20 dicembre 2004
Lo spagnolo che punta sull'Italia
Lo sbarco spagnolo nell' elettricità italiana si sta rivelando un «ottimo affare». E potrebbe diventare ancor più redditizio nei prossimi mesi, quando si deciderà il destino del secondo operatore nostrano, Edison. Jesùs Olmos Clavijo, 44 anni, presidente di Endesa Italia, non si lascerà sfuggire l' occasione per dare battaglia. Nello sguardo vivace di questo ingegnere nucleare ormai prestato alla diplomazia internazionale, s' intravvede un obiettivo chiaro: portare Endesa al secondo posto, subito dietro Enel, sul mercato liberalizzato dell' energia italiana. Anche se la prudenza non gli consente di dirlo apertamente. «Attendiamo di capire che strada prenderà Pierre Gadonneix - commenta -. Per ora Edison non è in vendita, ma quando lo sarà non ci tireremo indietro». Vero è che l' ipotesi Edison è sinergica con le attività del colosso spagnolo, che si estendono a macchia d' olio su tutto il fronte mediterraneo. Soprattutto se si prende in considerazione Eurogen, la più grande delle tre gen.co con 7 mila megawatt installati, venduta da Enel a EdiPower, che Edison controlla insieme alle municipalizzate di Milano e Torino. Presente sul mercato italiano dal 2001 in partnership con l' Asm di Renzo Capra, il gruppo Endesa ha investito 3,5 miliardi di euro per conquistare Elettrogen, la seconda delle tre gen.co, cui si stanno aggiungendo investimenti per 1,3 miliardi nel ripotenziamento delle centrali esistenti e di un altro miliardo per i nuovi progetti. Nel caso maturino opportunità straordinarie, però, le disponibilità sarebbero sicuramente molto maggiori. Con 43 mila megawatt di potenza installata complessiva e oltre 20 milioni di clienti in 12 Paesi, infatti, Endesa è uno dei più grandi gruppi elettrici privati del mondo. Ma anche se il caso Edison dovesse risolversi altrimenti, le prospettive di crescita di Endesa restano molto concrete. Olmos, che ha da poco in mano anche tutto il business di Endesa in Europa, è soddisfatto: «In Italia le cose stanno andando bene, meglio del previsto. Il potenziamento e la razionalizzazione delle strutture acquisite da Enel ci hanno dato ottimi risultati e il piano di repowering dovrebbe portare la nostra capacità produttiva a 6.400 megawatt entro il 2007». Endesa è partita con cinque centrali termoelettriche da quasi 5 mila megawatt e due nuclei idroelettrici da 1.000 megawatt complessivi e ora sta diversificando nell' eolico e nel metano. Ora si appresta a costruire insieme a Asm Brescia una nuova centrale da 800 megawatt a Scandale, in Calabria. Ha completato la riconversione di tutti i gruppi a ciclo combinato a Ostiglia e a Tavazzano, in Lombardia, mentre a Monfalcone si prevede la trasformazione in ciclo combinato di un' unità a olio combustibile. «A Monfalcone - si rammarica Olmos - avevamo in progetto una riconversione a carbone da 640 megawatt, che avrebbe dato ottimi risultati sia sul piano economico che ambientale, ma siamo stati bloccati dalle autorità locali». Sull' eolico, l' obiettivo è raggiungere 400-450 megawatt di potenza installata: «Vogliamo coprire il nostro fabbisogno di certificati verdi con il vento», precisa Olmos, che ha appena firmato un accordo da 250 milioni con Gamesa per rilevare impianti italiani per 200 megawatt totali. A questi, si aggiungono i 20 megawatt del parco di Florinas, collocato proprio accanto alla centrale sarda di Fiumesanto. Inoltre si attende l' esito di una gara in Sicilia e di altri progetti sparsi. Anche in Sardegna Endesa aveva previsto il raddoppio della capacità attuale, ma è rimasta bloccata dalla moratoria voluta fortemente dal nuovo presidente regionale Renato Soru. Produrre energia in Italia di questi tempi non è facile. E nemmeno importare metano. Olmos ha in mente due possibilità per costruire un gassificatore, al largo di Monfalcone oppure al largo di Livorno, dove potrebbero arrivare via nave almeno 4 miliardi di metri cubi di metano liquefatto ogni anno. Oggi Endesa Italia - che dipende dalle forniture dell' Eni - ne consuma quasi 3 miliardi l' anno, con prospettive di forte crescita, vista la progressiva riconversione a gas dei suoi impianti produttivi e lo scarso successo dei progetti sul carbone. In previsione c' è un raddoppio delle sue spese in metano entro il 2007. Quindi il controllo diretto di una parte delle forniture sarebbe essenziale per gestire la catena del valore e aumentare la competitività sul mercato. «Anche qui ci si scontra con le resistenze delle autorità locali, preoccupate dall' impatto ambientale dei gassificatori», fa notare Olmos. Ma qualche resistenza emerge anche da parte di chi controlla il mercato e preferisce mantenere l' offerta limitata, all' origine dei prezzi alti. Per Olmos, il 2005 sarà un anno decisivo per capire se in Italia il processo di liberalizzazione è destinato a procedere spedito, sia nel mercato del gas che in quello elettrico, oppure si è arenato nelle secche della restaurazione.
13 dicembre 2004
Silenzio si alza il vento
Il vento in Italia vale come una grossa centrale nucleare, che dà elettricità a oltre 500 mila famiglie. Ma si potrebbe fare molto di più. Così diversi produttori si stanno concentrando sull' eolico per fare il pieno di energia verde, con Endesa in testa. Il colosso energetico spagnolo guidato da Jesus Olmos, terzo produttore di energia elettrica in Italia, ha appena firmato un accordo da 250 milioni con Gamesa, una delle prime imprese al mondo nell' installazione delle pale eoliche più avanzate, per rilevare impianti italiani da 200 megawatt totali, che si aggiungono ai 20 megawatt dell' impianto sardo di Florinas, acquisito da Enel al momento della cessione di Elettrogen, una delle tre genco. Enel, da parte sua, ha stanziato circa 100 milioni per installare un' ottantina di nuovi generatori entro il 2005, che aumenteranno del 10% la potenza complessiva nazionale, oggi sui mille megawatt. E anche gli altri operatori, da Edison a Energia, investono nel vento, che sta diventando sempre più remunerativo grazie ai rapidi progressi della tecnologia. Il decollo dell' eolico emerge inoltre dalla valanga di richieste di autorizzazioni presentate da società del tutto nuove rispetto ai tre capofila dell' eolico italiano (il gruppo Ivpc domina il mercato con il 44%, seguito da Edison con il 23% e da Enel con il 22%), per un totale che supera i 13 mila megawatt aggiuntivi, che avvicinerebbero l' Italia al record mondiale della Danimarca, capace di coprire con l' eolico il 17% del suo fabbisogno elettrico. L' Italia non può vantare medie di vento come quelle del Nord Europa, che superano facilmente i sei metri al secondo. Ma Sardegna e Sicilia, così come i crinali appenninici del Centro-Sud, hanno medie intorno ai 3,5-4,5 metri al secondo e presentano condizioni ideali per l' installazione di generatori. «Nel parco di Altanurra, in Sardegna - osserva Sergio Adami, responsabile di Enel per le energie rinnovabili - si può contare su oltre 2 mila ore di vento all' anno e quindi su una produzione di 24-25 milioni di chilowattora, in grado di soddisfare i consumi di quattromila famiglie. Nel parco di Sedini, vicino a Sassari, che stiamo completando, avremo una produzione capace di soddisfare il fabbisogno di oltre 15 mila famiglie». Con la drastica riduzione del rumore e l' efficienza delle pale più che raddoppiata, a vent' anni dal debutto delle prime turbine commerciali, l' eolico è sempre più conveniente perché i costi di produzione di elettricità sono 5 volte più bassi. «La potenza delle turbine, che nei primi anni Ottanta si aggirava intorno ai 20-60 kilowatt per macchina, oggi arriva a 1.700 chilowatt, e le pale girano molto più lentamente, facendo meno rumore, mentre il costo della produzione di energia è sceso dell' 80 per cento», spiega Adami. Con 30 mila megawatt l' Europa è il primo produttore mondiale di energia eolica, che soddisfa circa il 2,4% del fabbisogno complessivo di elettricità, cioè i consumi di 35 milioni di cittadini. La Germania da sola produce quasi 15 mila megawatt e in particolare nella regione dello Schleswig-Holstein l' eolico soddisfa il 30% del fabbisogno energetico. La Danimarca trae il 20% della sua elettricità dal vento, sfruttato anche con impianti eolici marini. La Spagna viene subito dopo la Germania in termini assoluti e in alcune regioni, come la Navarra, si arriva al 50% di energia dal vento. L' Italia è il quinto Paese al mondo e il quarto d' Europa per produzione di energia eolica, ma sullo scenario è calato recentemente il rigido altolà di Renato Soru, che alla fine di novembre ha emanato una legge regionale molto penalizzante per la costruzione di nuovi impianti in Sardegna. La nuova legge - uno stop in piena regola allo sfruttamento della regione più ventosa d' Italia - ha suscitato le proteste di Legambiente e dei produttori, che puntavano molto sull' isola. Eppure l' obiettivo del governo è di promuovere la costruzione di parchi eolici per arrivare a 3 mila megawatt entro il decennio, triplicando la potenza attualmente installata. Secondo i dati riportati dal primo Atlante eolico italiano, pubblicato recentemente dal Cesi in collaborazione con l' Enea, l' Italia avrebbe le condizioni geografiche per soddisfare addirittura il 15% del fabbisogno nazionale con questa fonte rinnovabile. Ma regioni con ottima ventosità e zone rurali a bassa densità abitativa come la Basilicata o le Marche si limitano a potenze installate inferiori ai 500 megawatt. Spazio per crescere ce n' è quanto si vuole.
1 dicembre 2004
Prove di un matrimonio a Nord Ovest
Prove di un matrimonio a Nord Ovest. Mentre le aggregazioni fra utilities lombarde segnano il passo e a Nord Est la voglia di alleanze si scontra con una selva di veti incrociati, all'ombra della Mole le cose si muovono in fretta.
Nato con la benedizione dei due sindaci ulivisti, il genovese Giuseppe Pericu e il torinese Sergio Chiamparino, il progetto d'integrazione territoriale fra i due capoluoghi ha messo a segno in questi giorni un primo passo concreto: la genovese Amga e la torinese Smat si sono aggiudicate la gara per rilevare il 67% di Acque Potabili, in quota Italgas. L'acquisizione disegna i nuovi contorni di un'aggregazione in grado di servire circa 5 milioni di abitanti. L'alleanza idrica nata sull'asse Genova-Torino ha spazzato via concorrenti illustri come la francese Vivendi e la romana Acea, dopo mesi di resistenze da parte dell'Eni, che in un primo tempo aveva giudicato inadeguate tutte le offerte ricevute. Italgas ha dato il via libera solo grazie a un ritocco all'insù dell'offerta di Amga e Smat, che sono riuscite a portarsi a casa due terzi di Acque Potabili con poco più di 85 milioni e ora dovranno procedere al lancio di un'Opa sul resto. L'operazione rappresenta il primo risultato dell'alleanza sottoscritta in giugno fra le due società per attuare una strategia comune di crescita e di espansione territoriale, oltre che di razionalizzazione nell'ambito delle rispettive sfere operative.
Ma l'alleanza Amga-Smat s'inserisce nel più vasto disegno di aggregazione concordato tra i due sindaci anche in materia di elettricità e gas, che sta portando alla fusione di Amga con Aem Torino: le due ex municipalizzate hanno appena completato uno studio interno sulle possibilità di sinergie industriali fra le due società e hanno affidato alla McKinsey l'incarico di advisor per la formulazione delle soluzioni necessarie all'aggregazione. "McKinsey - spiega il vicesindaco di Genova, Alberto Ghio - ci ha chiesto quattro settimane di tempo per preparare la documentazione. Ci aspettiamo di poter analizzare le proposte entro la fine dell'anno". Fra gli aspetti più delicati, c'è quello della governance della nuova entità: gli advisor potranno seguire il modello della fusione vera e propria tra Amga e Aem, oppure la strada di costituire una holding finanziaria di partecipazioni controllata dai Comuni, a cui verrebbe attribuita una quota della holding industriale quotata in Borsa. Nell'uno e nell'altro caso, non si tratta certamente di un matrimonio all'acqua di rose. E già oggi ci si sta ponendo il problema della squadra da chiamare ai vertici di questa super-utility del Nord Ovest. Fra i nomi che girano con maggiore insistenza sul fronte della holding, quello di Paolo Cantarella - ex amministratore delegato della Fiat - è stato bruciato in fretta dall'opposizione dei genovesi, che lo considerano troppo sbilanciato verso la Mole. La presenza poi di Fabrizio Palenzona - vicepresidente di Unicredit e membro della Fondazione Crt - fra i consiglieri di amministrazione dell'Amga, di cui Crt ha contribuito a finanziare l'aumento di capitale, delinea un incrocio finanziario che rafforza l'unione. Sul fronte industriale, l'alleanza schiera da un lato l'ex ministro Franco Reviglio, oggi presidente di Aem, dall'altra l'ad di Amga Roberto Bazzano, un manager cresciuto all'interno della società e fortemente impegnato sul fronte delle alleanze territoriali.
L'ipotesi di aggregazione tra Aem e Amga è molto interessante per la complementarietà tra le due società, con Aem concentrata su energia e teleriscaldamento e Amga nell'acqua potabile e nel gas nei rispettivi bacini di riferimento, ma non è destinata a fermarsi qui. "L'accordo con Amga non potrà limitarsi a definire una nuova entità industriale fine a se stessa - spiega il direttore generale di Aem Torino, Roberto Garbati - ma dovrà essere intesa come primo importante passo di un percorso capace di aggregare le altre aziende energetiche locali che operano in Piemonte, Liguria e Valle d'Aosta". Alessandria e Vercelli per il Piemonte, Sanremo e La Spezia per la Liguria potrebbero costituire la prima serie di alleati, mentre si sta consolidando la penetrazione di Amga nel Piemonte meridionale, dove la società genovese è già insediata da tempo in una quindicina di comuni attorno a Novi Ligure ed è recentemente approdata a Tortona, aggiudicandosi la gara per la gestione del servizio idrico integrato e del gas. Ma è la Valle d'Aosta - dove Amga è già presente nella gestione del riscaldamento degli edifici scolastici e regionali - l'obiettivo più ambito dell'aggregazione, con le 29 centrali idroelettriche della Compagnie Valdotaine des Eaux (Cva) che ne fanno un'esportatrice netta di energia fra le più attive. Il sindaco Chiamparino ha già gettato un amo in direzione del presidente di Cva Francesco Guerrieri, ma per ora resta un dialogo a distanza. Con l'"oro blu" valdostano, che l'anno scorso ha prodotto quasi 3 miliardi di chilowattora venduti sul mercato libero a prezzi molto remunerativi, trattandosi di energia verde, la maxi-utility del Nord Ovest si presenterebbe come un campione a tutto tondo, capace di competere con i giganti nazionali, ma anche sul mercato europeo.
24 novembre 2004
Bernabè sbarca nell'idroelettrico
Petrolio a 50 dollari, protocollo di Kyoto che incombe. Produrre energia di questi tempi è diventata un'impresa difficile. Ma a Edolo, sulle pendici dell'Adamello, si fa con una materia prima che non costa quasi nulla: l'acqua. La centrale di Edolo, mille megawatt di potenza, è un simbolo per l'idroelettrico nostrano: ha riacceso l'Italia piombata nel buio la fatidica notte del blackout, lo scorso autunno, dando una spinta ai grandi impianti termoelettrici che si erano scollegati dalla rete. A differenza di una centrale a gas o a olio combustibile, Edolo non ha bisogno della scintilla portata dall'esterno per avviare la produzione, basta la spinta dell'acqua. Sull'idroelettrico, una volta tanto, l'Italia è leader in Europa: il 19% della domanda nazionale di energia viene coperta con la potenza dei fiumi. E la forza dell'acqua attrae sempre di più: sono un centinaio i piccoli impianti idroelettrici in costruzione, soprattutto in Piemonte, Lombardia, Veneto e Friuli, ma c'è qualcosa anche sugli Appennini e in Sardegna.
"E' un settore con grandi potenzialità di crescita”, spiega Chicco Testa, che ha guidato l'Enel con Franco Tatò fino al 2002 e oggi opera in Rothschild Italia insieme a Franco Bernabè. Non a caso Bernabè e Testa sono entrati in una società bresciana di produzione idroelettrica, la Eva Energie Valsabbia, dove l'FB Group sta rilevando una quota del 30%. “Con la liberalizzazione del mercato e l'avvento delle limitazioni imposte dal protocollo di Kyoto si sono aperti spazi importanti per i nuovi produttori, soprattutto nelle energie rinnovabili – commenta Testa, presidente di Eva – in cui noi eravamo già presenti nel campo delle biomasse. Nell'idroelettrico contiamo d'investire circa 80 milioni di euro per arrivare a produrre 300 milioni di chilowattora l'anno, sia costruendo impianti nuovi che acquistandone di già esistenti”. L'espansione si concentra soprattutto nell'arco prealpino, ma la società, nata dall'iniziativa di un gruppo di professionisti valsabbini, ha progetti in stadio avanzato anche in Campania e in Calabria.
“Non dimentichiamo che la produzione di un milione di chilowattora da idroelettrico evita l'immissione nell'atmosfera di 600 tonnellate di anidride carbonica”, fa notare Sergio Adami, responsabile Enel per le energie alternative. “Al momento attuale – aggiunge Adami – l'anidride carbonica vale circa 10 dollari la tonnellata, ma con l'entrata in vigore del protocollo di Kyoto potrebbe arrivare a 70-80 dollari”. Per Enel, leader mondiale nel settore idroelettrico con 495 impianti per una capacità totale di 14.312 MW, si tratta quindi di un'ottima fonte di crediti verdi oltre che di energia a buon mercato. Se la produzione di un megawattora da olio combustibile costa 70 euro, da gas naturale 50 e da carbone 45, la stessa quantità di energia prodotta dall'acqua costa solo 20 euro. E' per queste due buone ragioni che Enel continua a espandere la sua capacità idroelettrica: gli ultimi investimenti sono due piccoli impianti ad acqua fluente sul fiume Tirso, in Sardegna, uno sul Biferno in Molise e altri ne arriveranno in Piemonte, in Veneto e nelle Marche. “Anche sui grandi impianti – aggiunge Adami - che spesso risalgono all'epoca fra le due guerre, si interviene per sostituire le turbine o nel caso tutto l'albero elettrico, talvolta anche sull'intero complesso di adduzione dell'acqua”. In questo modo cresce il rendimento e quindi la potenza aumenta sensibilmente anche senza costruire nuovi impianti.
Di tirar su dighe nuove, però, non se ne parla nemmeno. Mentre l'Austria e la Svizzera - che ci vendono una bella fetta della loro energia - continuano a riempire bacini e pompare acqua nelle condotte forzate, da noi la corsa ad attingere la potenza dei fiumi si è impantanata nel fango del torrente Vajont, tra le case sommerse di Erto e Casso. In quel lontano '63 la produzione idroelettrica copriva il 65% della domanda nazionale. Ma dopo il Vajont l'entusiasmo per lo sfruttamento delle risorse nazionali si è spento di colpo. Al vertiginoso aumento dei consumi, decollati a partire dal boom economico degli anni Sessanta, si è fatto fronte soprattutto con il petrolio. E a quarant'anni dal disatro, anche oggi che l'idroelettrico è tornato di moda, le dighe restano tabù. “Non ci proviamo nemmeno – puntualizza Adami - perché anche se ottenessimo l'autorizzazione del ministero, ci troveremmo contro le comunità locali”. Eppure le potenzialità ci sarebbero tutte: basti pensare alla potenza del Po, sfruttata pochissimo rispetto a quella di altri grandi fiumi europei. Perfino sugli impianti di piccola taglia, ad acqua fluente, le resistenze sono spesso strenue. Le opere idrauliche legate alle centraline idroelettriche devono sottostare ai parametri sul minimo deflusso vitale, definiti dalle regioni in base alle indicazioni delle singole autorità di bacino e degli enti locali: ogni fiume ha il suo. “La catena delle decisioni è troppo lunga, ci vuole un niente a spezzarla, basta un comitato di quartiere che si mette di traverso e il meccanismo s'inceppa”. Adami ne sa qualcosa: ha otto cause pendenti su dispute di questo tipo.
17 novembre 2004
Ortis e Fanelli restano soli, Authority zoppa
Da quando Fabio Pistella se n'è andato a dirigere il Cnr, l'Authority di Alessandro Ortis ha perso energia. Oltre al presidente, infatti, a capo dell'autorità è insediato al momento solo il commissario Tullio Maria Fanelli, mentre la legge Marzano ha portato da tre a cinque il numero di consiglieri e ha previsto 60 giorni, che scadono il 28 novembre, per integrare il collegio. Ma il balletto delle nomine prenderà senz'altro più tempo. L'Authority potrà continuare a deliberare anche a ranghi ridotti, secondo il parere legale prevalente, ma dalla fine di novembre le sue decisioni saranno leggere leggere. E in questa situazione dovrà affrontare una serie scadenze importanti.
Prima fra tutte lo scontro legale sui distacchi di corrente del 26 giugno 2003, che lasciarono al buio oltre 7 milioni di utenti. Per questa interruzione programmata del servizio, l'Enel rischia una multa salata e quindi ha deciso di precorrere i tempi pagando un'oblazione di 50mila euro (pari al doppio della sanzione minima prevista, che va da 25mila a 150 milioni) utilizzando una legge dell'81, secondo cui il pagamento è sufficiente ad archiviare l'istruttoria avviata dall'Authority. La società guidata da Paolo Scaroni aveva già fatto lo stesso in un'occasione precedente, quando era riuscita a bloccare una multa da 45 milioni di euro, comminata dall'Authority nel 2001 per aver fornito dati falsi sulle interruzioni di corrente nelle regioni del Sud. Per evitare la sanzione, l'Enel fece ricorso alla norma sull'oblazione, che non viene espressamente esclusa dalla legge di fondazione dell'Authority dell'energia così com'è stato fatto per l'Antitrust. Ortis è ricorso al Tar della Lombardia e poi al Consiglio di Stato, che gli hanno dato torto. L'ultima sentenza è dello scorso luglio. In settembre, l'Enel ci ha riprovato: un'altra oblazione per bloccare l'istruttoria sui distacchi di corrente del giugno 2003. Ma Ortis non si dà per vinto: non ha chiuso l'istruttoria e ha ripreso la strada del Consiglio di Stato, adducendo un vizio di forma per respingere l'oblazione. Nel frattempo si sta muovendo anche il mondo della politica: sia la maggioranza che l'opposizione hanno presentato in questi giorni un emendamento alla Finanziaria e alla legge comunitaria per eliminare la possibilità di aggirare con l'oblazione le sanzioni dell'Authority. Ma i tempi sono stretti e non è chiaro chi riuscirà a tagliare per primo il traguardo. La sentenza del Consiglio di Stato, infatti, è attesa in tempi brevi.
La conclusione di questa vicenda pesa anche su tutti gli altri procedimenti in corso, fra cui l'istruttoria sul blackout del 28 settembre, che secondo l'Authority si sarebbe potuto evitare. Sotto accusa sono soprattutto i "ritardi nelle riaccensioni", il distacco improvviso di 21 impianti che avrebbero dovuto restare accesi al minimo e le "disfunzioni nei sistemi di telecomunicazione". Oltre all'Enel (proprietaria di alcuni impianti che non dovevano staccarsi dal sistema), in questa istruttoria sono coinvolti anche altri operatori, comprese le grandi municipalizzate.
L'Eni a sua volta rischia una multa per aver rifiutato a Gas Natural l'accesso al proprio terminale di rigassificazione di Panigaglia: dopo aver imposto all'Eni di concedere l'accesso, l'Authority ha avviato un'ulteriore istruttoria per stabilire una sanzione, che sta per chiudersi. Un'altra indagine molto delicata, che si dovrebbe chiudere entro l'anno, è quella sul potere di mercato di Enel, che insieme alla dominanza di Eni sul mercato del gas è stato messo sotto accusa anche da Giuseppe Tesauro come la causa principale dei prezzi troppo alti. Tesauro ha recentemente indicato la possibilità di ricorrere "a strumenti di limitazione ex ante del potere di mercato, che ci si illudeva di non dover utilizzare con l'avvio della Borsa elettrica". E proprio sulle anomalie dei prezzi di Borsa, in particolare sui misteriosi picchi di giugno, Ortis ha aperto un'indagine conoscitiva che potrebbe portare a risultati molto interessanti. "I colli di bottiglia della rete - spiegano all'Authority - consentono a Enel di controllare i prezzi di Borsa con una manciata d'impianti". Una situazione - si dice a Piazza Cavour - che andrebbe risolta togliendo quegli impianti dalle mani dell'ex-monopolista. Sempre in tema prezzi di Borsa, fra pochi giorni l'Authority ha intenzione di emettere una delibera, anche perché si avvicina la fase delicata in cui l'Acquirente Unico dovrà concludere i contratti di fornitura per l'anno prossimo, che determineranno in larga misura la bolletta elettrica degli italiani. Grazie alle procedure anti-rincari dell'Authority e all'abile manovra messa in atto dall'Acquirente Unico - che al momento di stabilire le tariffe per il trimestre in corso ha buttato sulla bilancia ben 84,7 milioni di euro, intascati con le operazioni di trading su energia Cip6 attuate nel primo trimestre dell'anno - l'impatto del caro-greggio non si è ancora sentito sul mercato vincolato. Ma Ortis ha ormai sfuttato fino in fondo tutti i margini regolamentari e la bolla dei prezzi energetici rischia di scoppiarle in mano alla fine di questo trimestre, se il greggio non avrà ancora imboccato una discesa stabile. Con l'attuale mix italiano di combustibili, infatti, ogni dollaro in più al barile fa aumentare il costo di generazione di un euro, producendo un immediato rincaro del 2% per ogni megawattora. E su questo anche Ortis può fare ben poco.
11 novembre 2004
La campagna d'Italia di Edf
Marcel Roulet è un anziano signore, che ha trasformato France Telecom in una moderna compagnia telefonica e crede fermamente nelle privatizzazioni. La commissione governativa da lui presieduta emetterà giovedì il verdetto tanto atteso dal mercato italiano dell'energia, consegnando al ministro Nicolas Sarkozy il suo rapporto: Edf, la più grande società elettrica del mondo, deve disimpegnarsi dall'Italia e dalla Gran Bretagna per concentrarsi esclusivamente su Francia e Germania, in vista della quotazione in Borsa? Oppure deve restare in tutti e quattro i Paesi, diventando padrona di Edison, con o senza partner locali? Dalle indiscrezioni che filtrano da Parigi, la commissione sembrerebbe propendere per l'ipotesi espansiva. L'ultima parola, naturalmente, spetta al governo francese e soprattutto a Pierre Gadonneix, nuovo capo di Edf. La prova del nove l'avremo soltanto in febbraio, quando il colosso transalpino dovrà mettere sul tavolo circa 4 miliardi per rilevare le altre quote di Italenergia Bis, holding di controllo di Edison. E forse altri 4 miliardi per lanciare un'Opa a cascata. Ma l'orientamento della commissione e i contatti avuti da Sarkozy nella sua visita a Roma, dove ha incontrato anche Carlo De Benedetti (possibile partner in Edison) e Paolo Scaroni, lasciano sospettare che la strada sia segnata.
Le conseguenze per il mercato italiano sono di vasta portata: se Edf sbarcherà in forze su Edison, infatti, andrà risolto il blocco dei suoi diritti di voto al 2%. E il "pacchetto di scambio" concordato a suo tempo con Francois Roussely per avviare una certa reciprocità nell'apertura dei rispettivi mercati, coinvolge in pieno le strategie internazionali di Enel, che non potendo crescere nell'elettricità in Italia è molto concentrata sull'espansione all'estero. La possibile intesa, su cui Gadonneix non si è ancora pronunciato, comprende la cessione dei diritti di prelievo di 3-4mila megawatt di energia nucleare, per consentire a Enel di conquistare una quota del 3-4% del mercato francese, e la partecipazione al progetto Epr, la centrale nucleare di ultima generazione che francesi e tedeschi stanno costruendo a Flamanville, in Normandia. Un bel premio per Enel, che ha pochi alleati in Europa.
In attesa del responso, Scaroni corre da solo. Lo dimostra l'accordo appena concluso con Bratislava, per rilevare due terzi di Slovenske Elektrarne. Con l'acquisizione di due terzi dell'ex monopolista slovacco per 840 milioni di euro (è il boccone più grosso mai ingollato da Enel), Scaroni incamera una capacità produttiva di circa 7000 megawatt, equivalente a quella di Eurogen, la più grande delle gen.co, ceduta a Edison. Nel pacchetto di generazione, che rappresenta l'82% del mercato slovacco, sono comprese anche due centrali nucleari, per 2640 megawatt complessivi, dove Enel si è impegnata a completare la costruzione di due reattori, per rimpiazzare i due destinati al decommissioning. L'Italia entra così a pieno titolo nel business nucleare, anche se non sul territorio nazionale. "Sarà un'ottima occasione - dicono all'Enel - per ricostruire quel know-how che abbiamo perduto".
Ma la strategia di espansione in Est Europa non è certo finita qui: Scaroni l'ha illustrata nei dettagli venerdì scorso in un summit strategico a porte chiuse che si è tenuto a Venezia, dove gli amministratori della società hanno discusso liberamente, senza obblighi di trasparenza, le prospettive di crescita all'estero sul lungo periodo. "Siamo in prima linea per fare la nostra parte nella liberalizzazione del mercato russo, che partirà nel 2005", ha detto Scaroni. In Russia, Enel è attiva nella gestione di una centrale a ciclo combinato a San Pietroburgo, che dev'essere raddoppiata in tempi brevi. In questo modo si è fatta conoscere dal Cremlino e dall'ente elettrico pubblico, la Rao Ues, che sta per avviare la privatizzazione dello sterminato mercato russo, mettendo in vendita alcune gen.co come in Italia. La prima, un gigante da 9000 megawatt, dovrebbe andare in gara in tempi brevi. "L'Enel - ha promesso Scaroni - è pronto a partecipare".In Romania, dove Enel ha già il 20% del mercato della distribuzione, Scaroni è pronto a entrare nella produzione e ha in progetto di candidarsi al completamento della terza unità dell'impianto nucleare di Cernavoda. In Bulgaria si è aggiudicato una grande centrale a lignite, in via di modernizzazione. I bulgari, che stanno per mettere in vendita altri tre impianti e per completare la costruzione della centrale nucleare di Belen, puntano a diventare il centro principale di produzione elettrica nei Balcani - dove sono già oggi i primi esportatori di energia - e oltre il Bosforo, verso la Turchia. Quindi la presenza su questo mercato è altamente strategica. Ma c'è anche un altro aspetto strategico molto interessante: "Ora che il protocollo di Kyoto sta per essere applicato, la presenza in tutti i Paesi dell'Est offre notevoli vantaggi sul piano dei crediti di emissione", fanno notare all'Enel. Nessuno di questi Paesi, infatti, ha obblighi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica. E gli impianti di produzione non sono certo gioielli di efficienza. Basta quindi poco sforzo per aumentare l'efficienza di un impianto dal 20 al 40-50% e acquisire così crediti di emissione da utilizzare per compensare le emissioni in eccesso generate in Italia, dove i processi di efficientamento sono molto più costosi.
28 ottobre 2004
Le Authorities vanno a scuola a Firenze
Una piattaforma comune ai 25 Paesi dell'Unione dove mettere assieme le conoscenze delle autorità regolatorie europee con quelle dei decisori politici e industriali, degli accademici e dei ricercatori, per sviluppare un linguaggio e una cultura regolatoria comune, anticipare nuove sfide e disseminare le best practices. Sarà tutto questo e forse qualcosa in più la Florence School of Regulation, che ha appena aperto i battenti all'European University Institute di Firenze, come joint venture fra la Commissione europea, il Consiglio delle autorità europee dell'energia (Ceer) e il Centro Robert Schuman di studi avanzati sotto la direzione di Pippo Ranci. "Partiamo come punto di riferimento europeo per chi si occupa di regolamentare il mercato dell'energia, anche perché siamo sostenuti dalle imprese del settore - spiega Ranci, ex presidente dell'Autorità per l'energia - ma contiamo di allargarci agli altri mercati regolamentati, cercando di riempire un vuoto molto sentito in questo campo: non esiste un luogo in Europa dove i decisori del mercato unico possano confrontarsi con le autorità regolatrici nazionali e con gli studiosi europei, per sottoporre a un'analisi comparata i meccanismi nati dalle esigenze interne di ogni settore". A riempire questo vuoto arriva ora la Florence School of Regulation, nata da una precedente consuetudine fra il Ceer e l'European University Institute, dove insegna anche Giuliano Amato, uno dei primi presidenti dell'Antitrust. "Già da qualche anno - precisa Ranci - il Ceer tiene qui i corsi di formazione per i dipendenti delle diverse Autorità europee dell'energia. La scuola parte da questo nucleo già esistente per allargare il suo campo d'azione a seminari più articolati e più aperti, ma anche a corsi brevi più avanzati, pensati per far incontrare i vertici delle Autorità con rappresentanti della Commissione, accademici e imprese". La missione della scuola fiorentina si ferma qui: non è stata pensata per arrivare a veri e propri corsi universitari strutturati, già offerti da altri istituti europei. "Cercheremo di fare quello che le altre università non fanno - commenta Ranci - muovendoci fra iniziative più ristrette e grandi conferenze di alto livello, come quella che stiamo già organizzando per la prossima primavera". L'interesse per l'iniziativa, del resto, già oggi non manca: i dieci nuovi membri dell'Unione sono i più attivi sul fronte dell'apprendimento, ma arrivano segnali anche dall'esterno. "Abbiamo avuto richieste di partecipare ai nostri corsi anche da Paesi non ancora aderenti, come la Romania e la Turchia", fa notare Ranci. Segno che la scuola fiorentina ha molto lavoro da fare.
22 ottobre 2004
Gli operatori wireless hanno scoperto Dio
Lo strumento più diabolico del creato si converte sulla via di Damasco. Sms pubblicitari, musica da scaricare o tv sul telefonino non bastano più: ora gli utenti dei cellulari hanno trovato Dio. Dalla cupola di San Pietro alle atmosfere New Age, dai minareti di Dubai ai templi indù di Bombay, dalle guglie metodiste di Manchester al Muro del tempio di Gerusalemme, la svolta spirituale degli operatori wireless si percepisce a tutte le latitudini. Per soddisfare le esigenze di ogni fede, servizi di messaggistica religiosa spuntano come funghi ai quattro angoli del globo.
Per i seguaci dell'Islam, che già da anni hanno imparato a sfruttare in chiave ideologica i potenti mezzi della tecnologia, saranno disponibili entro la fine dell'anno in India, Bangladesh, Indonesia e Malesia dei telefonini prodotti dalla società LG Electronics, insieme all'operatore Ilkone Mobile Telecom di Dubai, che ricordano le ore delle cinque preghiere quotidiane, contengono in memoria il calendario lunare, oltre a una serie di versetti del Corano, e indicano la direzione della Mecca. Ma anche gli islamici che non vogliono cambiare il telefonino possono utilizzare i servizi di diverse società specializzate per “islamizzarlo”: ad esempio con il “muezzin digitale” della MyAdhan, che manda a chiunque lo richieda un sms con gli orari giusti per pregare nella sua area geografica, o attraverso il portale francese MobIslam, che offre loghi e suonerie islamiche, oltre al solito servizio di segnalazione degli orari di preghiera.
Il Vaticano non è da meno: Verizon ha appena lanciato il Pensiero del giorno del Papa – già disponibile da tempo in Irlanda e Regno Unito attraverso Vodafone - che arriva sul telefonino ai suoi utenti americani per la modica cifra di 30 cent a messaggino. Il Vaticano partecipa all'affare confezionando gli sms attraverso il provider italiano Acotel. Ora si sta pensando anche alla diffusione di mms con le immagini della messa domenicale in San Pietro. Sempre negli Stati Uniti, da settembre la californiana SMS Media Group offre il servizio Mfaith, che invia ogni giorno verso le 11 un sms con un versetto del Nuovo Testamento. Un servizio analogo è già disponibile da tempo in Australia, attraverso la locale Bible Society. In Russia la diocesi di Voronezh ha lanciato una “scuola di Bibbia” gratuita per sms, inviando ogni giorno, a chiunque lo chieda, qualche frase dell'Antico Testamento con allegati i compiti per casa.
Nelle Filippine, la società Smart Communications ha inventato un “rosario mobile” per aiutare a tenere il conto delle preghiere: ogni volta che si clicca sul telefonino si avanza di un grano. E' disponibile anche una “Via Crucis mobile” con delle immagini adatte a ognuna della 14 stazioni, che servono d'ispirazione all'utente in preghiera. Le autorità cattoliche filippine hanno vietato invece le confessioni per sms, che cominciavano a diffondersi. In Olanda l'episcopato locale offre 15 diverse suonerie con inni cattolici a 1,15 euro ciascuno. Nel Regno Unito l'Unione delle chiese metodiste ha lanciato qualche mese fa una campagna per chiedere ai giovani d'inventare un nuovo comandamento per il 21° secolo, da aggiungere ai dieci già noti, ed è stata sommersa da migliaia di sms con i suggerimenti più svariati. "Non devi adorare falsi idoli pop" è il comandamento che ha vinto il concorso, guadagnandosi in premio un videotelefonino.
Anche in India si può trovare l'ispirazione religiosa via cellulare attraverso l'operatore BPMobile, che invia le preghiere dei suoi utenti, mandate per sms, a un tempio di Bombay dove vengono offerte al Dio indù Ganesh. Lo stesso procedimento viene usato da una società israeliana per soddisfare l'antica usanza ebraica di infilare le proprie preghiere scritte su un bigliettino nelle fessure tra le antiche pietre del Muro del tempio di Salomone a Gerusalemme: un rabbino s'incarica di trascrivere gli sms e piazzarli nel luogo più sacro all'ebraismo mondiale.
Perfino gli insegnamenti New Age del guru Deepak Chopra si possono ricevere quotidianamente, abbonandosi per 3,25 dollari al mese a un servizio chiamato le Sette Leggi Spirituali, dal titolo del suo libro più famoso. Il servizio, disponibile solo negli Stati Uniti attraverso due operatori telefonici, fornisce un aforisma quotidiano e una serie di consigli dietologici. "E' straordinario - ha commentato recentemente lo stesso Chopra - che la gente possa trovare sollievo in frasi così brevi. Forse basta un piccolo richiamo quotidiano per non dimenticare il senso profondo della vita".
21 ottobre 2004
Utilities, aggregazioni a rilento
"Aggregazioni secondo logiche industriali, non politiche. E privatizzazioni vere, non di facciata". Questo - secondo Renato Brunetta, consigliere economico di Palazzo Chigi - è l'obiettivo del governo nella battaglia delle utilities, che "rischia di finire come quella fra i capponi di Renzo", se non si darà un colpo di acceleratore ai processi di fusione in corso. La spinta a cui pensa il governo consiste in uno sconto fiscale sulle cessioni di quote delle ex-municipalizzate e in altri meccanismi per incentivare le privatizzazioni. "Stiamo inserendo nella finanziaria - spiega Brunetta - una serie di premi e punizioni per indurre gli enti locali a vendere quote, senza se e senza ma. La trasformazione delle ex-municipalizzate in Spa è stata un passo avanti, ma non si capisce perché i Comuni debbano restare proprietari delle Spa". Il forte divario fra la privatizzazione formale e sostanziale delle utilities è sottolineato anche dall'ultimo rapporto di Confservizi: le Spa, che erano 650 all'inizio del 2003, sono oggi 710, ma gli enti locali prevalgono di gran lunga come unici proprietari (73%) o come azionisti di maggioranza (23,6%), mentre solo una piccola percentuale (3,4%) ha optato per una quota minoritaria. E l'identificazione fra Comuni e aziende dei servizi pubblici fa da barriera alle aggregazioni: "La frammentazione degli operatori italiani è la più elevata in Europa - commenta Brunetta - e se non ci sbrighiamo a privatizzare fra di noi, arriverà qualcun altro di dimensioni ben più consistenti che lo farà a nostre spese".
Fra le norme che Brunetta vuole ribaltare c'è anche il famigerato provvedimento, inserito nella finanziaria dell'anno scorso, che consente alle società pubbliche l'affidamento degli appalti senza gara. Sullo stesso punto batte anche Pier Luigi Bersani: “Prima di privatizzare bisogna liberalizzare, correggendo le norme illiberali che favoriscono le aziende pubbliche invece di stimolare la concorrenza. Prima viene la liberalizzazione, che spinge alla crescita e alle aggregazioni, poi la privatizzazione. Altrimenti si finisce per privatizzare i monopoli”. Secondo Bersani, il processo di liberalizzazione e privatixzzazione avviato con la riforma del mercato elettrico che porta il suo nome, “sta andando indietro, non avanti”.
In effetti il processo di aggregazione delle utilities italiane, per ammissione di tutti gli attori interessati, fa fatica a scaricare la pesante zavorra del campanilismo e dei contrasti ideologici. Dopo l'aggregazione di Hera nel 2002 e la fusione fra Acegas (Trieste) e Aps (Padova) nel 2003, nel settore c'è sempre molto movimento, ma di accordi nero su bianco se ne vedono pochi. Comincia appena a prendere forma il maxi-polo delle utilities lombarde, promosso dal governatore Roberto Formigoni: le 21 aziende coinvolte nel progetto-pilota costituirebbero da sole il quarto operatore nazionale nel gas, il terzo nell'energia elettrica e il primo nel settore idrico e nell'igiene urbana. Per ora il modello Formigoni punta a una holding leggera e non coinvolge operatori nazionali come Edison, che invece rientrerebbe nella vecchia idea del “polo elettrico” alternativo a Enel con Aem Milano e Asm Brescia, su cui sta lavorando anche Mediobanca. Sul progetto, caldeggiato dal presidente della commissione Attività Produttive della Camera Bruno Tabacci, pesa però l'incognita Edf, che in primavera potrebbe diventare la padrona assoluta del secondo operatore elettrico italiano. E nel frattempo su Edison ha messo gli occhi anche il gruppo Endesa, il gigante spagnolo dell'energia - già alleato ad Asm Brescia nella conquista di Elettrogen - che considera l'Italia il suo principale mercato d'espansione. Mentre gli ex-monopolisti europei si danno da fare, sulla via Emilia la trattativa fra Meta (Modena) e le utilities di Piacenza, Parma e Reggio Emilia, sembrerebbe naufragata. E l'alternativa dell'alleanza con Hera ancora distante. Nel Nord-Est, la voglia di Nes (che doveva raccogliere otto municipalizzate partecipate da oltre 130 Comuni veneti e friulani) sta incontrando parecchie resistenze. Il tandem fra Vesta e Iris - le utilities di Venezia e Gorizia, forze trainanti del progetto - si scontra con le aspirazioni di crescita di Acegas-Aps, rivolte sia verso il Friuli che verso il Veneto. Dai friulani di Cafc, una pedina importante nel gioco di Nes, agli udinesi di Amga, dai veronesi di Agsm a Asco-Piave, le alleanze restano così in bilico. Continua invece il processo di avvicinamento fra l'Aem di Torino e l'Amga di Genova e sembrerebbe in dirittura d'arrivo il matrimonio fra Asm (Brescia) e Bas (Bergamo). Ma non è mai detta l'ultima parola. Bas sembrava già convolata a giuste nozze con l'Acsm di Como, quando un ribaltone politico ha rimesso tutto in discussione. E da qui emerge la debolezza di fondo di queste alleanze: finché si tratterà di imparentamenti basati sulle affinità elettive dei sindaci di questo o quel colore e non sulle logiche industriali, sarà difficile approdare a risultati seri e duraturi.
15 ottobre 2004
La via lituana alla liberalizzazione
E-government: fino a due anni fa in Lituania era una parola quasi sconosciuta. Ma con l'avvicinamento del piccolo Paese baltico all'Unione europea, sfociato in maggio nell'adesione, l'interesse per l'argomento cresce rapidamente. La penetrazione di Internet nelle case è aumentata del 15% nell'ultimo anno, riguadagnando il terreno perduto ai tempi della dominazione sovietica. La spinta commerciale ha causato una crescente diffusione dei computer nelle famiglie e un forte investimento del settore pubblico sui livelli formativi della popolazione sta facendo il resto. Ha trovato quindi terreno fertile lo sforzo italiano di portare a Vilnius un po' di e-government.
Nell'ambito del processo di adeguamento agli standard europei, infatti, il ministero italiano dell'Economia si è fatto carico di sostenere l'Authority lituana dell'energia nello sviluppo e l'articolazione delle attività regolatorie, comprese le necessità di comunicazione con i cittadini e le imprese locali. Il progetto, durato due anni, rientra nel concetto di "gemellaggio amministrativo", uno strumento di assistenza a favore dei nuovi Paesi membri e dei candidati all'adesione che si è rivelato fondamentale per il rafforzamento delle istituzioni locali, ma anche dei rapporti fra i nuovi aderenti e il nucleo originale dei Quindici. Negli ultimi tre anni, amministrazioni ed enti italiani hanno realizzato 46 progetti di gemellaggio. I progetti nascono da richieste del Paese beneficiario interessato ad accrescere le proprie capacità istituzionali in un determinato settore: sulla base di queste richieste ogni Paese membro può elaborare una proposta. Alla "gara" per l'Authority lituana dell'energia hanno partecipato anche i tedeschi e i danesi: "Ma gli italiani - spiega Vidmantas Jankauskas, presidente dell'Autorità - sono quelli che ci hanno fatto l'impressione migliore". Così per due anni una piccola truppa di 54 esperti italiani in otto diversi ambiti si sono trasformati in pendolari, passando circa una settimana al mese a Vilnius sotto la guida di Francesca Davoli, delegata dal ministero a coordinare la missione in loco.
La presenza italiana ha avuto notevoli ricadute sul quadro istituzionale, il sistema tariffario, i controlli di qualità, la riduzione delle controversie, le relazioni internazionali e i sistemi informatici dell'Authority lituana. Ma fra i risultati più interessanti saltano all'occhio quelli ottenuti nell'ambito della comunicazione. "Per un Paese uscito di recente da cinquant'anni di dittatura, la trasparenza nei rapporti istituzionali è un obiettivo particolarmente difficile da capire e da raggiungere", commenta Daniele Comboni, docente allo Iulm ed esperto di comunicazione d'impresa, che ha curato quest'area insieme ad Alessandro Papini, ricercatore allo Iulm ed esperto di e-government. "All'inizio c'è stata un po' di resistenza - precisa Papini - ma col tempo le acque si sono calmate e quando siamo arrivati all'inaugurazione del sito dell'Authority erano tutti entusiasti". La reticenza dello spirito nordico ha ceduto all'espansività mediterranea. Il risultato è un sito costruito sulla base dei più moderni standard di e-government, in cui cittadini e imprese possono trovare ogni tipo di informazioni sull'Authority, le tariffe, i contratti di licenza, gli atti legali, possono scaricare documenti e possono aprire un dialogo interattivo con gli esperti. "Quando sono arrivati i primi quesiti - ricorda Papini - c'è stato un attimo di sbandamento. Poi abbiamo messo in piedi una procedura standard, in cui ogni domanda dev'essere evasa entro cinque giorni: chi la riceve deve girarla al funzionario più competente in materia, che poi la restituisce all'area comunicazione, dove si controlla che la risposta sia comprensibile anche a un cittadino comune e la si mette in rete".Ora che il dialogo con la gente è avviato, starà alle autorità lituane mantenerlo vivo.
14 ottobre 2004
Liberalizzazione, indietro tutta
Liberalizzazione, indietro tutta. Stretto fra l'incudine del caro-greggio e il martello della scarsa competizione, il mercato libero dell'energia muore stritolato. E il ministero dell'Economia, che con una mano mette in vendita da oggi la terza tranche di Enel, con l'altra si assicura la pace sociale rimandando di un trimestre i rincari sulle tariffe per le famiglie. Ma intanto la bolletta elettrica sta diventando una questione di vita o di morte per migliaia di italiani. Nel Sulcis, milleduecento buste paga sono appese da mesi al filo del costo dell'energia: la più importante azienda italiana trasformatrice di piombo e di zinco, la Portovesme, fatica a star dietro alla concorrenza mondiale con una bolletta elettrica doppia rispetto ai rivali spagnoli e quasi tripla di quelli tedeschi. Gli utenti domestici, invece, pagano tariffe ragionevolmente vicine alla media europea, che privilegiano i consumi molto bassi - come quelli dei single che mandano le camicie in lavanderia - e penalizzano le famiglie numerose. Uno strabismo tariffario che alla lunga non conviene né agli uni né agli altri. Già oggi, tra gli utenti che hanno scelto il mercato libero serpeggia l'inquietudine e qualcuno confessa la tentazione di tornare al mercato vincolato. Se questo accadesse, la liberalizzazione italiana sarebbe fallita. E le conseguenze, dalla fuga degli investimenti alla perdita di competitività, ricadrebbero su tutto il Paese, famiglie comprese.
"Per ora riusciamo a reggere perché l'acciaio vende bene - commenta Antonio Gozzi, a.d. del gruppo Duferco e presidente dell'Associazione italiana elettrosiderurgici - ma sui contratti per l'anno prossimo, in discussione in questi giorni, si profilano aumenti del 20%, che si assommeranno ai rincari del 10% sofferti quest'anno. Considerando che la bolletta elettrica rappresenta il 25-30% dei nostri costi produttivi, non c'è da stupirsi se la siderurgia italiana, seconda in Europa dopo quella tedesca, abbandona il campo per produrre sempre di più all'estero, con conseguente perdita di posti di lavoro". Analogo grido di dolore viene dalle piccole e medie imprese: non divorano energia come l'industria siderurgica, ma la bolletta la pagano anche loro. E non fanno mistero di considerarla una delle ragioni principali per cui la delocalizzazione conviene. I grossisti, che hanno appena ricevuto le offerte di Enel per il 2005, si torcono le mani: dai 52 euro a megawattora di quest'anno, l'ex monopolista è passato a chiederne 62 per l'anno prossimo, il 16% abbondante in più. Carlo Tortato, presidente del Consorzio Unindustria Multiutilities, che acquista altrove l'energia per le imprese della provincia di Treviso, prevede "almeno una stangata del 10-12%". E' fra i più fortunati.
Risultato: tutti gli svantaggi si accumulano su chi ha scelto la strada del mercato libero, già un'infima minoranza di 20-25mila utenti consumatori rispetto alla grande platea del mercato libero potenziale, da luglio arrivato teoricamente alla soglia di 7 milioni. Mentre gli utenti vincolati per ora si salvano sotto l'ala protettrice dell'Authority. Ma non per molto. Con l'attuale mix italiano di combustibili - frutto di gravi errori strategici compiuti al tempo del monopolio - ogni dollaro in più sul barile di greggio fa aumentare il costo di generazione di un euro, producendo con un aggravio di almeno il 2% sui prezzi lordi del megawattora, quasi il doppio rispetto al Regno Unito, due volte e mezzo la Spagna, oltre sei volte la Germania, oltre 12 volte la Francia nuclearista. E allora com'è possibile che in un'annata in cui il greggio prezzo del petrolio è aumentato del 40%, il prezzo amministrato dell'energia sia sceso dello 0,4%? Com'è possibile che nell'ultimo trimestre dell'anno l'Authority di Alessandro Ortis abbia alzato le tariffe solo dello 0,7%, quando tutti gli operatori si attendevano rincari ben più salati? "E' un miracolo - ha detto il ministro delle Attività produttive Antonio Marzano" - contenere le bollette in questo limite, molto al di sotto del tasso d'inflazione".
Il miracolo di cui parla Marzano ha un nome e un cognome: si chiama Nando Pasquali, presidente e a.d. dell'Acquirente Unico, la società creata dal Grtn che da qualche mese è subentrata a Enel per garantire le forniture del mercato vincolato. Il contenimento delle tariffe per il mercato vincolato dipende dalle operazioni di trading su energia Cip6 attuate da Pasquali nel primo trimestre dell'anno e dall'assegnazione diretta della convenientissima energia francese disponibile su base giornaliera, che prima veniva messa correttamente all'asta fra tutti gli operatori. In questo modo, al momento di stabilire le tariffe per il trimestre in corso, il responsabile degli acquisti per il mercato vincolato si è trovato in tasca - toh! - ben 84,7 milioni di euro, che ha buttato zitto zitto sulla bilancia per contenere i rialzi. Operazione una tantum del tutto legittima, ma molto poco pubblicizzata.
Il che ci rimanda all'antico dirigismo energetico - quando il governo tamponava l'emergenza prendendo dall'uno per trasferire all'altro senza dare spiegazioni - incompatibile con le regole di trasparenza e con l'esigenza di certezze del mercato libero. "Per consentire agli operatori di fare le valutazioni necessarie alla stipula dei contratti 2005 e al buon funzionamento del mercato libero, è essenziale che le informazioni 'sensibili', come le assegnazioni asimmetriche di energia Cip6 o d'importazione, ma anche il quadro tariffario che l'Authority ha in mente, siano rese tempestivamente disponibili al mercato", ammonisce Antonio Urbano di Dynameeting, grossista indipendente. Resta da chiedersi che cosa succederà l'anno prossimo alle bollette delle famiglie, dopo questa provvidenziale abbondanza di mezzi, scoperta con sei mesi di ritardo proprio al momento giusto. C'è chi prevede rincari del 10-15%. “E' presto per fare previsioni”, risponde lapidario Alessandro Ortis.
6 ottobre 2004
Operazione verità sul Cip6
Con il caro energia eletto a emergenza nazionale, la corsa a tagliare i sussidi inutili, che poi pesano sulla bolletta, diventa prioritaria. Da qui il voto unanime della commissione Attività produttive della Camera a favore di un emendamento alla legge comunitaria - ormai in dirittura d'arrivo - per cancellare ogni agevolazione alla produzione elettrica che, pur non derivando da fonti rinnovabili, è stata “assimilata” a queste fonti verdi da una famigerata delibera del Comitato interministeriale prezzi, varata nel lontano 1992, la cosiddetta Cip6. Gli oneri derivanti dagli incentivi all'energia “Cip6” pesano sulle bollette degli italiani per oltre due miliardi di euro all'anno e sussidiano per la maggior parte fonti molto poco ecologiche, come i residui della raffinazione e di altri processi industriali. Risultato: le fonti veramente rinnovabili ricevono solo una minima parte dei fondi a loro destinati (oggi non più del 20% degli incentivi Cip6), contribuendo per un magro 4% alla produzione elettrica italiana complessiva, mentre le “assimilate” (spesso altamente inquinanti) arrivano al 15%. Domanda: “Se è vero che in base alle direttive europee l'Italia dovrà arrivare entro il 2012 a produrre oltre il 20% della sua energia da fonti rinnovabili, che cosa faremo quando si scoprirà il trucco?”, si chiede il diessino Erminio Quartiani, primo firmatario dell'emendamento. Risposta: “Forse faremmo meglio a fermare questa truffa il prima possibile e a usare i due miliardi all'anno risparmiati per sostenere le vere rinnovabili, oltre che per alleggerire le bollette degli italiani”, rileva Quartiani.
I contratti Cip6, che dal '92 a oggi sono costati alle famiglie italiane circa venti miliardi di euro, furono avviati per incentivare le fonti rinnovabili, ma anche per promuovere una produzione di energia alternativa al monopolio allora vigente, nel primo tentativo di liberalizzazione di un mercato completamente dominato da Enel. Ma in questo modo si creò una situazione di mercato assistito: l'elettricità Cip6 è acquistata dal Gestore della rete a un prezzo molto più alto (0,9 euro a chilowattora) di quello corrente ed è rivenduta ai consumatori liberi tramite aste, in cui la base d'asta è molto più bassa del prezzo di acquisto (0,5 euro a chilowattora). In pratica, si tratta di un sussidio ai grandi consumatori. Le utenze vincolate, cioè le famiglie, oltre a pagare l'incentivo ai produttori di energia "verde" (la differenza fra energia Cip6 e prezzo corrente) attraverso una voce della bolletta, reintegrano anche il sussidio ai grandi consumatori, che spesso sono gli stessi produttori originari. Nel 2003, i beneficiari dell'incentivo per la produzione di energia da fonti "assimilate" sono stati Edison (41,2%), Sarlux (10,8%), Erg (10,2%), Acea (6,3%), Foster Wheeler (5,1%), Enipower (4,3%) e Apienergia (3,4%).Ma l'"operazione verità", sollecitata a lungo dal presidente della commissione Attività produttive Bruno Tabacci, non può essere portata a termine immediatamente: "Bisogna attendere che i contratti Cip6 scadano", spiega Quartiani. Questione di pochi mesi per alcuni, di qualche anno per altri. Entro il 2008-2009 la "truffa legalizzata" del Cip6 - com'è stata definita da Tabacci - potrebbe essere eliminata e le bollette degli italiani parecchio alleggerite. Basterebbe infatti trasferire soltanto una modesta parte di questi incentivi alle energie effettivamente "verdi" per raggiungere risultati strabilianti, che metterebbero l'Italia sulla buona strada per raggiungere l'obiettivo fissato da Bruxelles. Secondo i calcoli di Legambiente, sui due miliardi di euro all'anno attualmente sborsati dalle famiglie italiane per il Cip6, basterebbe destinarne 70 milioni all'energia fotovoltaica per centrare l'obiettivo di 300 MW installati nel 2012, contro i 26 attuali. In questo modo si potrebbe finanziare il famoso incentivo "in conto energia" per i pannelli fotovoltaici, varato l'anno scorso con un decreto del Consiglio dei ministri e mai tradotto in pratica. Con il decreto, che doveva essere finanziato entro il giugno scorso, si modifica l'attuale meccanismo d'incentivazione dei pannelli fotovoltaici seguendo il modello della Germania, leader europeo con 400 MW di potenza installata. I tedeschi hanno introdotto da qualche anno il "contatore che torna indietro": chi installa i pannelli sul tetto, quando immette nella rete elettrica l'elettricità che produce, riceve un incentivo congruo al chilowattora. A differenza del contributo all'acquisto dell'impianto attualmente vigente - una tantum legata ai tempi e alla disponibilità della burocrazia - questo meccanismo incentiva la scelta di pannelli più efficienti e spinge alla loro manutenzione per non perdere chilowattora di produzione. In sostanza, com'è successo in Germania, spinge allo sviluppo di un vero e proprio business sull'energia solare, che l'attuale meccanismo d'incentivazione dei "Tetti Fotovoltaici" in Italia non è riuscito a creare: gli impianti installati con i finanziamenti pubblici non sono andati oltre i 4-5 MW complessivi. Per un Paese dove l'impiego del solare potrebbe coprire il 90% del consumo elettrico residenziale nelle città del Centro-Sud, è lecito parlare di fallimento.
29 settembre 2004
Il nucleare italiano passa per l'Europa
La via italiana al nucleare passa per l'Europa.
Con il via libera concesso dalla riforma Marzano, le aziende italiane possono ora gestire e produrre energia nucleare all'estero, riallacciando così quel filo spezzato dal referendum dell'87, che ha portato l'Italia a uscire da un settore dov'era all'avanguardia e alla nota inadeguatezza del sistema di generazione elettrica nazionale. Certo sarà impossibile ritornare nella situazione degli anni Cinquanta e Sessanta, quando l'Italia era il terzo produttore mondiale di energia atomica dietro agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna. Ma i progetti sono molti: dall'ingresso di Enel nelle attività nucleari del colosso francese Edf alle acquisizioni in Est Europa (dove sta per assumere il controllo dei due reattori di Slovenske Elektrarne), dalla partecipazione di Ansaldo Energia nella costruzione dei tre reattori di Cernavoda in Romania all'appalto per l'assistenza tecnica nella centrale della penisola di Kola, vinto pochi giorni fa dalla Sogin insieme alla spagnola Iberdrola. "In un mercato unico dell'energia come sarà presto quello europeo - spiega Sergio Garribba, direttore generale responsabile per l'energia del ministero delle Attività Produttive - non è più molto importante su quale territorio sono situate le centrali nucleari che verranno gestite da imprese italiane. L'importante è riprendere in mano l'argomento in tempi brevi, in modo da non restare completamente tagliati fuori dalle decisioni comunitarie".
Di nucleare, infatti, si sta riprendendo a parlare in tutto il mondo, Europa compresa. Loyola de Palacio, vicepresidente e commissaria all'Energia, sostiene da tempo che il nucleare è l'unica via per contenere i prezzi e tutelare la sicurezza dell'approvvigionamento: "Cinque anni fa nessuno ne parlava, ma oggi il dibattito sull'energia nucleare è sul tavolo... L'Europa è destinata ad aumentare i suoi consumi di energia, specialmente di elettricità, e al momento attuale non ci sono fonti alternative cui ricorrere per coprire questo fabbisogno". L'aumento del prezzo del petrolio, che sembrerebbe strutturale, e l'instabilità politica dei Paesi produttori, insieme alle esigenze ambientali di limitare la combustione di idrocarburi sollevate dal protocollo di Kyoto, che escluderebbero un ritorno massiccio al carbone, ci spingono inevitabilmente verso l'energia atomica, malgrado gli incidenti di percorso, che hanno profondamente eroso il supporto dell'opinione pubblica occidentale a questa fonte di energia generata dalla mente di Enrico Fermi. Ecco perché prima della scadenza del suo mandato, alla fine di ottobre, la commissaria spagnola si è prefissa di arrivare all'approvazione della legislazione comunitaria sulla sicurezza degli impianti nucleari e sulla gestione delle scorie, a suo parere premessa indispensabile per lo sviluppo del nucleare in Europa: la versione riveduta e corretta del trattato Euratom, uno dei punti di riferimento cardinali dell'Unione, è in dirittura d'arrivo.
Il ritorno d'interesse per l'energia atomica parte dagli Stati Uniti, dove l'ultima delle 103 centrali attive è entrata in funzione nel '96. L'amministrazione Bush ha avviato un nuovo programma nucleare e ha spinto la Nuclear Regulatory Commission ad alleggerire il pesantissimo regime di permessi introdotto dopo l'incidente del '79 a Three Mile Island: il primo impianto di ultima generazione dovrebbe entrare in funzione nel 2010. Ma anche il resto del mondo si muove. In luglio, al congresso mondiale dell'Aiea a Obninsk, vicino a Mosca, la Russia ha annunciato di voler triplicare la produzione di energia nucleare nel giro di cinque anni. In Cina si stanno costruendo 2 reattori, in India 8, in Sud Corea 6, in Giappone 2, a Taiwan 2, in Sud Africa 1.
E l'Europa non è da meno. Nel Regno Unito (con 27 centrali il Paese più "nuclearizzato" d'Europa dopo la Francia e la Lituania) Tony Blair ha espresso in luglio, davanti alla commissione parlamentare competente, l'intenzione di avviare un nuovo programma nucleare per rimpiazzare i reattori che diventeranno obsoleti da qui al 2020. La Francia (che soddisfa con l'atomo il 75% del suo fabbisogno energetico) ha deciso di prolungare di altri vent'anni la vita delle proprie centrali e comunque progetta la costruzione in Normandia di un reattore di ultima generazione in consorzio con la Germania per fornire a Edf una tecnologia nuova quando dovrà rimpiazzare le prime centrali nel 2015. La joint-venture Framatome-Siemens, intanto, sta già costruendo un European Pressurized Water Reactor (Epr) da 1.600 MW a Olkiluoto, in Finlandia: un progetto da 3 miliardi di euro. In Germania, dove il governo Schroeder ha accettato sotto pressione degli alleati Verdi l'uscita dal nucleare entro il 2021, i leader cristiano democratico Angela Merkel e cristiano sociale Edmund Stoiber hanno messo in chiaro l'intenzione di fare marcia indietro, in caso vincessero le elezioni. Perfino in Svezia, uno dei primi Paesi a optare per una moratoria nucleare nell'80, quando decise di chiudere tutti i reattori entro il 2010, l'opinione pubblica sta tornando indietro: un recente sondaggio dell'università di Goteborg ha scoperto che solo l'11% degli svedesi concorda ancora con la decisione presa nell'80, mentre il 46% vorrebbe mantenere in vita gli 11 reattori attivi e il 15% addirittura costruirne degli altri.
Ma il nucleare di cui si parla oggi non è più lo stesso di una volta. Dai tempi in cui sono entrate in servizio la prime centrali nucleari utilizzate a scopi commerciali, come quella inglese di Calder Hall nel '56 - o quella di Latina nel '63, di Garigliano nel '64 e di Trino Vercellese nel '65 - la tecnologia si è notevolmente evoluta. Quasi tutti i reattori di prima generazione, costruiti poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, sono stati già chiusi e la maggior parte di quelli ancora in funzione - detti di seconda generazione - risale alla fine degli anni Sessanta. In questo tipo di reattori si utilizza l'acqua come mezzo principale di raffreddamento, il che comporta una quantità di valvole, sensori, pompe e circuiti di grande complessità per rispettare le norme di sicurezza. "Ora l'industria nucleare ha sviluppato dei reattori di terza generazione - spiega William Magwood, responsabile dei programmi nucleari al dipartimento dell'Energia di Washington - che dipendono meno da sistemi di sicurezza meccanici e molto di più da strutture basate sulla forza di gravità o sulla convezione termica naturale: questo li rende più semplici e più sicuri".I primi due reattori di terza generazione, costruiti da un consorzio nippo-americano (General Electric insieme a Hitachi e Toshiba), sono entrati in funzione nel '97 nella centrale giapponese di Kashiwazaki. Il più avanzato è l'AP1000 di Westinghouse, l'impianto più piccolo e semplice mai concepito finora, sul cui modello si stanno costruendo due reattori in Sud Corea, che entreranno in produzione nel 2010. Ma il futuro sta nelle mani della quarta generazione, a cui lavora da anni una partnership di dieci Paesi (inclusi la Francia, il Regno Unito, la Svizzera e il Giappone), guidata dagli Stati Uniti: i sei reattori studiati dal consorzio, che intende arrivare alla fase di realizzazione entro il 2015, opereranno ad altissime temperature (500-1000°), per ottenere la massima efficienza e ridurre al minimo la produzione di scorie, incapsulando le convenzionali pasticche di uranio in sfere delle dimensioni di palle da biliardo e sostituendo all'acqua elio o sale fuso nel circuito di raffreddamento. "L'Italia - precisa Garribba - per ora è esclusa dal gioco perché non ha centrali attive. Ma abbiamo chiesto di partecipare, almeno come osservatori".
27 settembre 2004
L'Ue spinge, l'America frena, la Russia rinvia
Chi si è trovato sull' itinerario dell' uragano Ivan lo sa: l' effetto serra fa male. Ma un milione di case distrutte dalla Florida alla Louisiana e centinaia di vittime sono solo il modesto bilancio di uno degli innumerevoli eventi catastrofici che una parte degli scienziati attribuisce al riscaldamento del clima. L' anno scorso ne sono stati contati oltre 700, fra cui gli uragani caraibici che non sono i peggiori. Che il mondo sia destinato a diventare un luogo sempre più caldo e dal clima sempre più imprevedibile, è un dato ormai assodato: secondo i meteorologi dell' Intergovernmental Panel on Climate Change, sponsorizzato dalle Nazioni Unite, l' aumento della temperatura potrebbe variare fra 1,4° e 5,8° entro il 2100, a seconda dello scenario di sviluppo, con conseguenze più o meno catastrofiche. La consistenza del riscaldamento dipenderà dalla concentrazione di anidride carbonica e degli altri gas serra nell' atmosfera: potrebbero variare da un minimo di 540 a un massimo di 970 parti per milione. Per 5 o 6 milioni di anni, cioè da quando l' uomo abita la Terra all' inizio del secolo scorso, la concentrazione media di anidride carbonica nell' atmosfera si è mantenuta attorno a 270 ppm. Solo negli ultimi cento anni, con la rivoluzione industriale, ha cominciato a salire, arrivando alle 378 ppm attuali. La Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici, approvata dalle Nazioni Unite il 9 maggio 1992, è la risposta pensata a livello internazionale per contrastare e ridurre al minimo gli effetti negativi di questo processo. La convenzione, ratificata da 178 Paesi, ha come obiettivo la stabilizzazione a livello planetario della concentrazione dei gas serra a 550 ppm entro il 2100. Il protocollo di Kyoto, firmato nel dicembre 1997, rappresenta lo strumento attuativo della convenzione e impegna i Paesi industrializzati a una riduzione delle emissioni di anidride carbonica del 5,2% rispetto ai valori del 1990. Un risultato minimo, ma considerato positivo perché crea la consapevolezza che sia venuto il momento di tirare il freno, creando incentivi agli investimenti in tecnologie pulite e meccanismi di mercato virtuosi. I Paesi soggetti a vincoli sono 39 e includono l' Europa, il Giappone, la Russia, gli Stati Uniti, il Canada, l' Australia e la Nuova Zelanda. Gli obiettivi specifici di riduzione delle emissioni, diversi per ogni Paese, sono stati quantificati per il periodo 2008-2012. Oltre il 2012, saranno negoziati nuovi obiettivi che potrebbero ampliare il numero dei Paesi vincolati. Il protocollo di Kyoto entrerà ufficialmente in vigore quando sarà ratificato da un numero di Paesi le cui emissioni totali, al 1990, rappresentino almeno il 55% di tutte quelle soggette a vincoli. In altri termini, il programma globale non può diventare obbligatorio senza l' adesione degli Usa o della Russia. Ma nel frattempo le interpretazioni di Washington e di Bruxelles si sono talmente divaricate, che nel 2001 gli Usa hanno deciso di non ratificarlo. Mosca invece ha più volte dichiarato di volerlo ratificare, senza mai arrivare al dunque. Nonostante la quota minima di adesioni non sia ancora stata raggiunta, l' Unione Europea, il Giappone e il Canada si sono decisi ad applicare comunque le restrizioni previste da Kyoto e di partire con un programma a tappe forzate già dall' inizio del 2005. Non bisogna dimenticare, infatti, che il protocollo prende come punto di riferimento il 1990, ma da allora a oggi le emissioni globali sono già aumentate del 10%. Attendere ancora significherebbe quindi sottoporsi a tagli più dolorosi in seguito. Bruxelles ha un obiettivo complessivo di riduzione dell' 8%, nell' ambito del quale l' Italia si è impegnata a un taglio del 6,5%, che ridurrebbe le nostre emissioni annuali a 487 tonnellate metriche di anidride carbonica. In pratica, però, considerando la crescita delle emissioni avvenuta nel frattempo, lo sforzo reale richiesto al nostro Paese è del 16% circa. In termini assoluti ciò equivale a una riduzione di circa 93 milioni di tonnellate di anidride carbonica, sulle 580 previste per il 2010 (oggi siamo a 550), mantenendo i ritmi di crescita attuali. Il programma complessivo per raggiungere quest' obiettivo è già stato delineato dal governo, con un costo netto stimato fra i 120 e i 300 milioni di euro all' anno per otto anni, ma l' Italia è arrivata in ritardo nella consegna a Bruxelles del piano nazionale di assegnazione delle quote di emissione ai singoli impianti del settore energetico e industriale - inoltrato in luglio invece che in marzo come previsto dalla direttiva europea dell' ottobre 2003 - per cui la Commissione ha aperto una procedura d' infrazione nei nostri confronti (insieme alla Grecia). Inoltre è già chiaro che il piano italiano, tutto incentrato sulla flessibilità per difendere l' autonomia del nostro sistema industriale, non potrà essere approvato dalla Commissione così com' è. Il negoziatore italiano Corrado Clini (vedi l' articolo sotto), del ministero dell' Ambiente, ha avviato da qualche giorno la fase cruciale delle trattative con Claus Sorensen, il direttore generale alle dipendenze della severa commissaria svedese, Margot Wallstroem. Ma in realtà Roma non fa mistero di sperare in un atteggiamento più morbido da parte del prossimo commissario all' Ambiente, il greco Stavros Dimas (la Wallstroem resta in Commissione, ma è stata promossa a vicepresidente e sarà responsabile delle relazioni istituzionali). Al momento attuale sono otto i piani già approvati dalla Commissione: Irlanda, Olanda, Danimarca, Svezia, Slovenia, più Germania, Austria e Regno Unito passati con riserva. Sugli altri 14 presentati (compreso quello italiano) la Commissione non si è ancora pronunciata. In complesso, sono oltre cinquemila gli impianti europei già ammessi al trading delle emissioni, su un totale di circa dodicimila complessivi. La Borsa europea delle emissioni, la cui partenza ufficiale è fissata al 1° gennaio 2005 (quella mondiale all' inizio del 2008, ma in realtà un vivace «mercato dei fumi» esiste già tra Chicago, Londra e New York), è stata appunto pensata per ridurre le emissioni di anidride carbonica senza strozzare le imprese. Posto il suo tetto massimo di emissioni, un' azienda si troverà di fronte a due possibilità: adottare misure di risparmio energetico tali da rientrare nei limiti previsti, oppure acquistare alla Borsa dei fumi crediti di emissioni da un' azienda che si trova a disporre di quote in eccedenza. Gli inglesi lo chiamano cap and trade, ovvero fissare una soglia e commerciare al suo interno. «L' idea - spiega Pierfrancesco Federici, responsabile della pratica ambientale dello studio legale Baker & McKenzie - è di stimolare le imprese ad assumere un comportamento virtuoso attraverso la pressione del mercato piuttosto che con i divieti. Il sistema di emissions trading originato da Kyoto sta mettendo in moto una molla economica con cui dovremo inevitabilmente fare i conti».
26 settembre 2004
Cinema, dal maxischermo al cellulare
Se sui telefonini si possono riversare le immagini erotiche della fidanzata lontana o le mappe in 3D del navigatore Gps, perché non i cartoni animati di Topolino o di Nemo? E' quello che stanno pensando le multinazionali americane dell'entertainment, come Time Warner o Walt Disney, che cercano d'inserirsi nel grande mercato della telefonia mobile passando dalla finestra dei contenuti. Ed è quello che pensa Victoria Weston, fondatrice della casa di produzione indipendente Zoie Films, che ha appena lanciato il primo festival del cinema su cellulare del mondo.
Mano a mano che la velocità di trasmissione aumenta, la qualità dei contenuti, offerti dai vari operatori mobili, diventa più importante. Il mercato della telefonia cellulare rischia così di diventare la nuova frontiera di scontro fra le società che offrono servizi via cavo e le compagnie telefoniche. Negli Stati Uniti, i due rivali Time Warner e Cox Communications hanno deciso di aggiungere i servizi wireless nelle loro offerte a pacchetto, che includono servizi di telefonia fissa, di Internet veloce e tv via cavo. Don Logan, il capo di Time Warner Cable, ha recentemente dichiarato la sua intenzione di arrivarci entro l'anno, sollevando non poca agitazione tra i sei operatori mobili che si spartiscono la torta mobile nordamericana. C'è invece chi preferisce la strada di fornire i propri contenuti agli operatori mobili già esistenti. Disney, ad esempio, ne sta parlando con Sprint, che però ha già un fornitore eccellente: il gruppo Virgin, del miliardario britannico Richard Branson, che ha una sua etichetta discografica e una catena di megastore musicali molto conosciuti. Virgin Mobile sta attirando una vasta audience, soprattutto fra i giovani nordamericani, con l'offerta sui cellulari di servizi musicali targati Virgin o Mtv via Sprint.
Usando tattiche analoghe, il gruppo Disney potrebbe rivolgersi agli appassionati di sport, trasmettendo sui cellulari i contenuti del principale network di tv sportive degli Stati Uniti, Espn, oppure ai bambini, passando dai cartoni animati. Da qui a mettere il proprio marchio su un telefonino, che potrebbe essere offerto ai piccoli clienti con un menu incorporato di video adatti alla loro giovane età, il passo è breve. Si può star certi che le famiglie americane preferiranno delimitare chiaramente l'accesso dei propri figli ai servizi video offerti dagli operatori mobili. E cosa c'è di più sicuro di Topolino? Disney sta realizzando un modello di questo tipo in Giappone, dove ha cominciato a vendere i suoi contenuti in partnership con NTT DoCoMo già dal lontano 2000. Ma la battaglia della telefonia mobile negli Stati Uniti sarà molto più sanguinosa.
Anche Fox si è avviata sulla strada degli accordi con gli operatori mobili, quando ha chiesto ai suoi abbonati di votare via cellulare per il concorso alla base di American Idol. Ma per ora il network televisivo di Rupert Murdoch non ha ancora una partnership definitiva e non sembra avere fretta di entrare nell'arena. Il segreto, secondo gli esperti del mercato americano, sarà di offrire un servizio molto focalizzato a un target molto preciso, come già accade nel mondo della tv via cavo. Ma non è escluso che prima o poi il telefonino diventi addirittura un veicolo per trasmettere dei veri e propri film.
Sarà difficile che l'aggeggio tanto amato dagli italiani mostri in tempi brevi epopee della portata di "Via col vento", ma Victoria Weston - una pasionaria della cinematografia digitale indipendente e dei festival online - è convinta che anche su uno o due pollici si possa lavorare di fantasia. "L'importante è tenere bene a mente il tipo di audience e le dimensioni dello schermo con cui si ha a che fare: il ritmo dev'essere rapido e le inquadrature molto ravvicinate", commenta Weston. Meglio evitare storie complicate o elaborate scene di guerra: un pesciolino che sfreccia in un acquario stile Pixar o un'animazione da videogioco vanno benissimo.
"Se si può seguire un videogioco su quella macchinetta, si potrà anche seguire un breve filmato", sostiene Weston. Certo è che il festival, di cui sono già aperte le iscrizioni, porterà i creativi a cimentarsi su un nuovo territorio, ancora del tutto inesplorato. I clip, da inoltrare entro la fine d'ottobre, non possono superare la durata di cinque minuti, ma Weston incoraggia i mini-registi a sbizzarrirsi componendo serie da cellular-soap o da cellular-sitcom su diverse puntate, da un minimo di 8 a un massimo di 13. La società di Atlanta si attende un centinaio di proposte (www.zoiefilms.com/cellularcinema), da cui verranno selezionate le più sofisticate. Il festival comincia all'inizio di dicembre e il vincitore sarà premiato con un viaggio di una settimana nei mari del Sud, ma soprattutto con la soddisfazione di salire su un podio da pioniere assoluto.
21 settembre 2004
Kyoto ama l'ambiente ma fa soffrire il Pil
Kyoto ama l'ambiente, ma fa soffrire il Pil. Le stime del suo impatto sui prezzi dell'energia e sulla crescita economica si sprecano. Secondo uno degli studi più recenti (condotto dalla società di analisi Global Insight per l'International Council for Capital Formation, noto think tank d'impostazione liberista basato a Bruxelles), la riduzione delle emissioni del 6,5% imposta dal protocollo potrebbe decurtare di mezzo punto percentuale il Pil italiano da qui al 2010 e di quasi 2 punti da qui al 2020. La stessa commissaria europea all'Energia e ai Trasporti, Loyola De Palacio, ha ammesso che "l'Italia ha un problema, se vuole mantenere la sua crescita e nel contempo rispettare gli impegni di Kyoto: già oggi deve importare parte dell'energia che usa". Secondo la commissaria le uniche due strade percorribili sono "le fonti rinnovabili o il nucleare". La De Palacio, com'è noto, propende per il nucleare. O meglio, considera l'opzione nucleare l'unica alternativa ai combustibili fossili fruibile nell'immediato. E non è l'unica: Tony Blair ha appena manifestato l'intenzione di ampliare il parco nucleare britannico (secondo in Europa solo a quello francese), proprio per rispettare i parametri di Kyoto senza rinunciare alla crescita.
Ma l'Italia non può premere sul pedale del nucleare e quindi si trova di fronte a un dilemma: come ridurre le emissioni di anidride carbonica senza danneggiare l'economia? Un dilemma valido per tutti i Paesi industrializzati, ma particolarmente acuto nel contesto italiano, caratterizzato da una dipendenza dal petrolio molto più marcata e da un grave deficit di generazione elettrica, che già oggi causa bollette più alte del 20% rispetto alla media europea. Ecco perché Roma sta trascinando i piedi sul piano di allocazione nazionale delle quote di emissione, l'elemento fondamentale su cui si baserà l'applicazione in Europa del protocollo di Kyoto. "Se non ci si metterà d'accordo entro ottobre - commenta il direttore generale del ministero dell'Ambiente Corrado Clini, negoziatore italiano a Bruxelles - si potrebbe anche arrivare a una rottura e tutta la materia potrebbe tornare all'esame del Parlamento europeo".
Non è la prima volta che Clini punta i piedi su Kyoto: nel maggio 2001, quando l'Unione Europea si apprestava a decidere l'applicazione unilaterale del protocollo e il governo Amato stava per passare la mano al governo Berlusconi, l'artefice della diplomazia ambientale italiana causò un mezzo incidente diplomatico, formalizzando a Bruxelles le riserve italiane - in netto contrasto con la posizione del ministro in carica Willer Bordon - e allineandosi in pieno con il programma elettorale della CdL, che definiva "devastanti per l’economia e l’occupazione" gli accordi di Kyoto. La stessa visione del governo Bush, contrario alla ratifica del protocollo firmato da Clinton nel '97. Ma subito prima di cedere la sua poltrona ad Altero Matteoli, Bordon diede la piena adesione dell’Italia al documento predisposto dall’Ue, con cui si sanciva la volontà dell’Unione di procedere unilateralmente all'applicazione di Kyoto. E infatti il protocollo è stato ratificato da tutti i Paesi europei entro il 2002 e nel 2003 è passata la direttiva sull'Emissions Trading, da cui discendono i piani nazionali di allocazione dei permessi di emissione. Oggi il ministero italiano dell'Ambiente ha una posizione formalmente diversa: "Non pensiamo di mettere in discussione - spiega Clini - l'obbligo dell'Italia di tagliare il 6,5% delle emissioni di anidride carbonica rispetto allo status quo del '90, come vuole Kyoto". Ma Roma ha sempre mantenuto le sue riserve, coalizzandosi con la Spagna e la Finlandia per tirare il freno sull'applicazione unilaterale del protocollo.
A questo punto, l'Italia spera nell'avvicendamento ai vertici dell'Unione per evitare l'obbligo di applicare i tetti rigidi richiesti dalla direttiva sull'Emissions Trading, come risulta chiaro anche dal piano di allocazione delle quote che Clini ha presentato in luglio a Bruxelles. "E' necessario - puntualizza Clini - che vengano riconosciute le diverse condizioni di partenza dell'Italia rispetto agli altri Paesi europei: da un lato abbiamo un sistema industriale che ha già raggiunto un'elevata efficienza energetica, dall'altro lato abbiamo un grave gap da colmare tra domanda e offerta di energia, che gli altri Paesi non hanno. Non possiamo pianificare il blackout elettrico del Paese". Sui possibili aumenti della bolletta elettrica legati a Kyoto si è appena pronunciata anche l'Autorità dell'energia, difendendo il piano italiano presentato a Bruxelles e minacciando rincari nell'ordine del 5% o più, se si seguisse "una mera interpretazione letterale della direttiva europea".
In pratica, l'Italia chiede all'Unione maggiore flessibilità: "Vogliamo evitare ad ogni costo che tutto si riduca a interventi unilaterali di sapore dirigistico". E non fa mistero di un certo scetticismo nei confronti del meccanismo su cui dovrebbe basarsi in mercato interno delle emissioni: "Posto un tetto di emissione - descrive Clini - ogni sito produttivo disciplinato dalla direttiva otterrà un certo numero di permessi, misurati in tonnellate metriche di anidride carbonica, che potranno essere scambiati con altri sotto forma di quote. I settori più coinvolti sono quello energetico, minerario, siderurgico, cartario, le raffinerie, i cementifici, le vetrerie, i prodotti ceramici e i laterizi. Se a fine anno un'azienda oltrepasserà il numero di permessi che le è stato assegnato, sarà passibile di sanzioni di 40 euro a tonnellata nel periodo 2005-2007 e di 100 euro dal 2008. Ma dove sono finiti i meccanismi di mercato?"Per di più Roma non vuole perdere di vista il contesto internazionale, anche per motivi economici: "Preferiamo puntare sui crediti derivanti da progetti realizzati in cooperazione con i Paesi dell'Europa orientale o con quelli in via di sviluppo - insiste Clini - dove i costi sono molto più contenuti. Il costo intereuropeo di una tonnellata di anidride carbonica varia dai 15 ai 40 dollari, mentre nei Paesi meno industrializzati si aggira sui 5 dollari. Abbiamo già aperto un fondo presso la Banca Mondiale, l'Italian Carbon Fund, fatto apposta per comprare crediti fuori dall'Europa. E abbiamo già chiarito a Bruxelles che il pieno recepimento in Italia della direttiva sull'Emissions Trading è fortemente legato all’approvazione della cosiddetta Linking Directive, che regolamenterà l’uso di questi crediti, favorendo il processo di internazionalizzazione delle imprese".
20 settembre 2004
Varese Ligure, campione di ecologia
Nella battaglia contro l'effetto serra, l'Italia ha già una schiera di vincitori: da Aosta a Siena, da Rimini a Jesolo, da Cavriago a Laigueglia, tutte amministrazioni locali che hanno ottenuto una certificazione ambientale riconosciuta a livello europeo, con cui si attesta il loro spiccato impegno sul fronte dello sviluppo sostenibile. Negli enti locali certificati, in tutto una quarantina di Comuni e Provincie, vivono un milione e mezzo di fortunati italiani, che si godono il talento dei propri amministratori nella raccolta differenziata dei rifiuti, nell'ottimizzazione delle risorse idriche, nella prevenzione del dissesto geologico, ma soprattutto nella generazione di energia da fonti rinnovabili. La loro associazione si chiama Qualitambiente ed è presieduta da Maurizio Caranza, ex sindaco del primo Comune europeo a ottenere una certificazione ambientale: Varese Ligure.
Oggi Maurizio Caranza è l'assessore all'Ambiente di Varese Ligure, il borgo rurale più virtuoso dell'Unione europea. In dieci anni il Comune dell'entroterra spezzino, che attinge il proprio fabbisogno energetico unicamente da fonti rinnovabili, ha fermato lo spopolamento, triplicato il turismo, creato 140 nuovi posti di lavoro, raggiunto il 95% di agricoltura biologica ed è diventato il simbolo di una Liguria "pulita" che cerca d'invertire la rotta dopo anni caratterizzati da una disordinata crescita turistica e urbanistica. "Varese Ligure era un paese che stava morendo, ora è risorto", spiega Caranza, che pochi mesi fa ha ricevuto a Berlino dalle mani della commissaria Loyola De Palacio il premio dell'Unione europea Promote 100, riservato al comune rurale europeo che ha eseguito il più completo e originale progetto di sviluppo sostenibile. La storia recente del borgo spezzino, dove gli abitanti vivono sparsi in 27 frazioni dediti a pastorizia, agricoltura, commercio e turismo, è segnata da premi e certificazioni: Iso 14001, Emas e Promote 100 i più recenti. "Dieci anni fa - racconta Caranza - Varese non lo conoscevano neppure alla Spezia, era destinato a morire per spopolamento. Ci siamo dati da fare e puntando tutto sull'ambiente abbiamo ribaltato la situazione. Oggi la popolazione è stabile, con 15 nascite l'anno, e c'è anzi un piccolo afflusso di famiglie e aziende agricole attirate dall'aria buona e dalla natura incontaminata. Il turismo vive 6 mesi su 12, produciamo latticini, carne e verdure in eccedenza, tutto rigorosamente biologico". Per di più oggi Varese Ligure detiene anche il record di "supernonni": sono otto gli anziani di età compresa tra i 100 e i 103 anni e ben trenta quelli che oscillano tra i 90 e i 100, su un totale di 2.400 abitanti. Da qui i riflettori puntati sul borgo dell'alta Val di Vara da parte dei ricercatori dell'università di Bologna impegnati, per conto della Commissione Europea, in uno studio su undici paesi dell’Unione con alto tasso di longevi. L’immunologo Claudio Franceschi, che sta studiando i supernonni varesini, ritiene che la longevità sia determinata per il 75% dall’ambiente e per il 25% da fattori genetici.E qui l'ambiente è davvero ideale per vivere a lungo. Oggi Varese Ligure produce 4 milioni di Kw con due generatori eolici e ne sta installando altri due per raddoppiare le capacità dell'impianto. Un sistema fotovoltaico produce altri 23.000 Kw. E tutte insieme le installazioni consentono un taglio alle emissioni di ben 9,6 tonnellate di anidride carbonica. Solo l'impianto eolico fa risparmiare 8 tonnellate di anidride carbonica (presto saranno raddoppiate). "Inoltre con l'eolico - spiega Caranza - guadagnamo 30.000 euro l'anno grazie a un accordo con l'azienda pubblica Acam che gestisce l'impianto". Tutta la popolazione è coinvolta in questa sorta di esperimento virtuoso: i negozi, le locande, le piccole aziende e le cooperative hanno tutte la certificazione ambientale di qualità. Facendo gioco di squadra sotto l'attenta regia di Caranza, il paese ha così ridotto la produzione di rifiuti a 350 kg a testa contro i 530 di media della provincia, e ha incrementato la raccolta differenziata fino al 25% del totale. Inoltre 1.600 ettari di terre sono dedicati alla produzione biologica di carni e latticini, grazie all'allevamento di 2000 capi tra bovini e caprini. "Sono stato fortunato - racconta Caranza - perché da quando abbiamo ottenuto i primi risultati, tutti hanno cominciato a cercarmi per fare da cavia, dalla Regione al ministero dell'Ambiente. Abbiamo sperimentato il biologico, varie raccolte differenziate di rifiuti, il risparmio energetico, la produzione di energia da fonti rinnovabili". E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
16 settembre 2004
Slovacchia atomica per l'Enel
La Slovacchia è terra di montagne drammatiche, dai Tatra ai Carpazi, e di fiumi maestosi, come il Danubio. E' anche la patria di Slovenske Elektrarne, principale azienda azienda elettrica del Paese, con una produzione complessiva che sfiora i 7.000 MW tra gas, carbone, idroelettrico e nucleare: uno dei bocconcini più appetitosi del risiko energetico in corso nell'Europa dell'Est e nei Balcani, dove le privatizzazioni cavalcano spedite.
Su Slovenske Elektrarne la partita è già quasi chiusa. La settimana scorsa Enel ha ottenuto il placet del ministro dell'Economia Pavol Rusko, che si è detto "deliziato" dall'offerta italiana di 840 milioni di euro per una quota del 66%, contro i 691 milioni messi sul tavolo dalla cugina ceca Cez e i 548 milioni della joint venture russa Rao-Ues. Dicono che alla Cez, potente società pubblica praghese in piena campagna acquisti, si stiano mangiando le mani. Anche se la prudenza è d'obbligo, infatti, l'assenso del ministro competente dovrebbe essere determinante per la scelta, che dipende dal governo e verrà comunicata alla fine di settembre. Superato questo scoglio, gli uomini di Enel si metteranno a discutere con l'advisor di Bratislava, Peter Mitka di PwC, per chiarire i dettagli. E se tutto andrà bene fra qualche mese la compagnia guidata da Paolo Scaroni sarà la felice proprietaria di due bei reattori nucleari, oltre a tutto il resto. "Sarà un'ottima occasione - dicono all'Enel - per ricostruire quel know-how che abbiamo perduto, dopo quasi vent'anni di astensione dall'energia atomica". E sarà anche una buona occasione per accedere a una generosa fonte di energia a buon prezzo, così diversa da quella che è costretta a produrre in Italia.
Ma Slovenske Elektrarne non è la prima preda che l'Enel mette in carniere da queste parti. In Bulgaria si è aggiudicata una centrale termoelettrica, Maritza Est, e ha preso parte alla gara per la rete di distribuzione, che è stata divisa in tre pacchetti ed è finita invece nelle mani della ceca Cez, dell'austriaca Evn e della tedesca E.on. Entro la fine di quest'anno i bulgari dovrebbero mettere in vendita altri tre impianti termoelettrici e hanno ripreso la costruzione della centrale nucleare di Belene, sul Danubio. Sofia punta chiaramente a diventare il centro principale di produzione e distribuzione elettrica nei Balcani - dov'è già oggi il primo esportatore di energia - ma anche oltre il Bosforo, verso la Turchia. Secondo stime del governo, sono previsti 6 miliardi di euro d'investimenti in progetti energetici entro il 2007. E quindi la presenza su questo mercato è altamente strategica.
In Romania Enel ha acquisito due società di distribuzione: Banat, nella regione occidentale di Timisoara tanto cara agli italiani, e Dobrogea, agli antipodi, sul Mar Nero. Ma Bucarest sta per mettere in vendita entro la fine di quest'anno le tre centrali di Rovinari, Craiova e Turceni - raggruppate nella società Energy Complex, che include anche le vicine miniere di lignite - e il resto della rete di distribuzione. Tutti affari attraenti per Enel, che si trova di fronte sempre meno concorrenti occidentali, dopo l'abbuffata degli scorsi anni che ha aperto buchi notevoli nelle finenze di diverse compagnie elettriche europee, Edf in testa. Ma anche dove la privatizzazione è già a uno stadio molto avanzato, come in Ungheria, resta qualche preda interessante. Qui sono già stati ceduti diversi impianti di produzione al colosso tedesco Rwe e ai francesi di Edf, così come tutta la rete di distribuzione, che si sono spartiti in tre: Rwe, Edf e E.on. Rimane ancora in mano allo Stato, però, la principale compagnia elettrica magiara, il gruppo Mvm (Magyar Villamos Művek), su cui molti stanno mettendo gli occhi.
Anche nella Repubblica Ceca il colosso Cez dev'essere prima o poi privatizzato, ma dopo un tentativo di metterlo all'asta due anni fa, cui parteciparono Enel e Edf, si sta trasformando da preda in rivale. Sotto la guida dell'aggressivo Martin Roman, Cez sta puntando a diventare la principale potenza elettrica della regione con una campagna acquisti poderosa e ha saputo tener testa ai rivali occidentali su diverse piazze importanti. E' già la maggiore esportatrice di energia dell'area e in futuro potrebbe giocare un ruolo importante anche a livello continentale. Prima o poi ce la potremmo trovare di fronte come fornitrice. A maggior ragione si è molto risentita davanti al successo di Enel in Slovacchia, un Paese che si è staccato dalla Repubblica Ceca solo dieci anni fa e dove Cez si sente quasi a casa propria. Invece non è riuscita a mettere le mani nemmeno sulla rete di distribuzione, che è stata spartita fra Rwe, E.on e Edf.In Polonia, il mercato più grande fra i nuovi membri dell'Unione, il processo di privatizzazione va a rilento, anche perché il 97% dell'energia prodotta viene dal carbone e di solito le centrali sono strettamente legate alle miniere circostanti. La svedese Vattenfall, la belga Tractabel, la spagnola Iberdrola e la francese Edf hanno già messo a segno qualche acquisto, ma di piccole dimensioni. Poco più su, in Lituania, ci troviamo invece in un mondo completamente diverso: la piccola repubblica baltica è una delle principali esportatrici di energia del mercato est europeo, che produce quasi esclusivamente con reattori nucleari, su cui ha in piedi un contenzioso con Bruxelles per questioni di incompatibilità tecniche. Quando avrà superato queste difficoltà, i suoi impianti potrebbero diventare una delle prede più ambite del continente.
13 settembre 2004
I nuovi lobbisti non operano nell'ombra
C' era una volta il faccendiere, che prendeva sottobraccio l' onorevole in Transatlantico per mettere in moto la leggina di spesa in favore del suo business o per saltare sul decreto omnibus di turno. La vigilia della finanziaria era una festa, un tripudio per il veterolobbismo di stampo pre-Tangentopoli. Poi c' è stata l' inchiesta di Mani pulite, la fine delle partecipazioni statali, l' indebolimento dei potentati familiari. Le cose si sono complicate. La finanziaria attira ancora grande interesse, ma il Parlamento non è più un astro così centrale nel firmamento del potere. Il vincolo di stabilità e la sentenza della Corte Costituzionale del 1996, che ha imposto l' omogeneità dei decreti legge, ha fatto venir meno la pratica dei decreti omnibus, che erano un buon terreno per i lobbisti. Le deleghe legislative comportano un lavoro a monte più importante, dove i contenuti sono sempre più complessi, fuori dalla portata dei faccendieri vecchio stampo. L' ondata delle privatizzazioni ha portato alla ribalta le esigenze di trasparenza del mercato. Con la creazione di autorità indipendenti, si è aperto un nuovo fronte istituzionale, chiamato a regolare interessi molto rilevanti. E i primi passi del federalismo hanno ulteriormente moltiplicato gli interlocutori. Per i lobbisti italiani è un mal di testa dietro l' altro. Ma anche un' occasione di crescita. «Il pregiudizio nei confronti dell' attività di lobbying come forma di corruzione è duro a morire, anche perché manca in Italia una consapevolezza diffusa del ruolo sociale delle imprese. Ma questa consapevolezza sta crescendo e così anche il mestiere del lobbista. Certo è importante che la tutela degli interessi delle imprese si svolga in un contesto istituzionale chiaro, che sia governata dalla trasparenza e dalla correttezza dei comportamenti e delle relazioni fra i decisori e i corpi sociali», spiega Massimo Romano, responsabile delle relazioni istituzionali di Enel dopo una lunga esperienza in Federacciai, Ilva e Lucchini. Romano fa parte di quella categoria di lobbisti «privilegiati», che possono permettersi di dedicarsi anima e corpo a una sola causa e di conseguenza conoscono fin nei minimi dettagli le esigenze che rappresentano. Si tratta di un gruppo piuttosto ristretto, composto da personaggi del calibro di Eugenio Palmieri di Eni (ex direttore dell' Agi), o Silvio Sircana di Ferrovie (già capo ufficio stampa dell' Iri e portavoce di Romano Prodi), Gina Nieri, capo delle relazioni istituzionali e consigliere d' amministrazione di Mediaset, o Giuseppe Sammartino di Farmindustria (già Tim e H3G). Accanto a questa categoria di lobbisti «tradizionali» ne emerge un' altra, sempre più attiva: quella delle società di consulenza specializzate nelle relazioni istituzionali, che rappresentano di volta in volta interessi diversi, ma sempre con un approccio molto professionale. «Questo fiorire di professionisti rappresenta la novità più significativa degli ultimi anni, una novità che segnala un progresso della cultura d' impresa italiana verso una maggiore trasparenza», commenta Ruben Razzante, docente di Diritto europeo dell' informazione e della comunicazione all' Università Cattolica di Milano. Scottate dal lobbismo alla Calisto Tanzi e dai guai dell' antico clientelismo, le imprese apprezzano sempre di più la possibilità di portare le proprie istanze all' attenzione dei decisori in maniera serena e documentata, alla luce del sole. «Il mestiere del lobbista non è più quello di un intermediario con le entrature giuste, ma del professionista che fornisce tutte le informazioni del caso a chi deve decidere», spiega Massimo Micucci, fondatore insieme a Claudio Velardi e Antonio Napoli di una delle società italiane più aggressive su questo fronte, Reti, che si occupa soprattutto di piccole e medie imprese, si muove in un mercato sempre più affollato: da Pms di Patrizio Maria Surace a Fb Communications di Fabio Bistoncini, da Barabino di Luca Barabino (che si occupa principalmente di comunicazione, ma ha anche qualche professionista a Roma e a Bruxelles impegnato sul fronte delle relazioni istituzionali), a Sec di Fiorenzo Tagliabue, la fioritura è rigogliosa. Nel loro sito, Micucci e compagni citano una frase di John Fitzgerald Kennedy: «I lobbisti mi fanno comprendere un problema in tre minuti, i miei collaboratori in tre giorni». Dalla mediazione all' informazione, quindi. «Chi fa le leggi - insiste Licia Soncini, ex Montedison, fondatrice di Nomos, una società particolarmente attiva sui temi dell' energia e dell' ambiente - non può essere onnisciente. Il compito del lobbista è appunto di spiegare nei dettagli le ricadute di un provvedimento, chiarendo preventivamente quali interessi rappresenta». L' attività di documentazione e la conoscenza approfondita delle procedure sono due punti chiave di questo lavoro. «I nuovi lobbisti - chiarisce Razzante - si studiano i dossier, approfondiscono gli aspetti critici, si presentano con una conoscenza delle regole e con una capacità d' intrecciare rapporti nel rispetto di codici etici ben precisi, tipici dei sistemi economici maturi». Non a caso a questa categoria in forte crescita appartengono anche le grandi società anglosassoni che dominano il settore, come l' americana Weber Shandwick (del gruppo Interpublic), la più grande società di pubbliche relazioni del mondo, o Burson-Marsteller (del gruppo britannico Wpp, che schiera anche Hill & Knowlton), sempre più attive in Italia. «La necessità d' intrattenere anche un dialogo con Bruxelles, dove hanno origine le linee guida più importanti per quasi tutti i settori, porta molte aziende a scegliere una multinazionale come la nostra, che nella capitale europea ha un ufficio dove sono rappresentate 21 nazionalità diverse», spiega Eric Gerritsen (ex Procter & Gamble e Armando Testa), l' olandese ormai italianizzato che guida Burson Marsteller Italia. «Ma sempre più spesso il nostro ruolo è complementare a quello di chi si occupa di relazioni istituzionali all' interno delle imprese, che ci affida dei progetti specifici o delle aree più difficili da coprire», precisa Furio Garbagnati, amministratore delegato di Weber Shandwick. La crescente complessità del panorama decisionale, la perdita di peso di centri di lobbismo istituzionale - come i sindacati o le associazioni di categoria - e la moltiplicazione dei nuovi gruppi di pressione, insomma, creano esigenze sempre più articolate di rappresentanza anche nel tessuto economico del Paese. «Non mi stupirei - sogna Razzante - di veder sorgere ben presto anche qui delle scuole di specialità, simili alle grandi scuole del mondo anglosassone».
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