27 ottobre 2003
Un salvavita per il mercato
Solo un mercato capace di offrire agli operatori un' assoluta trasparenza dei prezzi e una remunerazione decente degli investimenti «riuscirà a sbloccare l' impasse all' origine del blackout di settembre». Antonio Urbano, amministratore delegato di Dynameeting, il principale grossista indipendente che opera sul mercato italiano dell' energia, invita ad accelerare i tempi della liberalizzazione se si vogliono evitare altri blackout. Permessi più facili per chi vuole costruire nuove centrali, deroghe ai limiti di tutela ambientale per consentire alle centrali esistenti di funzionare a tutto vapore, esenzione dal diritto di terzi ad accedere alle nuove linee di interconnessione per incentivare la costruzione di altre linee ancora, accelerazione della riunificazione fra la proprietà e la gestione della rete, sono tutti provvedimenti utili. Ma per risolvere alla radice il problema della produzione insufficiente di energia in Italia, l' unico rimedio vero è portare a compimento la liberalizzazione con il varo della Borsa elettrica, annunciato mille volte e mille volte rimandato. Solo la garanzia di avere una piazza sicura su cui collocare la propria produzione, infatti, spingerà i capitali privati verso quegli investimenti nelle infrastrutture di cui il sistema Paese ha estremo bisogno. Ecco perché gli operatori chiedono il rispetto della scadenza dell' inizio 2004 - messa pesantemente in dubbio dalle polemiche sul decreto Marzano - e soprattutto il varo di uno strumento che diventi davvero la piazza centrale per agli scambi nazionali dell' energia e non un mercatino di periferia evitato da tutti. «Mi sono preso l' impegno di far partire la Borsa elettrica dal primo gennaio 2004, come previsto, e non ho dubbi che così avverrà, anche perché ho constatato un' enorme aspettativa in questo senso da parte della aziende», assicura Giorgio Szego, il neoeletto presidente del Gme, il gestore del mercato elettrico a cui è affidata l' organizzazione della Borsa. Szego, che insegna Economia dei mercati monetari e finanziari all' università La Sapienza di Roma e collabora da tempo con il Gme per mettere a punto la gestione degli strumenti derivati, è deciso a difendere la centralità del nuovo mercato. «E' importante che nella Borsa possano entrare a negoziare anche svizzeri e francesi, attori di primo piano sul teatro italiano dell' energia», spiega Szego, che già nel consiglio di domani prenderà in mano le redini dell' operazione. Ma il mercato resta scettico. «In un regime non obbligatorio, com' è giustamente il nostro, la Borsa si deve guadagnare sul campo il favore degli operatori, convincendoli di essere il punto di riferimento fondamentale con delle regole chiare, che assicurino la trasparenza dei prezzi, e con dei meccanismi che evitino gli abusi di posizione dominante», auspica Urbano. Per quanto riguarda le regole, la disciplina definitiva delle negoziazioni appena varata dal consiglio uscente accoglie in gran parte le richieste degli operatori, introducendo una generale semplificazione e confermando il criterio del prezzo unico nazionale per i consumatori (pari alla media dei prezzi zonali), mentre per i venditori il prezzo sarà differenziato per zone. In questo modo il gestore spera di indurre i produttori ad andare a costruire centrali nelle zone che ne hanno più bisogno. Ma la forte concentrazione della produzione in mano all' operatore dominante, l' Enel, rischia di minare il libero gioco della domanda e dell' offerta, disincentivando la partecipazione alle negoziazioni. «Niente di male - precisa Urbano - se alla lunga i contratti bilaterali che non passeranno dalla Borsa dovessero occupare la fetta maggiore del mercato, come sta succedendo nel Regno Unito dopo dieci anni di esperienza, ma dev' essere chiaro fin dall' inizio che il prezzo di riferimento per tutti è quello fissato in Borsa». Nei primi tempi, dunque, sarà molto importante che gli scambi siano sostenuti e il mercato molto liquido. Su questo fronte pesano due incognite non da poco: da un lato il controllo delle importazioni, che il decreto appena varato sposta dall' Autorità dell' energia al ministero delle Attività produttive, in aperta violazione del regolamento comunitario sulle aste internazionali entrato in vigore in agosto, dall' altro lato il destino dell' energia cosiddetta Cip6, cioè quella prodotta dai privati e poi ceduta al Grtn a prezzi molto vantaggiosi, che attualmente viene assegnata direttamente dal ministero. Un importante nodo irrisolto è anche quello dei clienti interrompibili. Si tratta di grandi consumatori industriali che si dichiarano disponibili a subire distacchi di carico con un preavviso minimo e in cambio ricevono per via amministrata energia a prezzi agevolati. Una pratica che costa alle casse dello Stato circa 250 milioni di euro all' anno per 1.200 MW interrompibili e che a ben guardare assomiglia molto a un sussidio travestito. Anche questa è energia che naturalmente preferirebbe sfuggire alle regole del libero mercato. Preoccupa infine la privatizzazione della rete di trasmissione elettrica nazionale, che attualmente è gestita dal Grtn, ma di proprietà della Terna, una società del gruppo Enel: a chi andrà il controllo finale dei due tronconi, che stanno per essere riunificati in vista del collocamento? «Di per se stessa la riunificazione non ha niente di male - commenta Urbano - ma è importante che chi starà nella stanza dei bottoni della nuova società sia un soggetto neutrale». Per ora l' ipotesi più accreditata è che il Grtn venga acquisito da Terna, il cui controllo verrebbe conferito alla Cassa depositi e prestiti. Ma sulla fase successiva, la privatizzazione, pesano gli altolà sia dell' Autorità antitrust che dell' Autorità per l' energia.
26 ottobre 2003
L'ultima frontiera dell'outsourcing
All'inizio si affidava all'esterno la sicurezza, i servizi di pulizie o di catering. Poi i servizi tecnici e informatici. Ora è il servizio clienti, la contabilità e perfino l'ufficio personale a migrare all'esterno. Grandi imprese con uno staff tecnico di migliaia di persone si svegliano una mattina chiedendosi che cosa fa tutta questa gente e quando non trovano nessuno capace di rispondere decidono di delegare in blocco l'argomento a una società specializzata, che si occupa solo di quello e dunque saprà fare il suo mestiere. Ormai l'outsourcing è diventato un modo per liberarsi di un problema che non si è capaci di risolvere da soli. "Ma andate a vedere che cos'è successo in quell'azienda cinque anni dopo - scrive Michael Dell, enfant prodige dell'industria informatica e fondatore di Dell, in un saggio su Harvard Business Review - è non sarà un bel panorama".
Le prime voci contro un outsourcing sempre più indiscriminato cominciano a levarsi su entrambe le sponde dell'Atlantico. Un caso classico di ripensamento è quello di Network Rail, la società che gestisce tutte le infrastrutture ferroviarie britanniche: dopo il deragliamento di Kings Cross, l'azienda ha deciso di rescindere il contratto con Jarvis, un'impresa specializzata cui aveva delegato la manutenzione di tutti i binari. Ma si possono citare anche altri esempi più di largo respiro: dopo anni di spinoff sempre più chirurgici e di focalizzazione sempre più spinta sul proprio core business, Ibm si è recentemente presa in casa l'intero settore consulenza di PricewaterhouseCoopers (30mila dipendenti). Lo stesso aveva fatto alcuni anni fa Electronic Data Systems, il numero uno a livello Usa (Ibm è il numero uno mondiale) nella gestione di servizi informatici, con l'acquisizione della società di consulenza A.T. Kearney. Perché le imprese si sono accorte che è difficile scindere l'organizzazione del business dalla sua gestione informatica. Così com'è difficile sostenere con un cliente imbufalito che l'azienda non ha più la responsabilità dei servizi clienti o con un utente rimasto ferito in un incidente che la responsabilità della manutenzione dei binari non è più della compagnia ferroviaria. Delegando queste competenze all'esterno, le aziende consegnano a qualcun altro la propria reputazione e spesso non sono più nemmeno in grado di controllare con quanto impegno venga tutelata.
"Il concetto che molte aziende sembrano ignorare è che dare un servizio in outsourcing non significa cessare di occuparsene, ma cominciare a occuparsene in maniera diversa e spesso più difficile di prima. Invece di assicurarsi che i propri dipendenti svolgano il loro lavoro correttamente, bisogna assicurarsi che lo faccia qualcun altro. E bisogna ottenere questo risultato senza avere più a disposizione i soliti strumenti: dall'assunzione al licenziamento, dalla promozione all'ammonizione", commenta Michael Skapinker sul "Financial Times" intitolato Unhappy with outsourcing. Ecco perché il disagio nei confronti di questa pratica cresce a vista d'occhio, non solo fra i clienti stufi di dialogare con i call center delle banche, delle compagnie aeree o delle utilities, ma anche fra i manager preoccupati dal divario crescente fra il costo dei servizi appaltati all'esterno e i risultati ottenuti. Secondo un recente sondaggio internazionale di PA Consulting ben due terzi delle aziende intervistate hanno dichiarato di essere deluse dai risultati dei loro contratti in outsourcing e il 17% ha sostenuto di voler riportare all'interno alcuni dei servizi appaltati. Solo il 39% delle aziende hanno intenzione di rinnovare il contratto agli attuali fornitori: un altro segnale che indica un ripensamento.
Non si tratta certo di tornare ai tempi di Henry Ford - come fanno notare ammiccando John Micklethwait e Adrian Woodridge nel loro libro The Company, pubblicato da Modern Library - che possedeva la terra dove brucavano le pecore da cui si ricavava la lana per foderare i sedili delle sue macchine. O di John Rockefeller che possedeva i boschi da cui si tagliava il legno per fare i barili che contenevano il suo petrolio. Ma una riflessione più accurata su quali sono i settori non core che in effetti è meglio appaltare all'esterno e quali invece sono servizi essenziali che non possono essere abbandonati a terzi, s'impone. Concentrandosi su una parte sempre più limitata del loro business, ad esempio, le compagnie automobilistiche prima hanno messo da parte le pecore e poi fette sempre più vaste del loro know-how. Ma in un recente rapporto di McKinsey si avanza un sospetto: "Nella fretta di scaricare su terzi attività manifatturiere ad alta intensità di capitale, le aziende stanno forse cedendo quegli stessi talenti che le hanno rese famose". Attenzione, quindi, ai pezzi che si perdono per strada. Perché poi è molto difficile recuperarli. Lo stesso Michael Porter, il guru della competitività che insegna a Harvard, mette in dubbio i vantaggi di un outsourcing troppo spinto: "Qualsiasi attività venga appaltata a terzi non darà mai alla vostra azienda un vantaggio competitivo, per il semplice fatto che altre aziende possono offrire un identico servizio. Dare un'attività in gestione all'esterno equivale a eliminarla dal tavolo strategico". Non che questo sia di per se stesso sbagliato, se in tal modo si ottiene un buon servizio a costi più contenuti, ma è un processo che ormai rischia di sfuggire di mano.
"Molte aziende convinte che l'outsourcing consenta un significativo taglio dei costi restano deluse - spiega Porter - perché il prezzo offerto la prima volta dal fornitore spesso lievita al momento del rinnovo del contratto, quando ormai l'azienda non ha più al suo interno le competenze date in outsourcing e quindi sarebbe molto difficile tornare indietro. A quel punto il fornitore ha già il coltello dalla parte del manico e sarà molto difficile liberarsi di lui, anche nel caso di un declino della qualità del servizio". Naturalmente si possono inserire nei contratti dei "livelli di qualità" molto dettagliati, sotto cui il fornitore non dovrebbe mai scendere. Ma di qui a imporre il rispetto degli accordi, minacciando di non rinnovare il contratto, ce ne corre.
6 ottobre 2003
La miglior difesa è l'attacco
«Dobbiamo smettere di pensare ai cinesi solo in termini di manodopera sottopagata. La Cina è un mercato che cresce a velocità supersonica, sia in termini di apertura al nuovo che in termini di potere d' acquisto. E da cui stanno emergendo grandi aziende con ambizioni globali». Gabriel Hawawini, rettore dell' Insead, unica business school occidentale con un doppio campus, a Parigi (Fontainebleau) e a Singapore, ne sa qualcosa: è lui che fornisce a queste grandi aziende i manager globali capaci di portarle al successo. Di passaggio in Italia ospite di Gea, storica società milanese di consulenza aziendale, Hawawini lancia un appello all' industria italiana: «E' inutile tirare su le barricate contro il pericolo asiatico per nascondercisi dietro. Bisogna semmai avere il coraggio di sbarcare in forze a casa loro». Insomma, la miglior difesa è l' attacco. Una strategia particolarmente calzante per uno come Hawawini, nato in Egitto e cresciuto in Francia, vissuto a lungo negli Usa dove ha studiato e insegnato finanza alla New York University e alla Columbia prima di arrivare all' Insead, dove ha diretto per sei anni il Centro euro-asiatico da cui è nato il campus di Singapore. La costola asiatica dell' Insead - prima business school europea nelle classifiche del Financial Times, di Forbes e di Business Week - oggi ospita ben 200 degli 800 alunni complessivi. E conta di allargarsi a 300 in tempi brevi, perché la domanda è altissima. In particolare fra gli studenti provenienti dall' Italia, una cinquantina, il campus di Singapore è molto popolare e spesso chiedono di cominciare da lì il loro Mba. «Abbiamo preso la decisione di allargarci a Singapore alla fine degli anni ' 90 - racconta Hawawini - quando le tigri asiatiche erano ancora sotto choc dopo la drammatica crisi finanziaria del ' 97 e tutti le davano per spacciate». Oggi che l' Estremo Oriente è tornato alla ribalta come l' economia più dinamica del mondo, con una crescita stimata del 6% malgrado la Sars, con un quarto del Pil e dell' export globale, quella decisione suona profetica. «Nell' area del Pacifico c' è uno straordinario interesse per le tecniche manageriali occidentali e noi siamo ben contenti di insegnarle, ma siamo andati laggiù anche per imparare. Cerchiamo di prendere i lati positivi del modello aziendale occidentale e di quello orientale, il rigore scientifico dell' Occidente e la fortissima etica del lavoro dell' Oriente, per fonderli in un unico approccio». Che sarà, secondo Hawawini, quello vincente. «L' Asia non è più una fortezza impenetrabile - spiega Hawawini - dominata dal dirigismo statale e da aziende legate a doppio filo con le banche come un tempo. In molti Paesi si è fatta pulizia: in Corea del Sud, in Thailandia, in Indonesia e in parte anche in Giappone. La nuova frontiera di queste aperture ora è la Cina, che avanza con passi da gigante verso il libero mercato. Le imprese asiatiche non vengono più salvate a tutti i costi, né schermate dalla concorrenza a colpi di barriere commerciali. In realtà a questo punto l' Europa è molto più chiusa dell' Asia: basta guardare cos' è successo la settimana scorsa con il gruppo Alstom, che sarebbe andato in bancarotta senza i finanziamenti del governo francese. Ma a nessuno è venuto in mente di bloccarli». Perfino il settore finanziario, finora il più protetto del mercato asiatico, si sta aprendo alla concorrenza occidentale. E questi cambiamenti avvengono molto velocemente, dimostrando che ormai le aziende asiatiche si sentono abbastanza forti da affrontare i rivali in campo aperto. Sta all' Europa, ora, accettare la sfida senza farsi prendere dal panico. In fin dei conti, se è vero che la Cina è il nuovo Giappone, non ci sono solo aziende aggressive da combattere ma anche milioni di consumatori da conquistare. «I cinesi sono sempre più attratti dai marchi occidentali - commenta Hawawini - e cominciano ad essere abbastanza ricchi da poterseli permettere. Non tutti, naturalmente. Ma ci sono già consistenti fasce sociali ansiose di vedere il mondo e di comperare le cose migliori. A Hong Kong, ormai, i turisti cinesi spendono ben più degli americani. E da questo punto di vista le aziende europee hanno un vantaggio competitivo straordinario. Ma bisogna sfruttarlo in fretta, altrimenti si rischia di perdere il treno della competizione».
Gabriel Hawawini
«Dobbiamo smettere di pensare ai cinesi solo in termini di manodopera sottopagata. La Cina è un mercato che cresce a velocità supersonica, sia in termini di apertura al nuovo che in termini di potere d' acquisto. E da cui stanno emergendo grandi aziende con ambizioni globali». Gabriel Hawawini, rettore dell' Insead, unica business school occidentale con un doppio campus, a Parigi (Fontainebleau) e a Singapore, ne sa qualcosa: è lui che fornisce a queste grandi aziende i manager globali capaci di portarle al successo. Di passaggio in Italia ospite di Gea, storica società milanese di consulenza aziendale, Hawawini lancia un appello all' industria italiana: «E' inutile tirare su le barricate contro il pericolo asiatico per nascondercisi dietro. Bisogna semmai avere il coraggio di sbarcare in forze a casa loro». Insomma, la miglior difesa è l' attacco. Una strategia particolarmente calzante per uno come Hawawini, nato in Egitto e cresciuto in Francia, vissuto a lungo negli Usa dove ha studiato e insegnato finanza alla New York University e alla Columbia prima di arrivare all' Insead, dove ha diretto per sei anni il Centro euro-asiatico da cui è nato il campus di Singapore. La costola asiatica dell' Insead - prima business school europea nelle classifiche del Financial Times, di Forbes e di Business Week - oggi ospita ben 200 degli 800 alunni complessivi. E conta di allargarsi a 300 in tempi brevi, perché la domanda è altissima. In particolare fra gli studenti provenienti dall' Italia, una cinquantina, il campus di Singapore è molto popolare e spesso chiedono di cominciare da lì il loro Mba. «Abbiamo preso la decisione di allargarci a Singapore alla fine degli anni ' 90 - racconta Hawawini - quando le tigri asiatiche erano ancora sotto choc dopo la drammatica crisi finanziaria del ' 97 e tutti le davano per spacciate». Oggi che l' Estremo Oriente è tornato alla ribalta come l' economia più dinamica del mondo, con una crescita stimata del 6% malgrado la Sars, con un quarto del Pil e dell' export globale, quella decisione suona profetica. «Nell' area del Pacifico c' è uno straordinario interesse per le tecniche manageriali occidentali e noi siamo ben contenti di insegnarle, ma siamo andati laggiù anche per imparare. Cerchiamo di prendere i lati positivi del modello aziendale occidentale e di quello orientale, il rigore scientifico dell' Occidente e la fortissima etica del lavoro dell' Oriente, per fonderli in un unico approccio». Che sarà, secondo Hawawini, quello vincente. «L' Asia non è più una fortezza impenetrabile - spiega Hawawini - dominata dal dirigismo statale e da aziende legate a doppio filo con le banche come un tempo. In molti Paesi si è fatta pulizia: in Corea del Sud, in Thailandia, in Indonesia e in parte anche in Giappone. La nuova frontiera di queste aperture ora è la Cina, che avanza con passi da gigante verso il libero mercato. Le imprese asiatiche non vengono più salvate a tutti i costi, né schermate dalla concorrenza a colpi di barriere commerciali. In realtà a questo punto l' Europa è molto più chiusa dell' Asia: basta guardare cos' è successo la settimana scorsa con il gruppo Alstom, che sarebbe andato in bancarotta senza i finanziamenti del governo francese. Ma a nessuno è venuto in mente di bloccarli». Perfino il settore finanziario, finora il più protetto del mercato asiatico, si sta aprendo alla concorrenza occidentale. E questi cambiamenti avvengono molto velocemente, dimostrando che ormai le aziende asiatiche si sentono abbastanza forti da affrontare i rivali in campo aperto. Sta all' Europa, ora, accettare la sfida senza farsi prendere dal panico. In fin dei conti, se è vero che la Cina è il nuovo Giappone, non ci sono solo aziende aggressive da combattere ma anche milioni di consumatori da conquistare. «I cinesi sono sempre più attratti dai marchi occidentali - commenta Hawawini - e cominciano ad essere abbastanza ricchi da poterseli permettere. Non tutti, naturalmente. Ma ci sono già consistenti fasce sociali ansiose di vedere il mondo e di comperare le cose migliori. A Hong Kong, ormai, i turisti cinesi spendono ben più degli americani. E da questo punto di vista le aziende europee hanno un vantaggio competitivo straordinario. Ma bisogna sfruttarlo in fretta, altrimenti si rischia di perdere il treno della competizione».
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