», auspica Urbano. Per quanto riguarda le regole, la disciplina definitiva delle negoziazioni appena varata dal consiglio uscente accoglie in gran parte le richieste degli operatori, introducendo una generale semplificazione e confermando il criterio del prezzo unico nazionale per i consumatori (pari alla media dei prezzi zonali), mentre per i venditori il prezzo sarà differenziato per zone. In questo modo il gestore spera di indurre i produttori ad andare a costruire centrali nelle zone che ne hanno più bisogno. Ma la forte concentrazione della produzione in mano all' operatore dominante, l' Enel, rischia di minare il libero gioco della domanda e dell' offerta, disincentivando la partecipazione alle negoziazioni. «Niente di male - precisa Urbano - se alla lunga i contratti bilaterali che non passeranno dalla Borsa dovessero occupare la fetta maggiore del mercato, come sta succedendo nel Regno Unito dopo dieci anni di esperienza, ma dev' essere chiaro fin dall' inizio che il prezzo di riferimento per tutti è quello fissato in Borsa». Nei primi tempi, dunque, sarà molto importante che gli scambi siano sostenuti e il mercato molto liquido. Su questo fronte pesano due incognite non da poco: da un lato il controllo delle importazioni, che il decreto appena varato sposta dall' Autorità dell' energia al ministero delle Attività produttive, in aperta violazione del regolamento comunitario sulle aste internazionali entrato in vigore in agosto, dall' altro lato il destino dell' energia cosiddetta Cip6, cioè quella prodotta dai privati e poi ceduta al Grtn a prezzi molto vantaggiosi, che attualmente viene assegnata direttamente dal ministero. Un importante nodo irrisolto è anche quello dei clienti interrompibili. Si tratta di grandi consumatori industriali che si dichiarano disponibili a subire distacchi di carico con un preavviso minimo e in cambio ricevono per via amministrata energia a prezzi agevolati. Una pratica che costa alle casse dello Stato circa 250 milioni di euro all' anno per 1.200 MW interrompibili e che a ben guardare assomiglia molto a un sussidio travestito. Anche questa è energia che naturalmente preferirebbe sfuggire alle regole del libero mercato. Preoccupa infine la privatizzazione della rete di trasmissione elettrica nazionale, che attualmente è gestita dal Grtn, ma di proprietà della Terna, una società del gruppo Enel: a chi andrà il controllo finale dei due tronconi, che stanno per essere riunificati in vista del collocamento? «Di per se stessa la riunificazione non ha niente di male - commenta Urbano - ma è importante che chi starà nella stanza dei bottoni della nuova società sia un soggetto neutrale». Per ora l' ipotesi più accreditata è che il Grtn venga acquisito da Terna, il cui controllo verrebbe conferito alla Cassa depositi e prestiti. Ma sulla fase successiva, la privatizzazione, pesano gli altolà sia dell' Autorità antitrust che dell' Autorità per l' energia.

26 ottobre 2003

L'ultima frontiera dell'outsourcing

All'inizio si affidava all'esterno la sicurezza, i servizi di pulizie o di catering. Poi i servizi tecnici e informatici. Ora è il servizio clienti, la contabilità e perfino l'ufficio personale a migrare all'esterno. Grandi imprese con uno staff tecnico di migliaia di persone si svegliano una mattina chiedendosi che cosa fa tutta questa gente e quando non trovano nessuno capace di rispondere decidono di delegare in blocco l'argomento a una società specializzata, che si occupa solo di quello e dunque saprà fare il suo mestiere. Ormai l'outsourcing è diventato un modo per liberarsi di un problema che non si è capaci di risolvere da soli. "Ma andate a vedere che cos'è successo in quell'azienda cinque anni dopo - scrive Michael Dell, enfant prodige dell'industria informatica e fondatore di Dell, in un saggio su Harvard Business Review - è non sarà un bel panorama". Le prime voci contro un outsourcing sempre più indiscriminato cominciano a levarsi su entrambe le sponde dell'Atlantico. Un caso classico di ripensamento è quello di Network Rail, la società che gestisce tutte le infrastrutture ferroviarie britanniche: dopo il deragliamento di Kings Cross, l'azienda ha deciso di rescindere il contratto con Jarvis, un'impresa specializzata cui aveva delegato la manutenzione di tutti i binari. Ma si possono citare anche altri esempi più di largo respiro: dopo anni di spinoff sempre più chirurgici e di focalizzazione sempre più spinta sul proprio core business, Ibm si è recentemente presa in casa l'intero settore consulenza di PricewaterhouseCoopers (30mila dipendenti). Lo stesso aveva fatto alcuni anni fa Electronic Data Systems, il numero uno a livello Usa (Ibm è il numero uno mondiale) nella gestione di servizi informatici, con l'acquisizione della società di consulenza A.T. Kearney. Perché le imprese si sono accorte che è difficile scindere l'organizzazione del business dalla sua gestione informatica. Così com'è difficile sostenere con un cliente imbufalito che l'azienda non ha più la responsabilità dei servizi clienti o con un utente rimasto ferito in un incidente che la responsabilità della manutenzione dei binari non è più della compagnia ferroviaria. Delegando queste competenze all'esterno, le aziende consegnano a qualcun altro la propria reputazione e spesso non sono più nemmeno in grado di controllare con quanto impegno venga tutelata. "Il concetto che molte aziende sembrano ignorare è che dare un servizio in outsourcing non significa cessare di occuparsene, ma cominciare a occuparsene in maniera diversa e spesso più difficile di prima. Invece di assicurarsi che i propri dipendenti svolgano il loro lavoro correttamente, bisogna assicurarsi che lo faccia qualcun altro. E bisogna ottenere questo risultato senza avere più a disposizione i soliti strumenti: dall'assunzione al licenziamento, dalla promozione all'ammonizione", commenta Michael Skapinker sul "Financial Times" intitolato Unhappy with outsourcing. Ecco perché il disagio nei confronti di questa pratica cresce a vista d'occhio, non solo fra i clienti stufi di dialogare con i call center delle banche, delle compagnie aeree o delle utilities, ma anche fra i manager preoccupati dal divario crescente fra il costo dei servizi appaltati all'esterno e i risultati ottenuti. Secondo un recente sondaggio internazionale di PA Consulting ben due terzi delle aziende intervistate hanno dichiarato di essere deluse dai risultati dei loro contratti in outsourcing e il 17% ha sostenuto di voler riportare all'interno alcuni dei servizi appaltati. Solo il 39% delle aziende hanno intenzione di rinnovare il contratto agli attuali fornitori: un altro segnale che indica un ripensamento. Non si tratta certo di tornare ai tempi di Henry Ford - come fanno notare ammiccando John Micklethwait e Adrian Woodridge nel loro libro The Company, pubblicato da Modern Library - che possedeva la terra dove brucavano le pecore da cui si ricavava la lana per foderare i sedili delle sue macchine. O di John Rockefeller che possedeva i boschi da cui si tagliava il legno per fare i barili che contenevano il suo petrolio. Ma una riflessione più accurata su quali sono i settori non core che in effetti è meglio appaltare all'esterno e quali invece sono servizi essenziali che non possono essere abbandonati a terzi, s'impone. Concentrandosi su una parte sempre più limitata del loro business, ad esempio, le compagnie automobilistiche prima hanno messo da parte le pecore e poi fette sempre più vaste del loro know-how. Ma in un recente rapporto di McKinsey si avanza un sospetto: "Nella fretta di scaricare su terzi attività manifatturiere ad alta intensità di capitale, le aziende stanno forse cedendo quegli stessi talenti che le hanno rese famose". Attenzione, quindi, ai pezzi che si perdono per strada. Perché poi è molto difficile recuperarli. Lo stesso Michael Porter, il guru della competitività che insegna a Harvard, mette in dubbio i vantaggi di un outsourcing troppo spinto: "Qualsiasi attività venga appaltata a terzi non darà mai alla vostra azienda un vantaggio competitivo, per il semplice fatto che altre aziende possono offrire un identico servizio. Dare un'attività in gestione all'esterno equivale a eliminarla dal tavolo strategico". Non che questo sia di per se stesso sbagliato, se in tal modo si ottiene un buon servizio a costi più contenuti, ma è un processo che ormai rischia di sfuggire di mano. "Molte aziende convinte che l'outsourcing consenta un significativo taglio dei costi restano deluse - spiega Porter - perché il prezzo offerto la prima volta dal fornitore spesso lievita al momento del rinnovo del contratto, quando ormai l'azienda non ha più al suo interno le competenze date in outsourcing e quindi sarebbe molto difficile tornare indietro. A quel punto il fornitore ha già il coltello dalla parte del manico e sarà molto difficile liberarsi di lui, anche nel caso di un declino della qualità del servizio". Naturalmente si possono inserire nei contratti dei "livelli di qualità" molto dettagliati, sotto cui il fornitore non dovrebbe mai scendere. Ma di qui a imporre il rispetto degli accordi, minacciando di non rinnovare il contratto, ce ne corre.

6 ottobre 2003

La miglior difesa è l'attacco

«Dobbiamo smettere di pensare ai cinesi solo in termini di manodopera sottopagata. La Cina è un mercato che cresce a velocità supersonica, sia in termini di apertura al nuovo che in termini di potere d' acquisto. E da cui stanno emergendo grandi aziende con ambizioni globali». Gabriel Hawawini, rettore dell' Insead, unica business school occidentale con un doppio campus, a Parigi (Fontainebleau) e a Singapore, ne sa qualcosa: è lui che fornisce a queste grandi aziende i manager globali capaci di portarle al successo. Di passaggio in Italia ospite di Gea, storica società milanese di consulenza aziendale, Hawawini lancia un appello all' industria italiana: «E' inutile tirare su le barricate contro il pericolo asiatico per nascondercisi dietro. Bisogna semmai avere il coraggio di sbarcare in forze a casa loro». Insomma, la miglior difesa è l' attacco. Una strategia particolarmente calzante per uno come Hawawini, nato in Egitto e cresciuto in Francia, vissuto a lungo negli Usa dove ha studiato e insegnato finanza alla New York University e alla Columbia prima di arrivare all' Insead, dove ha diretto per sei anni il Centro euro-asiatico da cui è nato il campus di Singapore. La costola asiatica dell' Insead - prima business school europea nelle classifiche del Financial Times, di Forbes e di Business Week - oggi ospita ben 200 degli 800 alunni complessivi. E conta di allargarsi a 300 in tempi brevi, perché la domanda è altissima. In particolare fra gli studenti provenienti dall' Italia, una cinquantina, il campus di Singapore è molto popolare e spesso chiedono di cominciare da lì il loro Mba. «Abbiamo preso la decisione di allargarci a Singapore alla fine degli anni ' 90 - racconta Hawawini - quando le tigri asiatiche erano ancora sotto choc dopo la drammatica crisi finanziaria del ' 97 e tutti le davano per spacciate». Oggi che l' Estremo Oriente è tornato alla ribalta come l' economia più dinamica del mondo, con una crescita stimata del 6% malgrado la Sars, con un quarto del Pil e dell' export globale, quella decisione suona profetica. «Nell' area del Pacifico c' è uno straordinario interesse per le tecniche manageriali occidentali e noi siamo ben contenti di insegnarle, ma siamo andati laggiù anche per imparare. Cerchiamo di prendere i lati positivi del modello aziendale occidentale e di quello orientale, il rigore scientifico dell' Occidente e la fortissima etica del lavoro dell' Oriente, per fonderli in un unico approccio». Che sarà, secondo Hawawini, quello vincente. «L' Asia non è più una fortezza impenetrabile - spiega Hawawini - dominata dal dirigismo statale e da aziende legate a doppio filo con le banche come un tempo. In molti Paesi si è fatta pulizia: in Corea del Sud, in Thailandia, in Indonesia e in parte anche in Giappone. La nuova frontiera di queste aperture ora è la Cina, che avanza con passi da gigante verso il libero mercato. Le imprese asiatiche non vengono più salvate a tutti i costi, né schermate dalla concorrenza a colpi di barriere commerciali. In realtà a questo punto l' Europa è molto più chiusa dell' Asia: basta guardare cos' è successo la settimana scorsa con il gruppo Alstom, che sarebbe andato in bancarotta senza i finanziamenti del governo francese. Ma a nessuno è venuto in mente di bloccarli». Perfino il settore finanziario, finora il più protetto del mercato asiatico, si sta aprendo alla concorrenza occidentale. E questi cambiamenti avvengono molto velocemente, dimostrando che ormai le aziende asiatiche si sentono abbastanza forti da affrontare i rivali in campo aperto. Sta all' Europa, ora, accettare la sfida senza farsi prendere dal panico. In fin dei conti, se è vero che la Cina è il nuovo Giappone, non ci sono solo aziende aggressive da combattere ma anche milioni di consumatori da conquistare. «I cinesi sono sempre più attratti dai marchi occidentali - commenta Hawawini - e cominciano ad essere abbastanza ricchi da poterseli permettere. Non tutti, naturalmente. Ma ci sono già consistenti fasce sociali ansiose di vedere il mondo e di comperare le cose migliori. A Hong Kong, ormai, i turisti cinesi spendono ben più degli americani. E da questo punto di vista le aziende europee hanno un vantaggio competitivo straordinario. Ma bisogna sfruttarlo in fretta, altrimenti si rischia di perdere il treno della competizione».

Gabriel Hawawini

«Dobbiamo smettere di pensare ai cinesi solo in termini di manodopera sottopagata. La Cina è un mercato che cresce a velocità supersonica, sia in termini di apertura al nuovo che in termini di potere d' acquisto. E da cui stanno emergendo grandi aziende con ambizioni globali». Gabriel Hawawini, rettore dell' Insead, unica business school occidentale con un doppio campus, a Parigi (Fontainebleau) e a Singapore, ne sa qualcosa: è lui che fornisce a queste grandi aziende i manager globali capaci di portarle al successo. Di passaggio in Italia ospite di Gea, storica società milanese di consulenza aziendale, Hawawini lancia un appello all' industria italiana: «E' inutile tirare su le barricate contro il pericolo asiatico per nascondercisi dietro. Bisogna semmai avere il coraggio di sbarcare in forze a casa loro». Insomma, la miglior difesa è l' attacco. Una strategia particolarmente calzante per uno come Hawawini, nato in Egitto e cresciuto in Francia, vissuto a lungo negli Usa dove ha studiato e insegnato finanza alla New York University e alla Columbia prima di arrivare all' Insead, dove ha diretto per sei anni il Centro euro-asiatico da cui è nato il campus di Singapore. La costola asiatica dell' Insead - prima business school europea nelle classifiche del Financial Times, di Forbes e di Business Week - oggi ospita ben 200 degli 800 alunni complessivi. E conta di allargarsi a 300 in tempi brevi, perché la domanda è altissima. In particolare fra gli studenti provenienti dall' Italia, una cinquantina, il campus di Singapore è molto popolare e spesso chiedono di cominciare da lì il loro Mba. «Abbiamo preso la decisione di allargarci a Singapore alla fine degli anni ' 90 - racconta Hawawini - quando le tigri asiatiche erano ancora sotto choc dopo la drammatica crisi finanziaria del ' 97 e tutti le davano per spacciate». Oggi che l' Estremo Oriente è tornato alla ribalta come l' economia più dinamica del mondo, con una crescita stimata del 6% malgrado la Sars, con un quarto del Pil e dell' export globale, quella decisione suona profetica. «Nell' area del Pacifico c' è uno straordinario interesse per le tecniche manageriali occidentali e noi siamo ben contenti di insegnarle, ma siamo andati laggiù anche per imparare. Cerchiamo di prendere i lati positivi del modello aziendale occidentale e di quello orientale, il rigore scientifico dell' Occidente e la fortissima etica del lavoro dell' Oriente, per fonderli in un unico approccio». Che sarà, secondo Hawawini, quello vincente. «L' Asia non è più una fortezza impenetrabile - spiega Hawawini - dominata dal dirigismo statale e da aziende legate a doppio filo con le banche come un tempo. In molti Paesi si è fatta pulizia: in Corea del Sud, in Thailandia, in Indonesia e in parte anche in Giappone. La nuova frontiera di queste aperture ora è la Cina, che avanza con passi da gigante verso il libero mercato. Le imprese asiatiche non vengono più salvate a tutti i costi, né schermate dalla concorrenza a colpi di barriere commerciali. In realtà a questo punto l' Europa è molto più chiusa dell' Asia: basta guardare cos' è successo la settimana scorsa con il gruppo Alstom, che sarebbe andato in bancarotta senza i finanziamenti del governo francese. Ma a nessuno è venuto in mente di bloccarli». Perfino il settore finanziario, finora il più protetto del mercato asiatico, si sta aprendo alla concorrenza occidentale. E questi cambiamenti avvengono molto velocemente, dimostrando che ormai le aziende asiatiche si sentono abbastanza forti da affrontare i rivali in campo aperto. Sta all' Europa, ora, accettare la sfida senza farsi prendere dal panico. In fin dei conti, se è vero che la Cina è il nuovo Giappone, non ci sono solo aziende aggressive da combattere ma anche milioni di consumatori da conquistare. «I cinesi sono sempre più attratti dai marchi occidentali - commenta Hawawini - e cominciano ad essere abbastanza ricchi da poterseli permettere. Non tutti, naturalmente. Ma ci sono già consistenti fasce sociali ansiose di vedere il mondo e di comperare le cose migliori. A Hong Kong, ormai, i turisti cinesi spendono ben più degli americani. E da questo punto di vista le aziende europee hanno un vantaggio competitivo straordinario. Ma bisogna sfruttarlo in fretta, altrimenti si rischia di perdere il treno della competizione».

25 settembre 2003

Il dilemma dell'innovatore

Scottati dal grande incendio delle dotcom, i vertici aziendali di tutto il mondo industrializzato si sono ritirati nel loro guscio, lanciando occhiate feroci a chiunque venisse a parlare di innovazione. I primi 42 mesi del nuovo millennio sono stati dominati dai tagli su tutti i fronti, soprattutto su quello della ricerca e sviluppo. Ma dopo tre anni di trincea, insieme alla timida ripresa borsistica dei tecnologici si sta riprendendo anche il dibattito sull'innovazione, perché ogni buon amministratore delegato sa che per competere con successo sul lungo periodo la sua azienda ha bisogno di inventarsi nuovi prodotti, servizi e modelli di business. I primi contributi al dibattito che si sta riaccendendo restano prudenti, ci ricordano che per fare innovazione non occorre essere Archimede, basta operare in un buon team, capace di guardare con occhio critico alle idee già esistenti per riassemblearle in modo nuovo. Così ha fatto Henry Ford quando ha inventato la catena di montaggio, copiata dal modo in cui funzionavano allora i macelli. Ford - come Thomas Edison - non era un genio isolato, ma lavorava proficuamente insieme a un team di ingegneri di talento. "Questi grandi imprenditori - spiega Andrew Hargadon, docente alla Business School dell'università della California, nel suo ultimo libro How Breakthroughs Happen - non sono più intelligenti, più coraggiosi, tenaci o ribelli di tutti noi. Hanno semplicemente una cerchia più vasta di relazioni". Lo stesso si potrebbe dire delle organizzazioni. Le compagnie più innovative, infatti, sviluppano dei meccanismi per cogliere idee e tecnologie da una vasta cerchia di settori diversi e ricombinarle in modo nuovo. Mark Goldston, ad esempio, l'uomo del marketing che negli anni Ottanta ha guidato Reebok alla produzione delle leggendarie scarpe da basket Reebok Pump, aveva fatto esperienza nell'industria farmaceutica e ha tratto da lì la tecnologia per creare la prima scarpa gonfiabile della storia. E' proprio per la loro vasta rete di contatti che secondo Hargadon le conglomerate hanno più occasioni di innovare rispetto alle imprese monotematiche, perché raccolgono al proprio interno esperienze provenienti da settori completamente diversi. Quando queste esperienze si incrociano, come spesso succede nel walzer dei manager, sboccia la novità. Hargadon spezza anche una lancia in favore dei distretti industriali, dove competenze diverse si concentrano su un unico obiettivo, creando un traffico d'idee molto più articolato di quello presente nelle aziende che operano isolate. Non a caso i distretti industriali italiani affascinano tutti gli studiosi dell'innovazione. Su un piano di ragionamento ancora più allargato, libri come quello di Hargadon sollevano una delle questioni di fondo che perseguiteranno gli amministratori delegati di questo secolo: come instillare nelle moderne imprese, costruite per il mercato e la produzione di massa, anche le forze dell’innovazione, necessarie per restare rilevanti? Questo è precisamente l’interrogativo che si pone Gary Hamel, uno dei più noti guru del management e docente alla London Business School, nel suo saggio In Search of Resilience appena pubblicato dalla Harvard Business Review. Hamel, uno dei profeti della net economy, crede molto nella necessità delle aziende di “reinventarsi dinamicamente con l’evolversi delle circostanze”. Il problema, secondo Hamel, è che di solito gli azionisti chiamano ai vertici delle aziende un manager incaricato di rinnovare il modello di business quando ormai i buoi sono già scappati: “Una ristrutturazione aziendale non è altro che un processo innovativo rimandato troppo a lungo”. Eppure affidarsi solo ai cambiamenti al vertice per introdurre delle innovazioni è un’idea da dittatura del Terzo mondo più che da democrazia occidentale. “Sembra che nel mondo del business – sostiene Hamel - l’unico modo per cambiare rotta sia di cambiare leader. Ma così le imprese evitano di raccogliere la sfida più importante, cioè la costruzione di organizzazioni capaci di rinnovarsi dall’interno in maniera dinamica”. In questo mondo sempre più convulso, in cui è diventato ancora più difficile di una volta mantenere saldamente in mano le redini del successo una volta conquistate, la durata media di un amministratore delegato al vertice di un’azienda negli Usa ormai è scesa a quattro anni. E le imprese grandi e piccole si trovano sempre più spesso nella necessità di introdurre aggiustamenti di rotta strutturali, molto più complicati dei cambiamenti marginali, come l’introduzione di un nuovo sistema informatico. Hamel cita McDonald’s per fare l’esempio di un colosso di grande successo che si è fatto superare dai tempi senza reagire e Sun Microsystems per la miopia con cui è rimasta ai margini del mondo open-source di Linux. Non a caso proprio in questi giorni assistiamo a un radicale restyling dei locali “burger and Coke” in classico stile McDonald’s, che sembrano perdere sempre più il favore del pubblico. Ma sarà sufficiente? La soluzione a questo dilemma ce la fornirà forse in ottobre Clayton Christensen, docente alla Harvard Business School e autore acclamato, con il suo nuovo The Innovator’s Solution, il seguito del best seller mondiale The Innovator’s Dilemma. Nel suo primo libro, Christensen cercò di sfatare alcuni miti che circondano le ragioni per cui certe aziende perdono il treno dell’innovazione e restano a terra per non rialzarsi più, sostenendo che i loro manager si focalizzano troppo sulle esigenze della clientela più tradizionale, ma ignorano le innovazioni di nicchia e spesso si fanno prendere alla sprovvista da quanto questo tipo di innovazioni siano capaci di cambiare le condizioni del loro business. Con il suo nuovo libro, Christensen vuole offrire ai manager una soluzione a questo problema, sostenendo che l’innovazione non è così imprevedibile come si può credere. Malgrado gli effetti delle innovazioni siano abbastanza difficili da prevedere, il modo in cui queste si sviluppano e crescono all’interno delle aziende è sempre lo stesso. “Chi riesce a capire e a gestire le forze che influenzano questo processo - spiega Christensen – sono anche in grado di concepire dei piani di business capaci di restare sempre sulla cresta dell’onda”. Dopo anni di studi e di approfondite ricerche su centinaia di aziende di diversi settori, l’autore è riuscito a identificare e descrivere questo tipo di processi, per offrire ai manager ansiosi di andare al passo con i tempi la possibilità di ritagliare le loro strategie a misura di un mondo in rapida evoluzione.

24 settembre 2003

Wifi, eppur si muove

Il WiFi, dicono, è come le dotcom. Continuiamo a buttarci dentro dei soldi, ma non è per niente sicuro che prima o poi questi soldi tornino indietro, né a chi arriveranno in tasca. Eppure qualcosa si muove. Questa tecnologia non finisce sui tavolini di Starbucks o di McDonald’s, fra i tecnomani metropolitani intenti a scaricare la posta con un panino in mano. E la ragione è molto semplice: se da un hotspot WiFi (o Bluetooth, il suo eurocentrico cugino) si possono mandare dati senza fili, perché non usarlo anche per fare una telefonata? Già oggi questo è teoricamente possibile, usando un laptop per fare una cosiddetta chiamata VoIP (voice over internet protocol), così com’è teoricamente possibile da tutte le postazioni fisse nelle case della gente. Solo che si tratta di una procedura troppo complicata per diventare un business. Ma con la crescente diffusione di milioni di hotspot e di reti aziendali basate sulla tecnologia scandinava Bluetooth, sarebbe ora che cominciassero a spuntare anche dei telefonini capaci di approfittarne. Ed è quello che sta succedendo. British Telecom, ad esempio, sta armeggiando con un apparecchio ancora da lanciare che funziona come un normale telefono cellulare finché non entra nel raggio d’azione della sua base fissa. Qui, tramite la tecnologia Bluetooth, cambia rete e consente di telefonare via internet su una linea dati, che può essere usata contemporaneamente anche per navigare. Telefonare con Bluephone non è gratis, ma costa molto meno di una telefonata convenzionale. Usare il WiFi per fare lo stesso sarebbe un po’ più complicato, ma non c’è nulla che lo vieti, soprattutto da quando cominceranno a spuntare hotspot di nuova generazione, con uno standard migliore degli attuali. BT sta lavorando anche su questo, nel tentativo di estendere le capacità di Bluephone anche sul WiFi. E ci sono buone probabilità che ci riesca, anche se la prima versione del nuovo telefonino, che arriverà nei negozi nel 2004, non sarà ancora “trilingue”. Gli americani, per cui il WiFi sta diventando ormai una religione, sono invece più concentrati su questa modalità. Motorola e la giapponese Nec stanno sviluppando insieme un telefonino a doppio uso, capace di passare automaticamente dalle reti convenzionali al protocollo internet non appena entra nel raggio d’azione di uno hotspot. Ma non è ancora pronto. E Cisco ha appena lanciato un cosiddetto “campus phone”, capace di funzionare via internet ma non sulle reti normali, destinato a tutti quegli utenti che passano la maggior parte della loro vita all’interno di uno hotspot, come ad esempio gli studenti universitari. Secondo Frank Hanzlik, dell’americana WiFi Alliance, non siamo molto distanti dalla nascita di telefonini “agnostici”, capaci di passare indifferentemente da una modalità all’altra. La sua valutazione, forse ottimistica, è che non ci vogliano più di 18 mesi per arrivarci. In tre anni potrebbero già cominciare a diffondersi. Resta da chiedersi: a chi giova? Non necessariamente agli operatori mobili, che già vedono il WiFi come un intruso sul loro terreno, per il modo in cui rosicchia una parte dei loro utili sulla trasmissione dati. Ma siccome l’80% dei loro affari li fanno con la voce, per ora non si preoccupano. Vero è che proprio dagli operatori mobili provengono l’esperienza e le conoscenze necessarie per consentire alla gente di fare telefonate attraverso internet con la stessa facilità con cui le fanno adesso sulle loro reti. E’ dunque logico che in qualche modo questo sviluppo coinvolga anche loro, soprattutto se saranno capaci di stabilire le alleanze giuste. Ad esempio accordandosi con i diversi proprietari degli hospot in modo da usare la SIM card del telefonino come chiave di accesso universale e impronta identificativa dell’utente, per evitare alla gente la scomodità di pagare l’uso di ogni hotspot separatamente, come oggi succede spesso. L'unica cosa da non fare è pestarsi i piedi a vicenda.

22 settembre 2003

Nick manofredda, vecchia e nuova Ibm

Quando la Harvard Business Review ha raccontato mesi fa che investire in informatica non porta più vantaggi competitivi, molti nel settore hanno trattenuto il respiro, altri hanno disdetto l' abbonamento. Nick Donofrio non ha fatto una piega. Il numero due di Ibm pensa che non sia vero. E ritiene di non aver bisogno di dimostrarlo a nessuno. Perché vive e tocca con mano ogni giorno la necessità espressa dalle aziende di avere strumenti più veloci, più capaci, più facili da usare, oggi come il primo giorno in cui è entrato in Big Blue, nel lontano ' 67. Dice: «Il futuro sta in tanti piccoli apparecchi diffusi, ognuno con una funzione diversa di collegamento a un cervellone remoto, ognuno mirato a usare solo una parte specifica delle sue capacità». A 57 anni, questo combattivo ingegnere di origini italoamericane che non disdegna le citazioni in latino («Ho fatto il chierichetto anch' io») e ama le bretelle vistose alla Larry King, porta su di sé tutto il peso della gloriosa tradizione Ibm, con la responsabilità della strategia per lo sviluppo e la commercializzazione delle tecnologie più avanzate prodotte dal colosso mondiale dei computer. Eredità non facile, in un' epoca in cui le macchine costituiscono ormai solo un terzo del fatturato di questo colosso da 83 miliardi di dollari e le aziende tendono a razionalizzare la capacità informatica che già possiedono piuttosto che comprarne di nuova. Ma Nick Donofrio presta attenzione alla congiuntura solo fino a un certo punto: Big Blue secondo lui è al di là di queste «fluttuazioni momentanee». Del resto che cos' altro aspettarsi da un' azienda che navigando controvento ha speso quasi cinque miliardi di dollari in ricerca nel 2002 e ha tratto dai 22 mila brevetti dei suoi ingegneri ben un miliardo di utili? Sette di questi brevetti sono targati Donofrio e anche se, dopo 35 anni, i tempi sono cambiati e i capelli sono più bianchi, è chiaro che ci crede ancora: «Nella mia carriera ho visto aumentare di un milione di volte la performance dei computer e sono progressi che ci siamo costruiti pezzo per pezzo, con le nostre mani: all' inizio i chip erano fatti di germanio, poi siamo passati al silicio, abbiamo aggiunto i fili di rame per aumentare la velocità, infine l' isolamento. Tutto questo è partito dai tecnici Ibm. E anche il prossimo passo, l' uso di un silicio deformato che sappiamo da anni essere il materiale ideale per far circolare gli elettroni più velocemente con meno dispendio di energia, sta giungendo a compimento nei nostri laboratori proprio in questi giorni, anche se ci vorranno almeno due anni prima che una macchina costruita con i nuovi chip arrivi nelle vetrine dei negozi». Per Donofrio, sfidare la legge di Moore è una delle priorità: con i nuovi chip, la performance dei computer dovrebbe compiere un balzo in avanti dal 40% al 60%. L' altra è ancora più ardita: la semplificazione. «I computer del futuro risponderanno alla nostra voce, all' espressione della faccia, al semplice movimento delle labbra. Non ci sarà più bisogno di "allenare" le macchine alla nostra pronuncia, così come non dobbiamo "allenare" un telefono o un rubinetto. Certo questi sono sviluppi lontani, ma se andiamo avanti a questo ritmo forse riuscirò a vederli anch' io». C' è un tocco di Ray Kurzweil e delle sue «macchine spirituali» nella visione dell' uomo Ibm, che considera del tutto naturale la parcellizzazione e la pervasività già oggi sperimentate attivamente da Ibm con il «grid computing» (vedi anche il servizio di Chiara Sottocorona a pagina 20) e lo sfruttamento «a richiesta» di risorse remote, per venire incontro alle necessità di risparmio e di razionalizzazione delle aziende: «Non occorre essere degli ingegneri elettronici per capire che ormai non serve avere un computer in tasca o in casa o in azienda per sfruttare le grandi potenzialità di crescita offerte dall' information technology». Ma la differenza tra Donofrio e Kurzweil sta tutta nell' imperativo categorico: consegnare i prodotti ai clienti. Le macchine intelligenti di cui parla l' uomo Ibm, infatti, in parte ci sono già: prendiamo la Web Fountain, una nuova piattaforma messa a punto da un team dell' Almaden Research Center destinata ad estrarre trend, schemi e relazioni dalla Rete, che gli insider hanno soprannominato «Google on steroids». Questa nuova tecnologia, già in distribuzione, legge e capisce i testi con straordinaria intelligenza, usando il linguaggio come noi lo conosciamo (non il linguaggio cifrato di programmazione) per instaurare sofisticate correlazioni fra le parole che consentano di riconoscere strutture altrimenti indecrifrabili.

L'orbita di Arturo

Innovazione e concretezza. E' di questo che hanno bisogno le piccole e medie imprese italiane, ma nessuno le aiuta. Ed è per questo che Arturo Artom, fondatore e presidente di Netsystem, si sta battendo. «Il ritardo italiano nell' innovazione - constata Artom - è un dato che si può ormai dare per acquisito. Ma le piccole imprese sono quelle che ci rimettono di più, perché le grandi scaricano sulle piccole l' onere di questa perdita, espellendo manodopera e decentrando funzioni e produzioni». L' ingegno italiano non è più sufficiente per colmare il gap competitivo con altri Paesi: occorrono risorse finanziarie superiori. «A livello europeo - fa notare Artom - è attiva un' ampia gamma di strumenti per sostenere la ricerca delle imprese, con stanziamenti nell' ordine dei miliardi di euro all' anno. Ma sono strumenti che restano sostanzialmente preclusi alle piccole imprese». Dati alla mano, è facile dimostrare che i Framework Program dell' Ue sono un miraggio per le Pmi: su circa 13,7 miliardi spesi dall' Fp5 per il quinquennio ' 98-2002, solo un decimo è andato alle piccole imprese. Se poi si prende in considerazione il settore dell' informatica, la quota scende al 3,5%. E da quando è partito l' Fp6 - il programma per il quinquennio 2003-2007 - non è cambiato niente nei regolamenti che trasformano la richiesta di fondi in una corsa a ostacoli, malgrado la decisione ufficiale di riservare il 15% del budget alle Pmi. Lo stesso organismo incaricato dalla Commissione del monitoraggio del programma, l' Istag, ha rilevato tutti i limiti delle regole di accesso: «Criteri finanziari tali da ostacolare le Pmi più innovative»; totale esclusione delle start-up; tempi troppo lunghi per ricevere i finanziamenti; discriminazioni dovute alla grandezza dei programmi, al numero dei partecipanti e alla durata richiesta. Altri paletti sostanzialmente impossibili da superare sono la transnazionalità del progetto e spesso anche l' intersettorialità: infatti le Pmi sono generalmente legate a una dimensione locale e molto focalizzate sul loro business. «La piccola impresa semplicemente segue il mercato, capta un gap nell' offerta, si attrezza freneticamente e produce il meglio di se stessa, in modo da battere magari il grande gruppo sul filo di lana», spiega Artom. E lui ne sa qualcosa, visto che ha fatto proprio così. La sua Netsystem ha cominciato a fornire collegamenti Internet veloci attraverso la parabola satellitare - fra lo scetticismo degli addetti ai lavori - per consentire l' accesso alla banda larga anche a chi abita in località remote, dove il cablaggio non arriva. Dopo aver forzato con una causa storica la liberalizzazione della telefonia in Italia, dopo un periodo in Omnitel e poi in Viasat, Artom ha scommesso con Netsystem proprio su innovazione e concretezza, individuando un varco nel mercato e colmandolo con una risposta banale: l' uso del satellite per ricevere e del doppino telefonico per mandare le proprie richieste in rete consente ai suoi clienti di basarsi sulla stessa tecnologia satellitare utilizzata per ricevere il segnale televisivo (molto più a buon mercato rispetto a quella necessaria per instaurare la comunicazione nei due sensi) e contemporaneamente di emanciparsi dalla schiavitù del cavo a fibre ottiche. Una scommessa vinta: dopo neanche tre anni di attività, Artom ha firmato un grosso contratto con Telecom Italia (in Italia c' è almeno un milione di utenti Internet che non hanno alcuna possibilità di essere raggiunti dalla banda larga via cavo), ha conquistato la leadership in Europa (un mercato da cento milioni di utenti) e ora si sta espandendo anche nell' Est Europa e sulla sponda Sud del Mediterraneo. L' itinerario di Netsystem dimostra che la ricerca applicata è altrettanto importante della ricerca pura per fare innovazione ed è proprio su questi temi che i fondi europei potrebbero fare la differenza. La proposta di Artom è di utilizzare da un lato la leva fiscale per stimolare le Pmi a investire in nuove tecnologie (con lo stesso strumento legislativo usato per l' incentivazione al commercio elettronico), dall' altro di approfittare del semestre italiano all' Ue per mettere all' ordine del giorno alcune modifiche (come l' abolizione della clausola della transnazionalità) dei meccanismi di assegnazione dell' Fp6 sul modello della legge Sabatini, che per quasi quarant' anni ha consentito alle piccole imprese italiane di abbattere i costi dell' acquisto di macchinari nuovi con un sistema di rimborsi semplicissimo. Inoltre Artom propone di aumentare la riserva destinata alle Pmi dagli attuali 2,13 miliardi di euro a 5 miliardi per il prossimo quinquennio. Sarebbe un bel colpo per un Paese dove il 72,6% del valore aggiunto prodotto viene dalle Pmi, contro una media europea del 59,7%. Bisogna solo vedere se gli altri sono d' accordo.

19 settembre 2003

La strategia del dynamic pricing

Quando Michael Eisner prese le redini della Walt Disney nell'84, una delle sue prime decisioni fu di raddoppiare i prezzi dei biglietti d'ingresso ai parchi, nella convinzione che il pubblico sia disposto a pagare molto di più quando la qualità del prodotto è nettamente superiore a quella dei concorrenti. Eisner vinse la sua scommessa e mise a segno profitti miliardari, rilanciando così un'azienda che sembrava sull'orlo del collasso. Con lo stesso sistema, sempre negli anni Ottanta, Paul Girolami trasformò Glaxo in una potenza mondiale, lanciando Zantac a un prezzo doppio rispetto al rivale Tagamet della SmithKline e facendone il farmaco anti-ulcera più venduto del decennio. Altri tempi, quando il magico potere di attrazione della qualità superiore si pagava in dollaroni sonanti. Oggi non è più così. La pirateria di tutti i generi, il commercio elettronico, la demonizzazione delle multinazionali e negli ultimi due anni anche gli eccessi di produzione hanno enormemente compresso la possibilità delle aziende di mettere in conto grandi premi di qualità rispetto ai prodotti rivali meno ambiti. Una Coca non costa ormai più di una Pepsi e nessuna delle due oggi costa più di vent'anni fa. I prezzi dei CD sono sulla via del declino, colpiti al cuore dalla pirateria informatica. I DVD seguiranno. I chimici di vari continenti stanno imparando a copiare i principi attivi coperti da brevetto per produrre farmaci illegali (vedi il Viagra fai-da-te del farmacista Roberto Tafuri di Santa Maria Capua Vetere). E qualsiasi software comprato in un negozio del Terzo mondo è quasi certamente una copia contraffatta dell'originale, venduta a prezzi stracciati. Per di più nell'era dell'informazione i concorrenti nascono come funghi dalla sera alla mattina: basta andare a vedere gli effetti del commercio elettronico sulle librerie tradizionali, sugli agenti di viaggio o sulle assicurazioni per farsi un'idea. Perfino le regole che premiavano i monopoli sono rivoluzionate: da eBay a Monster.com, anche i piccoli annunci di compravendita o di lavoro che rendevano particolarmente ambiti i giornali capozona, non sono più quelli di una volta. E la marea montante delle informazioni, che consente ai consumatori di scoprire rapidamente quali sono le offerte più vantaggiose disponibili sulla piazza, sta facendo il resto. Tempi duri, insomma, per chi si occupa di decidere quanto far pagare alla gente un certo prodotto. Gli errori non sono più consentiti e le scelte arbitrarie rischiano di aprire voragini devastanti nei bilanci aziendali. Non stupisce, dunque, che la strategia dei prezzi sia diventata uno dei temi in cima all'ordine del giorno delle Business School di tutto il mondo. Shantanu Dutta, docente di marketing alla London Business School e uno dei guru più seguiti in questa trascurata disciplina, ha appena lanciato un corso tutto incentrato sulle tecniche da applicare nella difficilissima ricerca del valore "ottimale" da attribuire a un prodotto. E grazie agli sforzi di una schiera di accademici, consulenti e tecnomani, i più sofisticati metodi per decidere se il prezzo è giusto stanno uscendo dall'esclusivo club delle linee aeree e dell'industria turistica per dilagare anche negli altri settori. Ma le ricerche di Dutta confermano che spesso le decisioni sui prezzi sono ancora frammentarie, condizionate da una disordinata massa di input provenienti dai compartimenti aziendali più diversi, dal marketing alle vendite, dalla produzione alla contabilità. Per non parlare di partner esterni come i distributori, i grossisti o i dettaglianti. Bob Phillips, un altro esperto in materia molto seguito, attualmente in forza alla Stanford Business School, conferma: "Non è raro scoprire che manca all'interno di aziende anche molto articolate una figura specificamente incaricata di decidere qual'è il prezzo giusto per ogni prodotto". Phillips è il fondatore di Talus, una software house che ha svolto un ruolo pionieristico nell'ambito del dynamic pricing, la metodologia più seguita nell'ambito del commercio elettronico per determinare il prezzo giusto. Si tratta di un approccio estremamente flessibile, che tende a usare tecniche stile asta per captare le indicazioni del mercato a seconda delle diverse circostanze e a fare continui aggiustamenti in base alle fluttuazioni dei dati di partenza. Scott McNealy, a.d. di Sun Microsystems, è il più noto fautore del dynamic pricing, su cui scrisse uno storico saggio sulla Harvard Business Review nel 2001, in cui decretò la morte del prezzo di listino. Ora è ben vero che questo tipo di tecniche hanno largamente attecchito sia in uscita che in entrata, con l'utilizzo sia di aste elettroniche per la determinazione dei prezzi al dettaglio che di gare d'appalto elettroniche tra i fornitori per scegliere il migliore offerente, ma in realtà il listino è ancora vivo e vegeto. Si basa però sempre più su input dinamici e su software molto sofisticati, che in questi anni di vacche magre per l'hi-tech sono stati fra i pochi a mettere a segno tassi di crescita a due cifre. Per risolvere i loro dilemmi in materia di prezzi, molte aziende si sono procurate uno dei diversi software in commercio che inghiottono milioni di dati su vendite passate, prezzi attuali, inventari e condizioni di mercato, per poi buttar fuori sofisticate ipotesi sull'equilibrio ideale per la massimizzazione dei profitti in ogni linea di prodotto e categoria di clienti. La catena di negozi di abbigliamento giovanile Gap usa il software di Profitlogic, DHL preferisce Zilliant e Ford è cliente di Manugistics, il gigante delle soluzioni per il business in cui nel 2000 è confluita anche Talus. Resta il fatto che un software non è certo la panacea per risolvere il problema delle scelte sui prezzi. "Quando la gente pensa al dynamic pricing - commenta Phillips - immagina asettici schermi di computer e liste di numeri che cambiano ogni dieci minuti. In realtà, le applicazioni più efficaci di questo concetto si decidono a livello più alto, in dibattiti interni alle aziende di ben più vasto respiro". Anche utilizzando un software, infatti, sono sempre gli uomini a decidere. La maturazione dei manager conta molto di più dell'evoluzione delle macchine.