25 settembre 2003
Il dilemma dell'innovatore
Scottati dal grande incendio delle dotcom, i vertici aziendali di tutto il mondo industrializzato si sono ritirati nel loro guscio, lanciando occhiate feroci a chiunque venisse a parlare di innovazione. I primi 42 mesi del nuovo millennio sono stati dominati dai tagli su tutti i fronti, soprattutto su quello della ricerca e sviluppo. Ma dopo tre anni di trincea, insieme alla timida ripresa borsistica dei tecnologici si sta riprendendo anche il dibattito sull'innovazione, perché ogni buon amministratore delegato sa che per competere con successo sul lungo periodo la sua azienda ha bisogno di inventarsi nuovi prodotti, servizi e modelli di business. I primi contributi al dibattito che si sta riaccendendo restano prudenti, ci ricordano che per fare innovazione non occorre essere Archimede, basta operare in un buon team, capace di guardare con occhio critico alle idee già esistenti per riassemblearle in modo nuovo. Così ha fatto Henry Ford quando ha inventato la catena di montaggio, copiata dal modo in cui funzionavano allora i macelli. Ford - come Thomas Edison - non era un genio isolato, ma lavorava proficuamente insieme a un team di ingegneri di talento.
"Questi grandi imprenditori - spiega Andrew Hargadon, docente alla Business School dell'università della California, nel suo ultimo libro How Breakthroughs Happen - non sono più intelligenti, più coraggiosi, tenaci o ribelli di tutti noi. Hanno semplicemente una cerchia più vasta di relazioni". Lo stesso si potrebbe dire delle organizzazioni. Le compagnie più innovative, infatti, sviluppano dei meccanismi per cogliere idee e tecnologie da una vasta cerchia di settori diversi e ricombinarle in modo nuovo. Mark Goldston, ad esempio, l'uomo del marketing che negli anni Ottanta ha guidato Reebok alla produzione delle leggendarie scarpe da basket Reebok Pump, aveva fatto esperienza nell'industria farmaceutica e ha tratto da lì la tecnologia per creare la prima scarpa gonfiabile della storia. E' proprio per la loro vasta rete di contatti che secondo Hargadon le conglomerate hanno più occasioni di innovare rispetto alle imprese monotematiche, perché raccolgono al proprio interno esperienze provenienti da settori completamente diversi. Quando queste esperienze si incrociano, come spesso succede nel walzer dei manager, sboccia la novità. Hargadon spezza anche una lancia in favore dei distretti industriali, dove competenze diverse si concentrano su un unico obiettivo, creando un traffico d'idee molto più articolato di quello presente nelle aziende che operano isolate. Non a caso i distretti industriali italiani affascinano tutti gli studiosi dell'innovazione.
Su un piano di ragionamento ancora più allargato, libri come quello di Hargadon sollevano una delle questioni di fondo che perseguiteranno gli amministratori delegati di questo secolo: come instillare nelle moderne imprese, costruite per il mercato e la produzione di massa, anche le forze dell’innovazione, necessarie per restare rilevanti? Questo è precisamente l’interrogativo che si pone Gary Hamel, uno dei più noti guru del management e docente alla London Business School, nel suo saggio In Search of Resilience appena pubblicato dalla Harvard Business Review. Hamel, uno dei profeti della net economy, crede molto nella necessità delle aziende di “reinventarsi dinamicamente con l’evolversi delle circostanze”. Il problema, secondo Hamel, è che di solito gli azionisti chiamano ai vertici delle aziende un manager incaricato di rinnovare il modello di business quando ormai i buoi sono già scappati: “Una ristrutturazione aziendale non è altro che un processo innovativo rimandato troppo a lungo”. Eppure affidarsi solo ai cambiamenti al vertice per introdurre delle innovazioni è un’idea da dittatura del Terzo mondo più che da democrazia occidentale. “Sembra che nel mondo del business – sostiene Hamel - l’unico modo per cambiare rotta sia di cambiare leader. Ma così le imprese evitano di raccogliere la sfida più importante, cioè la costruzione di organizzazioni capaci di rinnovarsi dall’interno in maniera dinamica”.
In questo mondo sempre più convulso, in cui è diventato ancora più difficile di una volta mantenere saldamente in mano le redini del successo una volta conquistate, la durata media di un amministratore delegato al vertice di un’azienda negli Usa ormai è scesa a quattro anni. E le imprese grandi e piccole si trovano sempre più spesso nella necessità di introdurre aggiustamenti di rotta strutturali, molto più complicati dei cambiamenti marginali, come l’introduzione di un nuovo sistema informatico. Hamel cita McDonald’s per fare l’esempio di un colosso di grande successo che si è fatto superare dai tempi senza reagire e Sun Microsystems per la miopia con cui è rimasta ai margini del mondo open-source di Linux. Non a caso proprio in questi giorni assistiamo a un radicale restyling dei locali “burger and Coke” in classico stile McDonald’s, che sembrano perdere sempre più il favore del pubblico. Ma sarà sufficiente?
La soluzione a questo dilemma ce la fornirà forse in ottobre Clayton Christensen, docente alla Harvard Business School e autore acclamato, con il suo nuovo The Innovator’s Solution, il seguito del best seller mondiale The Innovator’s Dilemma. Nel suo primo libro, Christensen cercò di sfatare alcuni miti che circondano le ragioni per cui certe aziende perdono il treno dell’innovazione e restano a terra per non rialzarsi più, sostenendo che i loro manager si focalizzano troppo sulle esigenze della clientela più tradizionale, ma ignorano le innovazioni di nicchia e spesso si fanno prendere alla sprovvista da quanto questo tipo di innovazioni siano capaci di cambiare le condizioni del loro business. Con il suo nuovo libro, Christensen vuole offrire ai manager una soluzione a questo problema, sostenendo che l’innovazione non è così imprevedibile come si può credere. Malgrado gli effetti delle innovazioni siano abbastanza difficili da prevedere, il modo in cui queste si sviluppano e crescono all’interno delle aziende è sempre lo stesso. “Chi riesce a capire e a gestire le forze che influenzano questo processo - spiega Christensen – sono anche in grado di concepire dei piani di business capaci di restare sempre sulla cresta dell’onda”. Dopo anni di studi e di approfondite ricerche su centinaia di aziende di diversi settori, l’autore è riuscito a identificare e descrivere questo tipo di processi, per offrire ai manager ansiosi di andare al passo con i tempi la possibilità di ritagliare le loro strategie a misura di un mondo in rapida evoluzione.
24 settembre 2003
Wifi, eppur si muove
Il WiFi, dicono, è come le dotcom. Continuiamo a buttarci dentro dei soldi, ma non è per niente sicuro che prima o poi questi soldi tornino indietro, né a chi arriveranno in tasca. Eppure qualcosa si muove. Questa tecnologia non finisce sui tavolini di Starbucks o di McDonald’s, fra i tecnomani metropolitani intenti a scaricare la posta con un panino in mano. E la ragione è molto semplice: se da un hotspot WiFi (o Bluetooth, il suo eurocentrico cugino) si possono mandare dati senza fili, perché non usarlo anche per fare una telefonata? Già oggi questo è teoricamente possibile, usando un laptop per fare una cosiddetta chiamata VoIP (voice over internet protocol), così com’è teoricamente possibile da tutte le postazioni fisse nelle case della gente. Solo che si tratta di una procedura troppo complicata per diventare un business. Ma con la crescente diffusione di milioni di hotspot e di reti aziendali basate sulla tecnologia scandinava Bluetooth, sarebbe ora che cominciassero a spuntare anche dei telefonini capaci di approfittarne. Ed è quello che sta succedendo.
British Telecom, ad esempio, sta armeggiando con un apparecchio ancora da lanciare che funziona come un normale telefono cellulare finché non entra nel raggio d’azione della sua base fissa. Qui, tramite la tecnologia Bluetooth, cambia rete e consente di telefonare via internet su una linea dati, che può essere usata contemporaneamente anche per navigare. Telefonare con Bluephone non è gratis, ma costa molto meno di una telefonata convenzionale. Usare il WiFi per fare lo stesso sarebbe un po’ più complicato, ma non c’è nulla che lo vieti, soprattutto da quando cominceranno a spuntare hotspot di nuova generazione, con uno standard migliore degli attuali. BT sta lavorando anche su questo, nel tentativo di estendere le capacità di Bluephone anche sul WiFi. E ci sono buone probabilità che ci riesca, anche se la prima versione del nuovo telefonino, che arriverà nei negozi nel 2004, non sarà ancora “trilingue”.
Gli americani, per cui il WiFi sta diventando ormai una religione, sono invece più concentrati su questa modalità. Motorola e la giapponese Nec stanno sviluppando insieme un telefonino a doppio uso, capace di passare automaticamente dalle reti convenzionali al protocollo internet non appena entra nel raggio d’azione di uno hotspot. Ma non è ancora pronto. E Cisco ha appena lanciato un cosiddetto “campus phone”, capace di funzionare via internet ma non sulle reti normali, destinato a tutti quegli utenti che passano la maggior parte della loro vita all’interno di uno hotspot, come ad esempio gli studenti universitari. Secondo Frank Hanzlik, dell’americana WiFi Alliance, non siamo molto distanti dalla nascita di telefonini “agnostici”, capaci di passare indifferentemente da una modalità all’altra. La sua valutazione, forse ottimistica, è che non ci vogliano più di 18 mesi per arrivarci. In tre anni potrebbero già cominciare a diffondersi.
Resta da chiedersi: a chi giova? Non necessariamente agli operatori mobili, che già vedono il WiFi come un intruso sul loro terreno, per il modo in cui rosicchia una parte dei loro utili sulla trasmissione dati. Ma siccome l’80% dei loro affari li fanno con la voce, per ora non si preoccupano. Vero è che proprio dagli operatori mobili provengono l’esperienza e le conoscenze necessarie per consentire alla gente di fare telefonate attraverso internet con la stessa facilità con cui le fanno adesso sulle loro reti. E’ dunque logico che in qualche modo questo sviluppo coinvolga anche loro, soprattutto se saranno capaci di stabilire le alleanze giuste. Ad esempio accordandosi con i diversi proprietari degli hospot in modo da usare la SIM card del telefonino come chiave di accesso universale e impronta identificativa dell’utente, per evitare alla gente la scomodità di pagare l’uso di ogni hotspot separatamente, come oggi succede spesso. L'unica cosa da non fare è pestarsi i piedi a vicenda.
22 settembre 2003
Nick manofredda, vecchia e nuova Ibm
Quando la Harvard Business Review ha raccontato mesi fa che investire in informatica non porta più vantaggi competitivi, molti nel settore hanno trattenuto il respiro, altri hanno disdetto l' abbonamento. Nick Donofrio non ha fatto una piega. Il numero due di Ibm pensa che non sia vero. E ritiene di non aver bisogno di dimostrarlo a nessuno. Perché vive e tocca con mano ogni giorno la necessità espressa dalle aziende di avere strumenti più veloci, più capaci, più facili da usare, oggi come il primo giorno in cui è entrato in Big Blue, nel lontano ' 67. Dice: «Il futuro sta in tanti piccoli apparecchi diffusi, ognuno con una funzione diversa di collegamento a un cervellone remoto, ognuno mirato a usare solo una parte specifica delle sue capacità». A 57 anni, questo combattivo ingegnere di origini italoamericane che non disdegna le citazioni in latino («Ho fatto il chierichetto anch' io») e ama le bretelle vistose alla Larry King, porta su di sé tutto il peso della gloriosa tradizione Ibm, con la responsabilità della strategia per lo sviluppo e la commercializzazione delle tecnologie più avanzate prodotte dal colosso mondiale dei computer. Eredità non facile, in un' epoca in cui le macchine costituiscono ormai solo un terzo del fatturato di questo colosso da 83 miliardi di dollari e le aziende tendono a razionalizzare la capacità informatica che già possiedono piuttosto che comprarne di nuova. Ma Nick Donofrio presta attenzione alla congiuntura solo fino a un certo punto: Big Blue secondo lui è al di là di queste «fluttuazioni momentanee». Del resto che cos' altro aspettarsi da un' azienda che navigando controvento ha speso quasi cinque miliardi di dollari in ricerca nel 2002 e ha tratto dai 22 mila brevetti dei suoi ingegneri ben un miliardo di utili? Sette di questi brevetti sono targati Donofrio e anche se, dopo 35 anni, i tempi sono cambiati e i capelli sono più bianchi, è chiaro che ci crede ancora: «Nella mia carriera ho visto aumentare di un milione di volte la performance dei computer e sono progressi che ci siamo costruiti pezzo per pezzo, con le nostre mani: all' inizio i chip erano fatti di germanio, poi siamo passati al silicio, abbiamo aggiunto i fili di rame per aumentare la velocità, infine l' isolamento. Tutto questo è partito dai tecnici Ibm. E anche il prossimo passo, l' uso di un silicio deformato che sappiamo da anni essere il materiale ideale per far circolare gli elettroni più velocemente con meno dispendio di energia, sta giungendo a compimento nei nostri laboratori proprio in questi giorni, anche se ci vorranno almeno due anni prima che una macchina costruita con i nuovi chip arrivi nelle vetrine dei negozi». Per Donofrio, sfidare la legge di Moore è una delle priorità: con i nuovi chip, la performance dei computer dovrebbe compiere un balzo in avanti dal 40% al 60%. L' altra è ancora più ardita: la semplificazione. «I computer del futuro risponderanno alla nostra voce, all' espressione della faccia, al semplice movimento delle labbra. Non ci sarà più bisogno di "allenare" le macchine alla nostra pronuncia, così come non dobbiamo "allenare" un telefono o un rubinetto. Certo questi sono sviluppi lontani, ma se andiamo avanti a questo ritmo forse riuscirò a vederli anch' io». C' è un tocco di Ray Kurzweil e delle sue «macchine spirituali» nella visione dell' uomo Ibm, che considera del tutto naturale la parcellizzazione e la pervasività già oggi sperimentate attivamente da Ibm con il «grid computing» (vedi anche il servizio di Chiara Sottocorona a pagina 20) e lo sfruttamento «a richiesta» di risorse remote, per venire incontro alle necessità di risparmio e di razionalizzazione delle aziende: «Non occorre essere degli ingegneri elettronici per capire che ormai non serve avere un computer in tasca o in casa o in azienda per sfruttare le grandi potenzialità di crescita offerte dall' information technology». Ma la differenza tra Donofrio e Kurzweil sta tutta nell' imperativo categorico: consegnare i prodotti ai clienti. Le macchine intelligenti di cui parla l' uomo Ibm, infatti, in parte ci sono già: prendiamo la Web Fountain, una nuova piattaforma messa a punto da un team dell' Almaden Research Center destinata ad estrarre trend, schemi e relazioni dalla Rete, che gli insider hanno soprannominato «Google on steroids». Questa nuova tecnologia, già in distribuzione, legge e capisce i testi con straordinaria intelligenza, usando il linguaggio come noi lo conosciamo (non il linguaggio cifrato di programmazione) per instaurare sofisticate correlazioni fra le parole che consentano di riconoscere strutture altrimenti indecrifrabili.
L'orbita di Arturo
Innovazione e concretezza. E' di questo che hanno bisogno le piccole e medie imprese italiane, ma nessuno le aiuta. Ed è per questo che Arturo Artom, fondatore e presidente di Netsystem, si sta battendo. «Il ritardo italiano nell' innovazione - constata Artom - è un dato che si può ormai dare per acquisito. Ma le piccole imprese sono quelle che ci rimettono di più, perché le grandi scaricano sulle piccole l' onere di questa perdita, espellendo manodopera e decentrando funzioni e produzioni». L' ingegno italiano non è più sufficiente per colmare il gap competitivo con altri Paesi: occorrono risorse finanziarie superiori. «A livello europeo - fa notare Artom - è attiva un' ampia gamma di strumenti per sostenere la ricerca delle imprese, con stanziamenti nell' ordine dei miliardi di euro all' anno. Ma sono strumenti che restano sostanzialmente preclusi alle piccole imprese». Dati alla mano, è facile dimostrare che i Framework Program dell' Ue sono un miraggio per le Pmi: su circa 13,7 miliardi spesi dall' Fp5 per il quinquennio ' 98-2002, solo un decimo è andato alle piccole imprese. Se poi si prende in considerazione il settore dell' informatica, la quota scende al 3,5%. E da quando è partito l' Fp6 - il programma per il quinquennio 2003-2007 - non è cambiato niente nei regolamenti che trasformano la richiesta di fondi in una corsa a ostacoli, malgrado la decisione ufficiale di riservare il 15% del budget alle Pmi. Lo stesso organismo incaricato dalla Commissione del monitoraggio del programma, l' Istag, ha rilevato tutti i limiti delle regole di accesso: «Criteri finanziari tali da ostacolare le Pmi più innovative»; totale esclusione delle start-up; tempi troppo lunghi per ricevere i finanziamenti; discriminazioni dovute alla grandezza dei programmi, al numero dei partecipanti e alla durata richiesta. Altri paletti sostanzialmente impossibili da superare sono la transnazionalità del progetto e spesso anche l' intersettorialità: infatti le Pmi sono generalmente legate a una dimensione locale e molto focalizzate sul loro business. «La piccola impresa semplicemente segue il mercato, capta un gap nell' offerta, si attrezza freneticamente e produce il meglio di se stessa, in modo da battere magari il grande gruppo sul filo di lana», spiega Artom. E lui ne sa qualcosa, visto che ha fatto proprio così. La sua Netsystem ha cominciato a fornire collegamenti Internet veloci attraverso la parabola satellitare - fra lo scetticismo degli addetti ai lavori - per consentire l' accesso alla banda larga anche a chi abita in località remote, dove il cablaggio non arriva. Dopo aver forzato con una causa storica la liberalizzazione della telefonia in Italia, dopo un periodo in Omnitel e poi in Viasat, Artom ha scommesso con Netsystem proprio su innovazione e concretezza, individuando un varco nel mercato e colmandolo con una risposta banale: l' uso del satellite per ricevere e del doppino telefonico per mandare le proprie richieste in rete consente ai suoi clienti di basarsi sulla stessa tecnologia satellitare utilizzata per ricevere il segnale televisivo (molto più a buon mercato rispetto a quella necessaria per instaurare la comunicazione nei due sensi) e contemporaneamente di emanciparsi dalla schiavitù del cavo a fibre ottiche. Una scommessa vinta: dopo neanche tre anni di attività, Artom ha firmato un grosso contratto con Telecom Italia (in Italia c' è almeno un milione di utenti Internet che non hanno alcuna possibilità di essere raggiunti dalla banda larga via cavo), ha conquistato la leadership in Europa (un mercato da cento milioni di utenti) e ora si sta espandendo anche nell' Est Europa e sulla sponda Sud del Mediterraneo. L' itinerario di Netsystem dimostra che la ricerca applicata è altrettanto importante della ricerca pura per fare innovazione ed è proprio su questi temi che i fondi europei potrebbero fare la differenza. La proposta di Artom è di utilizzare da un lato la leva fiscale per stimolare le Pmi a investire in nuove tecnologie (con lo stesso strumento legislativo usato per l' incentivazione al commercio elettronico), dall' altro di approfittare del semestre italiano all' Ue per mettere all' ordine del giorno alcune modifiche (come l' abolizione della clausola della transnazionalità) dei meccanismi di assegnazione dell' Fp6 sul modello della legge Sabatini, che per quasi quarant' anni ha consentito alle piccole imprese italiane di abbattere i costi dell' acquisto di macchinari nuovi con un sistema di rimborsi semplicissimo. Inoltre Artom propone di aumentare la riserva destinata alle Pmi dagli attuali 2,13 miliardi di euro a 5 miliardi per il prossimo quinquennio. Sarebbe un bel colpo per un Paese dove il 72,6% del valore aggiunto prodotto viene dalle Pmi, contro una media europea del 59,7%. Bisogna solo vedere se gli altri sono d' accordo.
19 settembre 2003
La strategia del dynamic pricing
Quando Michael Eisner prese le redini della Walt Disney nell'84, una delle sue prime decisioni fu di raddoppiare i prezzi dei biglietti d'ingresso ai parchi, nella convinzione che il pubblico sia disposto a pagare molto di più quando la qualità del prodotto è nettamente superiore a quella dei concorrenti. Eisner vinse la sua scommessa e mise a segno profitti miliardari, rilanciando così un'azienda che sembrava sull'orlo del collasso. Con lo stesso sistema, sempre negli anni Ottanta, Paul Girolami trasformò Glaxo in una potenza mondiale, lanciando Zantac a un prezzo doppio rispetto al rivale Tagamet della SmithKline e facendone il farmaco anti-ulcera più venduto del decennio. Altri tempi, quando il magico potere di attrazione della qualità superiore si pagava in dollaroni sonanti. Oggi non è più così.
La pirateria di tutti i generi, il commercio elettronico, la demonizzazione delle multinazionali e negli ultimi due anni anche gli eccessi di produzione hanno enormemente compresso la possibilità delle aziende di mettere in conto grandi premi di qualità rispetto ai prodotti rivali meno ambiti. Una Coca non costa ormai più di una Pepsi e nessuna delle due oggi costa più di vent'anni fa. I prezzi dei CD sono sulla via del declino, colpiti al cuore dalla pirateria informatica. I DVD seguiranno. I chimici di vari continenti stanno imparando a copiare i principi attivi coperti da brevetto per produrre farmaci illegali (vedi il Viagra fai-da-te del farmacista Roberto Tafuri di Santa Maria Capua Vetere). E qualsiasi software comprato in un negozio del Terzo mondo è quasi certamente una copia contraffatta dell'originale, venduta a prezzi stracciati. Per di più nell'era dell'informazione i concorrenti nascono come funghi dalla sera alla mattina: basta andare a vedere gli effetti del commercio elettronico sulle librerie tradizionali, sugli agenti di viaggio o sulle assicurazioni per farsi un'idea. Perfino le regole che premiavano i monopoli sono rivoluzionate: da eBay a Monster.com, anche i piccoli annunci di compravendita o di lavoro che rendevano particolarmente ambiti i giornali capozona, non sono più quelli di una volta. E la marea montante delle informazioni, che consente ai consumatori di scoprire rapidamente quali sono le offerte più vantaggiose disponibili sulla piazza, sta facendo il resto.
Tempi duri, insomma, per chi si occupa di decidere quanto far pagare alla gente un certo prodotto. Gli errori non sono più consentiti e le scelte arbitrarie rischiano di aprire voragini devastanti nei bilanci aziendali. Non stupisce, dunque, che la strategia dei prezzi sia diventata uno dei temi in cima all'ordine del giorno delle Business School di tutto il mondo. Shantanu Dutta, docente di marketing alla London Business School e uno dei guru più seguiti in questa trascurata disciplina, ha appena lanciato un corso tutto incentrato sulle tecniche da applicare nella difficilissima ricerca del valore "ottimale" da attribuire a un prodotto. E grazie agli sforzi di una schiera di accademici, consulenti e tecnomani, i più sofisticati metodi per decidere se il prezzo è giusto stanno uscendo dall'esclusivo club delle linee aeree e dell'industria turistica per dilagare anche negli altri settori. Ma le ricerche di Dutta confermano che spesso le decisioni sui prezzi sono ancora frammentarie, condizionate da una disordinata massa di input provenienti dai compartimenti aziendali più diversi, dal marketing alle vendite, dalla produzione alla contabilità. Per non parlare di partner esterni come i distributori, i grossisti o i dettaglianti. Bob Phillips, un altro esperto in materia molto seguito, attualmente in forza alla Stanford Business School, conferma: "Non è raro scoprire che manca all'interno di aziende anche molto articolate una figura specificamente incaricata di decidere qual'è il prezzo giusto per ogni prodotto".
Phillips è il fondatore di Talus, una software house che ha svolto un ruolo pionieristico nell'ambito del dynamic pricing, la metodologia più seguita nell'ambito del commercio elettronico per determinare il prezzo giusto. Si tratta di un approccio estremamente flessibile, che tende a usare tecniche stile asta per captare le indicazioni del mercato a seconda delle diverse circostanze e a fare continui aggiustamenti in base alle fluttuazioni dei dati di partenza. Scott McNealy, a.d. di Sun Microsystems, è il più noto fautore del dynamic pricing, su cui scrisse uno storico saggio sulla Harvard Business Review nel 2001, in cui decretò la morte del prezzo di listino. Ora è ben vero che questo tipo di tecniche hanno largamente attecchito sia in uscita che in entrata, con l'utilizzo sia di aste elettroniche per la determinazione dei prezzi al dettaglio che di gare d'appalto elettroniche tra i fornitori per scegliere il migliore offerente, ma in realtà il listino è ancora vivo e vegeto. Si basa però sempre più su input dinamici e su software molto sofisticati, che in questi anni di vacche magre per l'hi-tech sono stati fra i pochi a mettere a segno tassi di crescita a due cifre. Per risolvere i loro dilemmi in materia di prezzi, molte aziende si sono procurate uno dei diversi software in commercio che inghiottono milioni di dati su vendite passate, prezzi attuali, inventari e condizioni di mercato, per poi buttar fuori sofisticate ipotesi sull'equilibrio ideale per la massimizzazione dei profitti in ogni linea di prodotto e categoria di clienti. La catena di negozi di abbigliamento giovanile Gap usa il software di Profitlogic, DHL preferisce Zilliant e Ford è cliente di Manugistics, il gigante delle soluzioni per il business in cui nel 2000 è confluita anche Talus.
Resta il fatto che un software non è certo la panacea per risolvere il problema delle scelte sui prezzi. "Quando la gente pensa al dynamic pricing - commenta Phillips - immagina asettici schermi di computer e liste di numeri che cambiano ogni dieci minuti. In realtà, le applicazioni più efficaci di questo concetto si decidono a livello più alto, in dibattiti interni alle aziende di ben più vasto respiro". Anche utilizzando un software, infatti, sono sempre gli uomini a decidere. La maturazione dei manager conta molto di più dell'evoluzione delle macchine.
7 settembre 2003
Quando i posti di lavoro vanno a Est
Dalla periferia di Filadelfia, dove il Crozer-Chester Medical Center accoglie ogni giorno schiere di pazienti dai tre Stati confinanti (Pennsylvania, Delaware e New Jersey), alle colline di Gerusalemme il passo è breve: se mai vi capitasse di essere ricoverati nel gigantesco ospedale durante la notte con una sospetta appendicite o con qualche osso rotto, le vostre radiografie verrebbero esaminate dal dottor Jonathan Schlakman o da un suo collega del Media Medical Imaging di Gerusalemme, a seimila miglia di distanza. Per chi lavora su immagini o altre informazioni facilmente trasferibili in forma digitale, la distanza ormai non è più un problema. Al momento solo 35 serie di radiografie al giorno vengono trasmesse da Filadelfia a Gerusalemme, ma più cresce la paga dei radiologi americani e i turni notturni diventano un lusso per gli ospedali, più radiografie finiranno in Medio Oriente (dove un radiologo costa la metà e dove splende il sole quando è notte a Filadelfia) per decidere se è il caso di operare subito o no.
Per ora Schlakman e compagni sono solo una manciata, ma l'emorragia di posti di lavoro nei servizi - non più solo nel comparto manifatturiero - dall'Occidente verso i Paesi in via di sviluppo è stata il tormentone dell'estate nel mondo accademico americano e britannico. "Nel secolo scorso - spiega in un suo recente saggio Brad Delong, docente di Economia a Berkeley - chi lavorava la terra o in una fabbrica sapeva di essere in competizione con i lavoratori di continenti lontani; sapeva che le dinamiche del mercato globale possono far sparire il vantaggio di mantenere in Occidente la produzione, spazzando via il suo lavoro e il sostentamento della sua famiglia. Oggi si sta aprendo un nuovo capitolo: i cavi in fibra ottica, i satelliti e internet stanno assumendo il ruolo svolto nel secolo scorso dai grandi transatlantici, che hanno minimizzato il costo del trasporto delle merci. Tutti i compiti di back-office, di elaborazione dati, di servizio clienti, di programmazione informatica, tutte le mansioni tecniche che si basano su un supporto cartaceo ora si possono spostare verso continenti lontani esattamente come nel secolo scorso si è spostata una parte dei posti di lavoro agricoli o manifatturieri". Per Delong, acceso paladino della globalizzazione, in fondo non c'è niente di male, anzi: "Questa riallocazione di posti di lavoro finirà per diventare una straordinaria fonte di crescita per l'economia mondiale nelle prossime due generazioni". Ma non tutti sono d'accordo con lui. Quando in Occidente si comincia a parlare di dazi, di barriere o di protezionismi di vario genere, come quelli che nel secolo scorso hanno fatto la fortuna del magnate dell'acciaio Andrew Carnegie o degli Junker prussiani, vuol dire che la resistenza a questo trasferimento - complice la crisi di questi anni e la disoccupazione crescente nelle economie industrializzate - sta diventando sempre più forte.
La sensazione diffusa negli ambienti accademici, però, è che alzando adesso la bandiera del protezionismo si rischia di chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati. L'esempio del radiologo israeliano, infatti, non è che una goccia nel mare dell'outsourcing occidentale verso il terzo mondo. Esempi come questo abbondano ormai in Medio Oriente, in India e in tutto il Sud Est asiatico, soprattutto dove l'inglese è considerata quasi come una seconda lingua madre. L'aeroporto Changi di Singapore, ad esempio, dall'anno scorso svolge tutta la manutenzione degli aerei di buona parte delle compagnie americane: la modesta retribuzione chiesta dagli ingegneri aeronautici dell'isola compensa abbondantemente il costo della trasvolata del Pacifico (circa 60mila dollari) per un aereo vuoto. Come i radiologi israeliani, anche gli architetti thailandesi o vietnamiti ricevono sempre più incarichi tecnici da studi dei Paesi industrializzati. In Tailandia, un team di 50 architetti lavora per 16 studi britannici, che hanno delegato ai colleghi asiatici tutti i disegni in 3D generati al computer. L'architetto vietnamita Trieu Nguyen, invece, dopo aver insegnato per anni all'università oggi lavora per Atlas Industries, una società di servizi per studi di architettura che ha sede a Ho Chi Minh City (Saigon), oltre che a Londra e a Manchester. I dipendenti di Atlas guadagnano in media 6000 dollari all'anno, una paga molto alta per un Paese dove il reddito medio pro capite è di 400 dollari, ma pur sempre bassissima rispetto ai colleghi occidentali.
Al centro di questo processo, naturalmente, c'è l'India, il Paese asiatico dove la cultura tecnica è più avanzata e dove l'inglese è ancora la lingua ufficiale. Ramesh Sharma, fondatore di Moving Pictures India, è uno degli esempi più citati: la sua azienda fornisce documentari, animazione ed effetti speciali a tutta l'industria cinematografica americana, con reciproca soddisfazione. Ma non c'è limite all'outsourcing occidentale verso il subcontinente indiano, ricco di un milione e mezzo di laureati perfettamente anglofoni. Tutte le grandi multinazionali, da General Electric a British Telecom, ormai hanno almeno un call-center in India. E a poco a poco cominciano a trasferirsi qui settori sempre più centrali nel business delle aziende occidentali: Reuters sta per aprire uno stabilimento a Delhi dove verranno preparati e analizzati tutti i dati finanziari destinati a comparire sugli schermi delle banche d'affari di tutto il mondo, minacciando così i posti di lavoro di una parte dello staff di oltre mille persone che ora svolge questo stesso compito negli Usa e nel Regno Unito. L'elemento chiave è che gli indiani forniscono un servizio di ottima qualità a un quarto del prezzo. Ajay Lavakare è un altro esempio paradigmatico: dopo un master in ingegneria a Stanford, Lavakare è stato uno dei pionieri indiani nell'analisi dei dati geografici, una nicchia in cui l'India è ormai diventata campione mondiale. In meno di un decennio la sua Rmsi si è gonfiata fino a ottocento dipendenti distribuiti su quattro sedi, due in India, una a Londra e una a Newark. Con la sua analisi geografica, Rmsi aiuta le assicurazioni a capire se i loro rischi sono troppo concentrati su determinate aree, fornisce sofisticate mappe agli eserciti di diversi Paesi e carte stradali computerizzate agli automobilisti. Perfino nei servizi sanitari la competenza degli indiani sta diventando famosa. L'Escorts Heart Institute di New Delhi installa sempre più bypass a pazienti arrivati in volo dall'Europa o dall'America: il costo - compreso il viaggio - non supera i settemila dollari e non ci sono liste d'attesa. L'anno scorso Naresh Trehan e il suo team hanno fatto più di quattromila bypass e il tasso di mortalità (0,8%) non è superiore a quello dei migliori ospedali occidentali.
La nuova frontiera dell'outsourcing attira anche imprenditori occidentali, come Joseph Siegelman e Randy Altschuler, due giovani americani laureati a Harvard che hanno fondato quattro anni fa a Chennai (l'antica Madras) una società di analisi finanziaria, Office Tiger, ormai considerata il braccio virtuale di Wall Street. Delle dodici principali banche d'affari, sei sono suoi clienti: lo staff è diviso in sei settori diversi, rigidamente separati, ognuno dei quali svolge ricerche finanziarie estremamente sofisticate per uno dei sei clienti. Dei mille dipendenti di Office Tiger, un'ottantina ha un dottorato, trecento hanno un master e gli altri sono tutti laureati. Ed è proprio questo il punto centrale della fuga verso Oriente dei lavori intellettuali: mentre una volta una laurea di un'università asiatica valeva poco o niente, ora la preparazione universitaria dei dipendenti orientali sta raggiungendo livelli paragonabili a quelli dei laureati occidentali. Questo significa che tutto il sistema educativo di alcuni Paesi in via di sviluppo si è mosso rapidamente per cercare di competere con gli atenei occidentali e in alcuni casi ci sta riuscendo.
Geoffrey Colvin, autore di diversi best-seller in materia, è stato il primo a mettere il dito sulla piaga: gli Stati Uniti, ex monopolisti dell'educazione superiore, stanno lentamente perdendo il loro primato. Una volta tutte le menti più brillanti dei Paesi in via di sviluppo aspiravano a studiare nelle università americane, da dove uscivano i migliori ingegneri, i migliori radiologi e i migliori analisti finanziari. Ma se ora le aziende scoprono che gli ingegneri, i radiologi e gli analisti finanziari educati in India o in Tailandia sono altrettanto bravi di quelli educati negli Usa, questo flusso finirà per prosciugarsi e uno dei pilastri fondanti della società americana, cioè l'attrazione magnetica nei confronti delle menti migliori di tutto il mondo, potrebbe vacillare. "Ecco perché è un errore - sostiene Colvin - credere che l'esodo di posti di lavoro intellettuali sia identico a quello già avvenuto nel settore agricolo e manifatturiero". Ma anche il suo grido d'allarme potrebbe arrivare troppo tardi.
5 settembre 2003
Chicago Boys, who? Libero mercato e privatizzazioni
La
strada più diretta per arrivare a Santiago parte da Vienna e passa per
Chicago. Ma l’anno di partenza non è il 1973. È nel settembre del 1923,
esattamente mezzo secolo prima, che Friederich von Hayek sbarca a
Manhattan con in tasca due lauree dell’università di Vienna – in
Economia e in Giurisprudenza – deciso a conseguire un dottorato alla New
York University. Tipico prodotto dell’impero austro-ungarico, il
ventiquattrenne Friedrich viene da una famiglia di biologi e funzionari
governativi, ma è stato travolto come suo cugino Ludwig Wittgenstein
dalla Prima guerra mondiale e dal collasso dell’impero mentre camminava
spedito verso un’ordinata carriera di botanico. Dopo la guerra, in cui
ha combattuto da ufficiale in battaglie dove i suoi uomini «parlavano
undici lingue diverse» (secondo il suo stesso resoconto), Friedrich
torna a Vienna socialista convinto e decide di mettere le sue competenze
al servizio della costruzione di un’organizzazione sociale più giusta,
contro ogni nazionalismo. Mentre la vibrante società viennese d’inizio
secolo, in cui era cresciuto, si sfalda, Friedrich studia come un matto
Economia e Giusrisprudenza, deciso a mollare gli ormeggi appena
possibile verso il Nuovo Mondo.
Lo
sbarco a New York nel settembre del 1923 è fondamentale per la
formazione di Hayek, ma in un certo senso si rivela una falsa partenza:
il suo interesse per l’economia si rafforza, ma ben presto gli mancano i
soldi per mantenersi ed è costretto a tornare a Vienna. Qui, sotto
l’influenza di Ludwig von Mises, esponente di punta della Scuola
austriaca del pensiero economico, si converte al liberalismo e
all’economia di mercato. Nel 1931, dopo essere stato per anni assistente
di Mises, Hayek viene chiamato da Lionel Robbins a insegnare alla
London School of Economics, un bastione di sinistra dove però il
dipartimento di macroeconomia sta virando su posizioni liberiste, contro
il dominante influsso statalista di John Maynard Keynes. Con
l’avvicinarsi della Seconda guerra mondiale, Hayek è sempre più
preoccupato dallo statalismo e dal nazionalismo rampanti nel Vecchio
Continente. In uno dei suoi articoli più profetici, pubblicato in quegli
anni, spiega il fallimento delle economie pianificate centralmente con
la famosa teoria della conoscenza: chi sta al centro – secondo Hayek –
non ha tutte le informazioni necessarie per prendere delle decisioni
economiche. Solo il «meraviglioso sistema dei prezzi», spiega, «è un
meccanismo perfetto per comunicare informazioni con la velocità del
vento anche nelle regioni più remote». Ecco perché in ogni caso bisogna
lasciarli fluttuare liberamente.
Questa e altre sue teorie vengono condensate in un libro ferocemente antistatalista, The Road to Serfdom, oggi considerato la pietra angolare del neoliberismo all’austriaca. Ma nel regno di Keynes era impossibile pubblicarlo. È così che si crea per la seconda volta un proficuo cortocircuito fra il rigido ufficiale austroungarico e il Nuovo Mondo, dove tutto è possibile. Nel 1944 il libro di Hayek viene pubblicato dalla Chicago University Press su indicazione di Aaron Director, docente di Economia e genero di Milton Friedman, economista di punta dell’ateneo. Il libro scoppia come una bomba nel mondo accademico e in breve diventa un bestseller. Il giovane Friedman (più tardi consigliere economico di Ronald Reagan e infine premio Nobel per l’economia nel 1976, due anni dopo Hayek), lo legge. Poco dopo il volume finisce avventurosamente fra le mani di una studentessa dell’università di Oxford, Margaret Roberts, non ancora Margaret Thatcher. Keynes lo legge mentre è in viaggio per il vertice di Bretton Woods, dove verrà deciso l’assetto economico del mondo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. In una memorabile lettera al suo acerrimo nemico, lo definisce cavallerescamente «un grande libro», ma ribadisce la sua incrollabile fiducia nella pianificazione centralizzata dell’economia: «Semmai ce ne vorrebbe di più», scrive Keynes, «non certo di meno». E aggiunge: «Se solo potessi indirizzare la tua crociata in questa direzione, eviteresti la figura di Don Chisciotte che stai facendo adesso».
Keynes aveva ragione. Dopo la Prima guerra mondiale e specialmente dopo la Grande Depressione tutto il mondo si era mosso quasi all’unisono verso una maggiore pianificazione centrale dell’economia, a partire dal blocco socialista per arrivare all’America Latina, passando per l’Europa continentale e perfino per il Nord America. Il protezionismo nazionalista dilagava, con dazi altissimi per impedire le importazioni e schermare le industrie locali dalla concorrenza estera, con regolamentazioni sempre più stringenti sui prezzi che portavano al boom del mercato nero, con vaste nazionalizzazioni delle industrie principali e un mercato del lavoro sempre più rigido. Negli anni della guerra la pianificazione centrale era irrinunciabile e il «successo» del sistema stava portando gli alleati a procedere nella stessa direzione anche nel dopoguerra.
In questo contesto, la crociata di Hayek contro lo statalismo e a favore del libero mercato, per un ritorno alla visione classica dell’economia ancorata negli insegnamenti di Adam Smith, sembrava davvero una battaglia contro i mulini a vento. Eppure oggi sappiamo che il vento, all’insaputa di tutti, già allora stava girando nella direzione indicata da Vienna. La globalizzazione, frutto dell’apertura dei mercati locali alla concorrenza internazionale, della deregulation reaganiana, delle liberalizzazioni à la Thatcher e del crollo dell’impero sovietico, discende direttamente dalle teorie di Hayek. E la prima tappa nella nuova direzione, per una serie di coincidenze fortuite, è Santiago. Ma prima ancora di arrivare là, si passa da Chicago.
Hayek abbandona la London School of Economics per l’università di Chicago nel 1950. Gli viene affidata la cattedra di Scienze sociali, che non fa parte del dipartimento di economia, ma l’interazione con gli economisti è vivace e il rapporto con Milton Friedman, diventato nel frattempo il padre del neoliberismo americano, sempre più stretto. È qui che Hayek scrive la sua opera più importante, The Constitution of Liberty, pubblicata nel 1960, dove si afferma che il laissez-faire non è sufficiente ad assicurare un buon funzionamento dell’economia e che il ruolo più importante dello Stato sta proprio nello sviluppo di leggi e regole capaci di assicurare la libera concorrenza. Un’affermazione che oggi sembra banale, ma allora suonava del tutto nuova e rivoluzionaria. Negli stessi anni il Nobel Theodore Schulz, rettore dell’Università di Chicago, e Julio Chana, rettore dell’Università cattolica di Santiago, instaurano un rapporto di collaborazione molto stretto fra i due atenei, aprendo un ponte fra Santiago e Chicago per tutti gli studenti cileni di economia interessati ad ampliare le proprie conoscenze.
Negli anni Sessanta lo stesso canale, che presuppone un importante aiuto economico agli studenti stranieri, viene aperto anche con l’Argentina. Al Harberger, un collega di Friedman che ha dedicato tutta la sua vita al progetto sudamericano, lo descrive così: «Ora i latinos possono andare dappertutto, ma allora non era così. Negli anni Sessanta, mentre a Chicago si potevano trovare anche 40 o 50 studenti sudamericani in corsa per il dottorato su una popolazione complessiva di 150-180 neolaureati, a Harvard ce n’erano forse tre o quattro, al Mit cinque o sei. È la nostra politica delle ammissioni che ha fatto diventare Chicago così importante sulla scena sudamericana: eravamo pronti ad ammettere anche studenti che avrebbero potuto fallire lungo il cammino, mentre le altre grandi università americane ammettono praticamente solo studenti in grado di garantire fin dal primo giorno il raggiungimento di un dottorato al top dei voti». In una decina d’anni, il canale aperto con l’America Latina ha portato a Chicago oltre trecento studenti, di cui in tempi diversi 25 sono diventati ministri, 12 governatori della Banca centrale del proprio Paese e gli altri sono andati via via a riempire tutti gli scaglioni più elevati delle varie istituzioni economiche del continente. A partire dalla fine degli anni Sessanta i cosiddetti Chicago Boys, molto influenzati dall’impostazione neoliberista dell’ateneo di Friedman e Hayek, erano pronti ad agire.
I loro Paesi d’origine non erano certo terre vergini. Fin dagli anni Trenta tutti gli economisti del mondo guardavano con molto interesse al cono Sud del continente americano, compreso John Maynard Keynes, più volte ospite a Buenos Aires del suo allievo Raul Prebitsch, allora governatore della Banca centrale argentina. Le teorie keynesiane di Prebitsch, dal 1950 direttore dell’Ecla (Economic Commission for Latin America), un’emanazione dell’Onu con sede a Santiago, hanno dominato completamente la scena economica sudamericana per quasi mezzo secolo. I leader del continente, pur di opposte tendenze politiche, erano infatti concordi sull’approccio di base sviluppato da Prebitsch, chiamato «dependencia». L’economista argentino divideva il mondo in un centro e una periferia, con il centro nei Paesi industrializzati (Europa e Nord America), dove ha origine l’innovazione tecnologica, e la periferia negli altri Paesi, produttori di materie prime, che nell’interscambio commerciale fra i due contraenti risultano sempre perdenti. Per emancipare i produttori di materie prime dalla dipendenza dai manufatti importati dall’estero – sosteneva Prebitsch – basta ostacolare le importazioni alzando insormontabili barriere commerciali, nazionalizzare la produzione di materie prime e con i proventi delle esportazioni costruire da zero un’industria nazionale. La sua teoria, perfettamente in linea con le impostazioni autarchiche dei fascismi europei, ma anche con la battaglia per l’industrializzazione dell’Unione sovietica, è stata applicata alla lettera dai regimi sudamericani di destra e di sinistra, da Juan Peron a Fidel Castro, passando per Eduardo Frei, presidente cileno dal 1965 al 1970 e nazionalizzatore delle importanti miniere di rame, allora in mani statunitensi.
Dall’Argentina al Cile, dall’Uruguay al Brasile, dal Messico alla Bolivia, uno a uno i confini nazionali venivano inchiavardati da dazi che negli anni Cinquanta e Sessanta raggiungevano livelli del 3-400 per cento, con l’assurda conseguenza di proteggere dalla concorrenza estera impianti produttivi spesso completamente inefficienti e di costringere gli abitanti dell’America Latina a pagare i manufatti locali il doppio o il triplo di quel che avrebbero speso per gli stessi prodotti importati dall’estero. L’inflazione rampante costringeva i governi sudamericani a mettere in circolazione un’enorme massa di denaro e a indebitarsi fino al collo proprio da quegli stessi Stati da cui volevano rendersi indipendenti. La politica di socializzazione dell’apparato produttivo cileno, inaugurata da Salvador Allende nei suoi anni di governo, non è altro che l’applicazione fino alle estreme conseguenze delle teorie di Prebitsch. Le espropriazioni delle industrie, le imposizioni di salari e prezzi fissati dall’alto e più in generale la distribuzione di una ricchezza che non veniva creata – con le conseguenti enormi spinte inflazioniste, il boom del mercato nero e il crescente malcontento di quel 62 per cento della popolazione che non aveva votato Allende – sono l’effetto della diffusa convinzione che le leggi del mercato possano essere semplicemente abolite costruendo un alto muro lungo i confini nazionali.
È in questo contesto particolarmente ostile alla loro impostazione liberale che i Chicago Boys cileni si trovano a operare. Animati dalla convinzione che le teorie di Prebitsch stiano portando il Paese alla rovina, i giovani economisti concepiscono una piattaforma economica per il candidato della destra, Jorge Alessandri, battuto da Allende alle elezioni del 1970. Malgrado la sconfitta, i Chicago Boys continuano a incontrarsi tutti i martedì sera a Santiago e ad aggiornare le loro proposte.
È grazie a questa piattaforma, chiamata «El Ladrillo» (Il mattone) per quanto era diventata voluminosa nel frattempo, che dopo il colpo di stato e dopo un infelice tentativo dei militari di fare da sé, all’inizio del 1975 il gruppo viene contattato da Ricardo Hausmann, un uomo politico legato alla dittatura militare, per chiedere il loro aiuto a rimettere in piedi il libero mercato demolito dai governi precedenti.
Risale a quel periodo anche la visita di Milton Friedman a Santiago, per un giro di conferenze di cinque giorni nel marzo del 1975, che gli è valsa l’accusa infamante di collaborazionismo con il regime di Pinochet. In effetti Friedman in quei giorni fece un discorso intitolato «La fragilità della libertà» all’Università cattolica di Santiago, che infiammò gli animi dell’opposizione per i suoi toni antiautoritari. Nel suo discorso Friedman mise in guardia l’uditorio sulla fragilità della libertà, che viene rapidamente distrutta da ogni tipo di controllo centrale, spiegando che la libertà di espressione politica è il presupposto centrale per il corretto funzionamento di ogni libero mercato. Proprio per questa ragione il padre della scuola neoliberista americana considera a tutt’oggi stupefacente la scelta di Pinochet di affidare ai suoi allievi la gestione dell’economia cilena: «La struttura militare»,così Friedman spiega la sua meraviglia, «si distingue per essere una tipica organizzazione top-down: il generale ordina al colonnello, il colonnello ordina al capitano e così via. Il mercato, invece, è una tipica organizzazione bottom-up. Il cliente entra nel negozio e ordina al dettagliante, il dettagliante invia l’ordine su per la catena fino al produttore e così via. I principi di base dei militari, dunque, sono esattamente il contrario della struttura organizzativa del libero mercato o di una società democratica. È stupefacente che per gestire l’economia i militari cileni abbiano adottato la struttura bottom-up invece della struttura top-down usata fino ad allora».
Pinochet lascia infatti mano libera ai Chicago Boys, tranne su qualche particolare come la privatizzazione delle miniere di rame, cui mette il veto. José Pinera si occupa della privatizzazione del sistema pensionistico, Hernan Buchi di quella del sistema sanitario, Sergio De Castro e Carlos Caceres si alternano al vertice del ministero delle Finanze, Luis Larrain è ministro per la Pianificazione, Patricia Matte per lo Sviluppo, Pablo Ihnen, Carlos Mendez e Martin Costaba gestiscono il bilancio dello Stato, per non citare che i nomi più importanti. La terapia shock comprende la liberalizzazione dei prezzi e del commercio, la privatizzazione del sistema pensionistico e sanitario, l’abbattimento dei dazi e delle restrizioni alla libera circolazione dei capitali e una robusta politica anti-inflazionistica. Di conseguenza esplodono le esportazioni di frutta, vino, prodotti ittici e legname, che diventano gradualmente più importanti del rame, e comincia a svilupparsi un’industria alimentare molto competitiva.
L’effetto immediato è il cosiddetto «miracolo cileno», con una rapida discesa dell’inflazione e una fortissima espansione economica, malgrado l’atmosfera di sanguinosa repressione politica. Ma con il varo della nuova Costituzione, che designa Pinochet al potere per altri otto anni, aumenta l’isolamento internazionale del regime e si cominciano a vedere i primi segnali della crisi. Il peso insostenibile del debito, indotto dal massiccio afflusso di petrodollari dai Paesi arabi in tutto il Sud America dopo gli anni del boom del prezzo del petrolio, porta al fallimento a catena di molte economie sudamericane, a partire dal Messico.
L’improvviso crollo degli investimenti esteri spinge anche il Cile al collasso nel 1982: dopo sei anni di tassi di crescita stratosferici, il prodotto interno lordo cileno perde di colpo il 14 per cento, la disoccupazione schizza al 33 per cento. Ma Pinochet mantiene la barra sulla rotta neoliberista e una decisa svalutazione del peso ridà fiato alle esportazioni, rimettendo in equilibrio la barca già l’anno seguente, mentre il resto dell’America Latina continua a risentire di quella crisi per tutto il decennio (chiamato appunto il «decennio perduto»).
In complesso, sotto la guida dei Chicago Boys l’economia cilena è cresciuta più rapidamente dei suoi vicini, a un ritmo del 5-6 per cento all’anno, ma i salari sono rimasti bassi e le differenze sociali acute. L’eredità più importante di tutta l’operazione resta il radicale cambiamento di direzione rispetto alle politiche del passato, che ha preparato il Cile molto meglio dei suoi vicini alla successiva ondata globalizzatrice.
Coscienti di questo vantaggio competitivo, anche i tre presidenti democratici che si sono succeduti dopo il plebiscito del 1988 hanno mantenuto l’apertura al libero mercato e alla concorrenza internazionale come caratteristica fondamentale delle loro politiche economiche, proseguendo nella scia tracciata ai tempi di Pinochet. Al momento attuale il Cile è indubbiamente l’economia più stabile del Sud America e in anni recenti il suo modello è stato adottato con alterni successi più o meno dappertutto.
Per i Chicago Boys, riciclati in gran parte come consulenti dei vari governi dell’America Latina attraverso l’Istituto per la libertà e lo sviluppo, anche oggi il lavoro non manca.
Questa e altre sue teorie vengono condensate in un libro ferocemente antistatalista, The Road to Serfdom, oggi considerato la pietra angolare del neoliberismo all’austriaca. Ma nel regno di Keynes era impossibile pubblicarlo. È così che si crea per la seconda volta un proficuo cortocircuito fra il rigido ufficiale austroungarico e il Nuovo Mondo, dove tutto è possibile. Nel 1944 il libro di Hayek viene pubblicato dalla Chicago University Press su indicazione di Aaron Director, docente di Economia e genero di Milton Friedman, economista di punta dell’ateneo. Il libro scoppia come una bomba nel mondo accademico e in breve diventa un bestseller. Il giovane Friedman (più tardi consigliere economico di Ronald Reagan e infine premio Nobel per l’economia nel 1976, due anni dopo Hayek), lo legge. Poco dopo il volume finisce avventurosamente fra le mani di una studentessa dell’università di Oxford, Margaret Roberts, non ancora Margaret Thatcher. Keynes lo legge mentre è in viaggio per il vertice di Bretton Woods, dove verrà deciso l’assetto economico del mondo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. In una memorabile lettera al suo acerrimo nemico, lo definisce cavallerescamente «un grande libro», ma ribadisce la sua incrollabile fiducia nella pianificazione centralizzata dell’economia: «Semmai ce ne vorrebbe di più», scrive Keynes, «non certo di meno». E aggiunge: «Se solo potessi indirizzare la tua crociata in questa direzione, eviteresti la figura di Don Chisciotte che stai facendo adesso».
Keynes aveva ragione. Dopo la Prima guerra mondiale e specialmente dopo la Grande Depressione tutto il mondo si era mosso quasi all’unisono verso una maggiore pianificazione centrale dell’economia, a partire dal blocco socialista per arrivare all’America Latina, passando per l’Europa continentale e perfino per il Nord America. Il protezionismo nazionalista dilagava, con dazi altissimi per impedire le importazioni e schermare le industrie locali dalla concorrenza estera, con regolamentazioni sempre più stringenti sui prezzi che portavano al boom del mercato nero, con vaste nazionalizzazioni delle industrie principali e un mercato del lavoro sempre più rigido. Negli anni della guerra la pianificazione centrale era irrinunciabile e il «successo» del sistema stava portando gli alleati a procedere nella stessa direzione anche nel dopoguerra.
In questo contesto, la crociata di Hayek contro lo statalismo e a favore del libero mercato, per un ritorno alla visione classica dell’economia ancorata negli insegnamenti di Adam Smith, sembrava davvero una battaglia contro i mulini a vento. Eppure oggi sappiamo che il vento, all’insaputa di tutti, già allora stava girando nella direzione indicata da Vienna. La globalizzazione, frutto dell’apertura dei mercati locali alla concorrenza internazionale, della deregulation reaganiana, delle liberalizzazioni à la Thatcher e del crollo dell’impero sovietico, discende direttamente dalle teorie di Hayek. E la prima tappa nella nuova direzione, per una serie di coincidenze fortuite, è Santiago. Ma prima ancora di arrivare là, si passa da Chicago.
Hayek abbandona la London School of Economics per l’università di Chicago nel 1950. Gli viene affidata la cattedra di Scienze sociali, che non fa parte del dipartimento di economia, ma l’interazione con gli economisti è vivace e il rapporto con Milton Friedman, diventato nel frattempo il padre del neoliberismo americano, sempre più stretto. È qui che Hayek scrive la sua opera più importante, The Constitution of Liberty, pubblicata nel 1960, dove si afferma che il laissez-faire non è sufficiente ad assicurare un buon funzionamento dell’economia e che il ruolo più importante dello Stato sta proprio nello sviluppo di leggi e regole capaci di assicurare la libera concorrenza. Un’affermazione che oggi sembra banale, ma allora suonava del tutto nuova e rivoluzionaria. Negli stessi anni il Nobel Theodore Schulz, rettore dell’Università di Chicago, e Julio Chana, rettore dell’Università cattolica di Santiago, instaurano un rapporto di collaborazione molto stretto fra i due atenei, aprendo un ponte fra Santiago e Chicago per tutti gli studenti cileni di economia interessati ad ampliare le proprie conoscenze.
Negli anni Sessanta lo stesso canale, che presuppone un importante aiuto economico agli studenti stranieri, viene aperto anche con l’Argentina. Al Harberger, un collega di Friedman che ha dedicato tutta la sua vita al progetto sudamericano, lo descrive così: «Ora i latinos possono andare dappertutto, ma allora non era così. Negli anni Sessanta, mentre a Chicago si potevano trovare anche 40 o 50 studenti sudamericani in corsa per il dottorato su una popolazione complessiva di 150-180 neolaureati, a Harvard ce n’erano forse tre o quattro, al Mit cinque o sei. È la nostra politica delle ammissioni che ha fatto diventare Chicago così importante sulla scena sudamericana: eravamo pronti ad ammettere anche studenti che avrebbero potuto fallire lungo il cammino, mentre le altre grandi università americane ammettono praticamente solo studenti in grado di garantire fin dal primo giorno il raggiungimento di un dottorato al top dei voti». In una decina d’anni, il canale aperto con l’America Latina ha portato a Chicago oltre trecento studenti, di cui in tempi diversi 25 sono diventati ministri, 12 governatori della Banca centrale del proprio Paese e gli altri sono andati via via a riempire tutti gli scaglioni più elevati delle varie istituzioni economiche del continente. A partire dalla fine degli anni Sessanta i cosiddetti Chicago Boys, molto influenzati dall’impostazione neoliberista dell’ateneo di Friedman e Hayek, erano pronti ad agire.
I loro Paesi d’origine non erano certo terre vergini. Fin dagli anni Trenta tutti gli economisti del mondo guardavano con molto interesse al cono Sud del continente americano, compreso John Maynard Keynes, più volte ospite a Buenos Aires del suo allievo Raul Prebitsch, allora governatore della Banca centrale argentina. Le teorie keynesiane di Prebitsch, dal 1950 direttore dell’Ecla (Economic Commission for Latin America), un’emanazione dell’Onu con sede a Santiago, hanno dominato completamente la scena economica sudamericana per quasi mezzo secolo. I leader del continente, pur di opposte tendenze politiche, erano infatti concordi sull’approccio di base sviluppato da Prebitsch, chiamato «dependencia». L’economista argentino divideva il mondo in un centro e una periferia, con il centro nei Paesi industrializzati (Europa e Nord America), dove ha origine l’innovazione tecnologica, e la periferia negli altri Paesi, produttori di materie prime, che nell’interscambio commerciale fra i due contraenti risultano sempre perdenti. Per emancipare i produttori di materie prime dalla dipendenza dai manufatti importati dall’estero – sosteneva Prebitsch – basta ostacolare le importazioni alzando insormontabili barriere commerciali, nazionalizzare la produzione di materie prime e con i proventi delle esportazioni costruire da zero un’industria nazionale. La sua teoria, perfettamente in linea con le impostazioni autarchiche dei fascismi europei, ma anche con la battaglia per l’industrializzazione dell’Unione sovietica, è stata applicata alla lettera dai regimi sudamericani di destra e di sinistra, da Juan Peron a Fidel Castro, passando per Eduardo Frei, presidente cileno dal 1965 al 1970 e nazionalizzatore delle importanti miniere di rame, allora in mani statunitensi.
Dall’Argentina al Cile, dall’Uruguay al Brasile, dal Messico alla Bolivia, uno a uno i confini nazionali venivano inchiavardati da dazi che negli anni Cinquanta e Sessanta raggiungevano livelli del 3-400 per cento, con l’assurda conseguenza di proteggere dalla concorrenza estera impianti produttivi spesso completamente inefficienti e di costringere gli abitanti dell’America Latina a pagare i manufatti locali il doppio o il triplo di quel che avrebbero speso per gli stessi prodotti importati dall’estero. L’inflazione rampante costringeva i governi sudamericani a mettere in circolazione un’enorme massa di denaro e a indebitarsi fino al collo proprio da quegli stessi Stati da cui volevano rendersi indipendenti. La politica di socializzazione dell’apparato produttivo cileno, inaugurata da Salvador Allende nei suoi anni di governo, non è altro che l’applicazione fino alle estreme conseguenze delle teorie di Prebitsch. Le espropriazioni delle industrie, le imposizioni di salari e prezzi fissati dall’alto e più in generale la distribuzione di una ricchezza che non veniva creata – con le conseguenti enormi spinte inflazioniste, il boom del mercato nero e il crescente malcontento di quel 62 per cento della popolazione che non aveva votato Allende – sono l’effetto della diffusa convinzione che le leggi del mercato possano essere semplicemente abolite costruendo un alto muro lungo i confini nazionali.
È in questo contesto particolarmente ostile alla loro impostazione liberale che i Chicago Boys cileni si trovano a operare. Animati dalla convinzione che le teorie di Prebitsch stiano portando il Paese alla rovina, i giovani economisti concepiscono una piattaforma economica per il candidato della destra, Jorge Alessandri, battuto da Allende alle elezioni del 1970. Malgrado la sconfitta, i Chicago Boys continuano a incontrarsi tutti i martedì sera a Santiago e ad aggiornare le loro proposte.
È grazie a questa piattaforma, chiamata «El Ladrillo» (Il mattone) per quanto era diventata voluminosa nel frattempo, che dopo il colpo di stato e dopo un infelice tentativo dei militari di fare da sé, all’inizio del 1975 il gruppo viene contattato da Ricardo Hausmann, un uomo politico legato alla dittatura militare, per chiedere il loro aiuto a rimettere in piedi il libero mercato demolito dai governi precedenti.
Risale a quel periodo anche la visita di Milton Friedman a Santiago, per un giro di conferenze di cinque giorni nel marzo del 1975, che gli è valsa l’accusa infamante di collaborazionismo con il regime di Pinochet. In effetti Friedman in quei giorni fece un discorso intitolato «La fragilità della libertà» all’Università cattolica di Santiago, che infiammò gli animi dell’opposizione per i suoi toni antiautoritari. Nel suo discorso Friedman mise in guardia l’uditorio sulla fragilità della libertà, che viene rapidamente distrutta da ogni tipo di controllo centrale, spiegando che la libertà di espressione politica è il presupposto centrale per il corretto funzionamento di ogni libero mercato. Proprio per questa ragione il padre della scuola neoliberista americana considera a tutt’oggi stupefacente la scelta di Pinochet di affidare ai suoi allievi la gestione dell’economia cilena: «La struttura militare»,così Friedman spiega la sua meraviglia, «si distingue per essere una tipica organizzazione top-down: il generale ordina al colonnello, il colonnello ordina al capitano e così via. Il mercato, invece, è una tipica organizzazione bottom-up. Il cliente entra nel negozio e ordina al dettagliante, il dettagliante invia l’ordine su per la catena fino al produttore e così via. I principi di base dei militari, dunque, sono esattamente il contrario della struttura organizzativa del libero mercato o di una società democratica. È stupefacente che per gestire l’economia i militari cileni abbiano adottato la struttura bottom-up invece della struttura top-down usata fino ad allora».
Pinochet lascia infatti mano libera ai Chicago Boys, tranne su qualche particolare come la privatizzazione delle miniere di rame, cui mette il veto. José Pinera si occupa della privatizzazione del sistema pensionistico, Hernan Buchi di quella del sistema sanitario, Sergio De Castro e Carlos Caceres si alternano al vertice del ministero delle Finanze, Luis Larrain è ministro per la Pianificazione, Patricia Matte per lo Sviluppo, Pablo Ihnen, Carlos Mendez e Martin Costaba gestiscono il bilancio dello Stato, per non citare che i nomi più importanti. La terapia shock comprende la liberalizzazione dei prezzi e del commercio, la privatizzazione del sistema pensionistico e sanitario, l’abbattimento dei dazi e delle restrizioni alla libera circolazione dei capitali e una robusta politica anti-inflazionistica. Di conseguenza esplodono le esportazioni di frutta, vino, prodotti ittici e legname, che diventano gradualmente più importanti del rame, e comincia a svilupparsi un’industria alimentare molto competitiva.
L’effetto immediato è il cosiddetto «miracolo cileno», con una rapida discesa dell’inflazione e una fortissima espansione economica, malgrado l’atmosfera di sanguinosa repressione politica. Ma con il varo della nuova Costituzione, che designa Pinochet al potere per altri otto anni, aumenta l’isolamento internazionale del regime e si cominciano a vedere i primi segnali della crisi. Il peso insostenibile del debito, indotto dal massiccio afflusso di petrodollari dai Paesi arabi in tutto il Sud America dopo gli anni del boom del prezzo del petrolio, porta al fallimento a catena di molte economie sudamericane, a partire dal Messico.
L’improvviso crollo degli investimenti esteri spinge anche il Cile al collasso nel 1982: dopo sei anni di tassi di crescita stratosferici, il prodotto interno lordo cileno perde di colpo il 14 per cento, la disoccupazione schizza al 33 per cento. Ma Pinochet mantiene la barra sulla rotta neoliberista e una decisa svalutazione del peso ridà fiato alle esportazioni, rimettendo in equilibrio la barca già l’anno seguente, mentre il resto dell’America Latina continua a risentire di quella crisi per tutto il decennio (chiamato appunto il «decennio perduto»).
In complesso, sotto la guida dei Chicago Boys l’economia cilena è cresciuta più rapidamente dei suoi vicini, a un ritmo del 5-6 per cento all’anno, ma i salari sono rimasti bassi e le differenze sociali acute. L’eredità più importante di tutta l’operazione resta il radicale cambiamento di direzione rispetto alle politiche del passato, che ha preparato il Cile molto meglio dei suoi vicini alla successiva ondata globalizzatrice.
Coscienti di questo vantaggio competitivo, anche i tre presidenti democratici che si sono succeduti dopo il plebiscito del 1988 hanno mantenuto l’apertura al libero mercato e alla concorrenza internazionale come caratteristica fondamentale delle loro politiche economiche, proseguendo nella scia tracciata ai tempi di Pinochet. Al momento attuale il Cile è indubbiamente l’economia più stabile del Sud America e in anni recenti il suo modello è stato adottato con alterni successi più o meno dappertutto.
Per i Chicago Boys, riciclati in gran parte come consulenti dei vari governi dell’America Latina attraverso l’Istituto per la libertà e lo sviluppo, anche oggi il lavoro non manca.
3 settembre 2003
Milton Friedman
Dal suo studio quasi si vede Silicon Valley, eppure tutti associano Milton Friedman, il padre dei monetaristi, con panorami molto più nordici e distese d'acqua dolce: è a Chicago, sul lago Michigan, che Friedman ha proseguito sulle orme di Hayek per formare una scuola neoliberista ormai vincente sulla politica economica americana e non solo. Da quando si è trasferito in California, alla Hoover Institution, l'ultranovantenne premio Nobel si occupa sempre più di cause sociali, come quella dei voucher per la scuola che ha appena vinto, ma la vis polemica sulle questioni economiche non l'ha certo abbandonato.
Dunque siamo finalmente arrivati alla svolta, ma non tutti ci credono. Il governatore Alan Greenspan, ad esempio, sembra ancora titubante… "Non credo che questa sia l'interpretazione giusta: la ripresa è già in corso da mesi, lo si vede dai numeri e sono certo che anche lui sia d'accordo su questo. Ma dalla sua politica si deduce che stavolta ha deciso di coprirsi le spalle da ogni rischio di ricaduta, anche remoto: contro l'inflazione c'è sempre tempo di agire, mentre la deflazione va colta prima che si verifichi. Questo non significa che Greenspan non creda nella ripresa".
Ma allora questa deflazione anche lei la considera un pericolo? "No, mi sembra più probabile che si vada verso una fiammata dei prezzi come succede sempre in situazioni congiunturali di questo tipo. Con una crescita dell'8-10% all'anno della massa monetaria come quella che abbiamo in questo momento non può esserci deflazione o anche se ci fosse, non avrebbe la forza di frenare la ripresa".
Quindi lei giustifica quest'impennata dei rendimenti obbligazionari? "Mi pare che sia del tutto giustificato da parte del mercato prendere qualche precauzione contro i rischi d'inflazione, con il ritmo di crescita a cui ci stiamo avviando".
Insomma lei è molto ottimista sul futuro dell'economia americana. "Molto. Mi sembra che gli stimoli dati siano quelli giusti e che la crescita sia destinata a passare dal 2-3 per cento degli scorsi due trimestri verso un 3-4% dei prossimi, o anche di più".
Ma allora perché gli americani continuano a lamentarsi? "Spesso gli americani scambiano l'economia con la finanza. E in effetti li posso capire, perché il crollo di Wall Street ha avuto vaste ripercussioni sulla vita quotidiana e sul futuro di molta gente, spazzando via la sua pensione e costringendola a continuare a lavorare. In questi anni gli americani sono davvero diventati più poveri, è quindi logico che se la prendano con l'economia, anche se in realtà la macchina produttiva si è già rimessa in moto da un bel pezzo".
Eppure la disoccupazione continua a salire… "Questo purtroppo è uno dei fattori che ci mettono più tempo per riaggiustarsi dopo una recessione, soprattutto in un momento di grande innovazione tecnologica come questo, dove la produttività cresce a dismisura e consente alle aziende di tirare avanti anche a organici ridotti. In questi casi le aziende tendono a rimandare le assunzioni fino a quando sono ben sicure che la ripresa c'è davvero. Ma credo che nel corso dei primi mesi del 2004 la disoccupazione comincerà a calare. E comunque non dimentichiamoci che in altri periodi storici o in altri continenti una disoccupazione al 6% sarebbe benvenuta".
Si riferisce all'Europa? "Sì, l'Europa mi sembra in una situazione ben più drammatica degli Stati Uniti. La recessione in Germania, Francia e Italia è un guaio serio, anche perché con una politica monetaria comune sarà molto difficile dare gli stimoli giusti per venirne fuori rapidamente. L'euro sarà anche forte, ma non rende certo forte l'Europa, che ha una situazione economica interna molto variegata e spesso contraddittoria da Paese a Paese. Le esigenze della Germania non sono certo le stesse dell'Irlanda, ad esempio. E in queste condizioni non vedo come sia possibile dare i segnali giusti alle economie di tutti e due questi Paesi".
Insomma, lei non crede che l'euro avrà vita lunga… "Certo non mi sembra in ottima salute dopo le recenti violazioni del Patto di stabilità e i danni che sta causando in giro la Bce. Vedo scarse possibilità che gli svedesi vi aderiscano e ancor meno per i britannici. Alla lunga questa costruzione potrebbe non tenere". Non saremo mica i soli ad avere dei problemi strutturali. Guardi la voragine che il presidente
Bush ha scavato nei vostri conti pubblici… "Per me il problema fondamentale è ridurre il volume complessivo del bilancio, non le sue perdite. Un bilancio da 200 miliardi di dollari in deficit per 100 è sempre meglio di un bilancio da 500 miliardi in pareggio".
Ma mi sembra che Bush stia andando esattamente nella direzione opposta. "Questo semmai è il problema. Purtroppo, però, ormai ci siamo impantanati in questa campagna in Iraq e non c'è altra scelta che andare fino in fondo".
Iscriviti a:
Post (Atom)