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3 marzo 2003

Il polo dell'informatica resta un sogno

«La tecnologia è un asset strategico del sistema Paese: per salvarlo dal declino c' è bisogno d' investire pesantemente in questo settore, ma ormai il tempo stringe». L' urgenza che traspare dalle parole di Salvatore Pinto, co-amministratore delegato insieme a Nino Tronchetti Provera di Finsiel, braccio informatico di Telecom Italia, è comune a molti manager attivi nel ristretto ambiente dell' information technology (It) italiana. E la sensazione che proprio in questi giorni ci stiamo giocando il futuro del Bel Paese, che l' innovazione tecnologica sia la chiave di volta per arginare la crisi di sistema, è confermata da parecchi sintomi. Mentre Jacques Chirac ha interrotto giovedì scorso l' intensa attività diplomatica per inaugurare a Grenoble un impianto avanzatissimo (da lui stesso definito «il più importante investimento industriale degli ultimi dieci anni in Francia») costruito congiuntamente dall' italo-francese Stm di Pasquale Pistorio insieme a Philips e Motorola, in Italia si dimezza il piano Stanca per la società dell' informazione e si punta sui pc nelle scuole. «Per carità, un' idea encomiabile - commenta Giancarlo Del Sante, direttore generale di Getronics - ma poteva andare bene per il ' 92, massimo ' 93. Oggi ci vuole ben altro». Eppure i rampolli dell' It made in Italy sono convinti che le imprese nostrane siano pronte a raccogliere la sfida: «Abbiamo la statura e le competenze per sviluppare in casa i sistemi informatici che mancano al Paese, ma se si aspetta ancora un po' le poche aziende di primo piano rimaste italiane finiranno in mano ai colossi internazionali e noi resteremo qui a fare solo la manodopera», insiste Del Sante, che di acquisizioni se ne intende. La vendita delle attività informatiche Olivetti all' americana Wang nel ' 98 e il successivo passaggio di Wang all' olandese Getronics l' hanno portato a una certa disillusione sulla possibilità di realizzare un polo italiano dell' It come quello di cui si vagheggiava a suo tempo tra Olivetti, Elsag e Finsiel. «Bisognava cominciare allora - commenta Del Sante - a costruire massa critica, per poter giocare oggi un ruolo a livello internazionale». Invece il mercato italiano dell' It, a parte Ibm, al momento è spartito fra alcune grandi aziende che però non vanno al di là dei confini nazionali, come la Elsag di Giuseppe Cuneo (gruppo Finmeccanica) o la Finsiel, altre ormai diventate espressione locale di grandi multinazionali, come Getronics, Debis (gruppo Deutsche Telekom) o Sema (gruppo Schlumberger), una fascia media ormai in via di estinzione (ad esempio Ids) e una miriade di piccolissime imprese. «Un vasto patrimonio di conoscenze - commenta Del Sante - che rischia di andare disperso perché manca un catalizzatore che metta mano a questa drammatica parcellizzazione, valorizzi le realtà più competenti e concentri le forze per creare un polo nazionale degno di questo nome». «Alcune scommesse - ammette anche Pinto - ormai le abbiamo perse, come quella sul fronte delle macchine, ma altre battaglie sono ancora tutte da giocare. Sui servizi e i sistemi, in un mercato come quello italiano dove la net economy non è ancora nemmeno partita, le opportunità sarebbero enormi». Tutti concordano, comunque, nel giudicare essenziale per le aziende nostrane poter crescere in un mercato captive, dove imparare a nuotare per saper stare a galla anche nei mari più grandi. «Malgrado il libero mercato, tutte le grandi imprese - precisa Pinto - anche le americane, in patria si muovono più agevolmente di noi. In Europa, basta guardare la svedese Ericsson o la finlandese Nokia: è in patria che sono cresciute prima di diventare i giganti che sono adesso». E dove trovare un mercato captive migliore della pubblica amministrazione? «Negli Usa - nota Del Sante - a un certo punto la pubblica amministrazione ha detto: tutto il mio sistema di acquisti lo trasferisco su Internet e chi vuole fare affari con me deve lavorare così. E tutti si sono adeguati. Da lì è partita una rivoluzione i cui effetti si vedono ancora». Anche in Italia, del resto, è proprio sull' automatizzazione delle poste che vive, ad esempio, un' azienda come Elsag. Ma anche su questo siamo in ritardo e bisognerebbe spingere sull' acceleratore. Lo stesso problema si ripropone nell' industria privata. «Mentre le aziende negli Usa buttavano a mare tutto quello che avevano e si rifondavano completamente sulle basi della net economy - insiste Del Sante - noi eravamo qui a mettere cerotti sui sistemi informativi che c' erano già. E ancor oggi continuiamo sulla stessa strada. Forse per riformare l' industria italiana bisognerebbe riformare anche il nostro modo di pensare. La tecnologia esige un modo di lavorare ordinato, una cultura di processo. E qui la resistenza è fortissima». Ma questa resistenza al cambiamento non danneggia solo chi lavora nell' It: «Investire nell' innovazione - precisa Pinto - non va solo a vantaggio di chi quell' innovazione la produce, offrendogli l' opportunità di crescere, ma migliora anche la produttività delle aziende che adottano i nuovi sistemi, riduce i costi, migliora l' efficienza di tutto il sistema Paese. La distinzione tra new economy e old economy, infatti, è fuorviante. Esiste solo un' economia, che però va riorganizzata su basi nuove se si vuole renderla competitiva». Pensiamo alle banche: mentre ormai negli Stati Uniti allo sportello non ci va quasi più nessuno e tutte le operazioni si fanno in Rete, in Italia la banca è ancora agenzia, presidio del territorio, colonne di marmo. Ma questo significa strutture sovradimensionate e tre o quattro volte il personale per la stessa quantità di capitale raccolto rispetto alle banche d' oltre Atlantico. Quindi costi eccessivi, che spesso si riversano sui consumatori, e di conseguenza scarsa competitività a livello internazionale. «In questo modo, alla lunga, si perdono interi settori. Così stiamo perdendo l' auto. E questo è solo l' inizio», conclude Del Sante. Chirac a Grenoble ha detto: «Nessun grande Paese può dipendere unicamente e in modo duraturo dalle scoperte fatte altrove. L' Unione europea si è prefissa, in materia di ricerca e sviluppo, di avvicinarsi al 3% del suo Pil: la Francia, con il 2,2%, è leggermente sopra la media dell' Unione, ma ancora lontana dall' obiettivo». E l' Italia?

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