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30 novembre 2003

Gary Becker

"Il patto di stabilità è morto, ma è inutile recriminare: la sua morte dimostra che qualsiasi accordo di politica fiscale non può prescindere dalle esigenze della crescita economica. L'importante, ora, è che l'Europa colga quest'occasione per cambiarlo, altrimenti resterà una costante fonte di conflitto". Gary Becker, premio Nobel per l'economia e docente all'universtià di Chicago, patria dei monetaristi alla Milton Friedman, non ha dubbi sulla necessità di riformulare i criteri su cui poggia la stabilità dell'eurozona. E soprattutto non ha dubbi sull'urgenza di ridare fiato all'economia tedesca, locomotiva del Vecchio Continente che va rimessa in moto al più presto se ci si vuole agganciare alla ripresa americana.
Non crede che sarebbe stato meglio evitare questa profonda frattura tra le autorità politiche e monetarie d'Europa?
"Le risponderò con un'altra domanda: lei pensava davvero che Germania e Francia si sarebbero piegate alla regola del 3%, accettando di pagare una penale salatissima in caso di violazione? Una norma così rigida sembra messa lì apposta per non essere rispettata e in effetti è successo proprio così".
Quindi è il patto che secondo lei si basa su presupposti sbagliati…
"Il patto identifica un problema importante: livelli insostenibili di debito pubblico possono portare a una crisi, che avrebbe conseguenze disastrose in un'unione monetaria come la vostra. Ma la Germania e la Francia non hanno livelli di debito preoccupanti. I Paesi dell'eurozona con uno stock di debito eccedente il 100% del Pil sono solo tre: l'Italia, la Grecia e il Belgio. Per questi Paesi può avere senso un limite drastico come quello del deficit al 3%, che li costringa a ridurre il livello del debito. Ma per gli altri, compresa la Germania e la Francia, le regole devono essere più elastiche".
Ad esempio?
"Una regola che obbliga i Paesi a contenere rigidamente le proprie spese anche durante i periodi di recessione è destinata a non durare, soprattutto in un'unione monetaria, dove i governi nazionali non possono più usare lo strumento della politica monetaria per compensare altri squilibri. Se si vuole mettere un limite, dunque, bisognerebbe escogitare un sistema più flessibile, ad esempio un tetto del 60% allo stock del debito, com'è scritto nel trattato di Maastricht. I singoli Paesi dovrebbero poi regolarsi da soli per restare al di sotto di questa soglia, spendendo più liberamente nei periodi di recessione e cercando di ridurre la spesa pubblica quando il ciclo è favorevole".
Non crede che una norma così generica finirebbe per danneggiare la stabilità dell'euro e far crescere l'inflazione?
"Credo che l'Europa abbia molto più bisogno di crescita che di stabilità. La performance dell'economia europea è stata mediocre anche negli anni del boom, a causa di alcune debolezze strutturali. Se per stimolare la crescita c'è bisogno di tagliare le tasse, come sta cercando di fare adesso il governo Schroeder, lasciamogliele tagliare, anche se questo aumenta il deficit. Negli Stati Uniti è stato fatto così e ora abbiamo un deficit che supera quello dei tedeschi. Ma la nostra economia ha ripreso a girare e col tempo il deficit rientrerà da solo".
Non teme una brusca scivolata del dollaro?
"Non vedo grandi pericoli in questo senso. Il dollaro debole per ora ci ha fatto soltanto comodo".
Suggerimenti?
"Per diventare più competitiva l'Europa deve concentrarsi sulle riforme del mercato del lavoro, del welfare, della sanità… Sono questi i temi su cui bisogna spostare il dibattito. Come si fa a stimolare la produttività (che in Europa cresce meno dell'1%, contro il 2,5% degli Usa) costringendo la gente a non lavorare più di 35 ore alla settimana, come in Francia?"

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