22 febbraio 2004
La hit parade delle donne manager
American Express, Avon, Citigroup, Coca-Cola, Gannett, Gap, Hewlett-Packard, JP Morgan Chase, Kimberly-Clark, Estée Lauder, Mattel, McDonald's, Merck, Philip Morris, Reebok, Times Mirror: che cos'hanno queste multinazionali in comune fra di loro, oltre a far parte dell'indice Fortune 500? Secondo uno studio del gruppo Catalyst, rientrano nella ristretta categoria delle aziende con una presenza di donne nel top management nettamente superiore alla media. E hanno anche messo a segno una performance migliore delle loro rivali più maschiliste. Il primo studio che stabilisce un collegamento tra la presenza femminile ai vertici di un'azienda e la sua produzione di valore è stato appena pubblicato, dopo due anni di scavi in una montagna di dati e cifre, dalla più grande organizzazione dedicata alla promozione delle donne nel mondo del business, Catalyst, con sede a New York. "Per anni abbiamo sentito ripetere questa domanda senza che mai nessuno si prendesse la briga di rispondere: le aziende con più donne al comando hanno migliori risultati? Ora possiamo dire con certezza che è così, anche se non possiamo stabilire un rapporto diretto di causa ed effetto tra i due dati", spiega con pacata soddisfazione Ilene Lang, presidente di Catalyst.
Dallo studio emerge infatti che le aziende con più donne in prima linea nel periodo preso in considerazione (il quinquennio '96-2000) hanno avuto un rendimento (Roe) superiore del 35,1% e un ritorno agli azionisti più alto del 34% rispetto alle loro rivali meno femministe. "L'ampiezza del divario ha sorpreso anche noi, che pure riteniamo in via di principio salutare una maggiore diversificazione di genere nella squadra di vertice di un'azienda", confessa Harvey Wagner, docente di management alla Kenan-Flagler School of Business dell'università della North Carolina, che ha guidato i lavori dei ricercatori. Il glass ceiling (soffitto di vetro) che blocca l'ascesa delle donne è generalmente considerato una sciagura dai teorici del management, convinti dei vantaggi derivanti dalla diversificazione di genere e anche di origine etnica e religiosa nei vertici aziendali. "Più la squadra dirigente è composita, migliori sono le prospettive che sia capace di mettersi in comunicazione con gruppi diversi e che il corto circuito culturale produca una strategia innovativa", spiega Wagner.
Le ragioni che possono far risultare determinante la presenza femminile nel top management sono intuitive: "Migliore capacità di rapportarsi alle esigenze delle consumatrici, il cui potere d'acquisto è in rapida ascesa. Inserimento di qualità tipicamente femminili nelle decisioni strategiche", elenca ad esempio Wagner. E anche se lo studio di Catalyst non indica delle correlazioni dirette, è ovvio che i suoi risultati daranno da pensare a più di un amministratore delegato. I ricercatori hanno preso in considerazione le 353 aziende dell'indice Fortune 500 per cui avevano a disposizione tutti i dati sulla presenza femminile nei ranghi più elevati e le hanno suddivise in quattro categorie in base al numero di manager donne presenti fra il '96 e il 2000. Poi hanno fatto i calcoli sul rendimento e sul ritorno agli azionisti nello stesso periodo e hanno incrociato i due set di dati. Il divario fra i risultati finanziari delle aziende "più femminili" rispetto a quelle "meno femminili" è lampante: colossi come Bank of America, Compaq, Disney, Exxon Mobil, Goodyear, K Mart, Nabisco, Texas Instruments, Union Carbide o Whirlpool, tutti nel gruppo di coda, in media hanno messo a segno un Roe del 13,1% e un ritorno agli azionisti del 95,3%, contro un Roe del 17,7% e un ritorno del 127,7% delle aziende che compongono il gruppo di testa. Le differenze sono particolarmente marcate nel settore dei prodotti di largo consumo, meno spettacolari ma comunque significative nel settore finanziario. "Non c'è tanto da stupirsi", commenta dall'Italia Irina Piazzoli, 38 anni, responsabile dell'ufficio legale di Philip Morris, una delle aziende considerate più attente alla promozione della presenza femminile. "Una maggiore intelligenza emotiva e una buona dose di pragmatismo danno spesso alle donne una marcia in più nelle decisioni cruciali", commenta Piazzoli, che in Philip Morris ha trovato una grande disponibilità a favorire lo sviluppo del personale e a sostenere la diversità.
Eppure, malgrado gli enormi progressi compiuti negli ultimi anni, la percentuale di donne fra i top manager resta minuscola: nell'indice Fortune 500 ci sono solo otto aziende guidate da una donna, fra cui Carly Fiorina di Hewlett Packard, Pat Russo di Lucent e Andrea Jung di Avon sono le più famose. Nonostante siano donne quasi la metà dei diplomati nelle business school americane, solo 63 dei 2500 top earner che lavorano nelle aziende di Fortune 500 sono donne (e questa percentuale è più che raddoppiata dal '95 a oggi). La situazione non è migliore nei mondi contigui al business: solo l'8% dei partner nelle Big Four della contabilità o il 14% dei partner nei primi 250 studi legali del mondo sono donne. E nelle grandi corporation sono quasi più famose le top manager che se ne sono andate di quelle che sono rimaste: Brenda Barnes, che ha piantato tutto a 43 anni alla vigilia della nomina ad amministratore delegato di PepsiCo, e Marta Cabrera, che a 44 anni ha abbandonato la vice presidenza della JP Morgan, restano delle figure leggendarie nell'immaginario delle donne americane.
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