11 aprile 2004
Responsabilità sociale addio
Responsabilità sociale addio. Dopo anni di buonismo rampante, di utili accompagnati dal senso di colpa, di performance sempre e solo etica, torna di moda il capitalismo brutale delle origini.
Lo risvegliano dalla tomba due guru del Boston Consulting Group, George Stalk e Rob Lachenauer, che stanno per pubblicare un libro sull’argomento e ne anticipano i temi su Harvard Business Review. “Chi vince negli affari gioca duro e non si scusa per questo”, sostengono nel loro saggio, che è un’autentica sberla controcorrente. E portano una serie di esempi per ricordare a tutti che non c’è nulla di male nel concetto di gareggiare per vincere, ammesso che si giochi pulito. Stalk e Lachenauer mettono subito in chiaro che parlare di lotta senza esclusione di colpi non significa guardare con occhio benevolo alle società corrotte: “Enron e WorldCom potrebbero sembrare concorrenti che hanno giocato duro, ma in realtà usavano tattiche tipiche di chi non prende la competizione veramente sul serio, come la manipolazione (legale o illegale) dei risultati, per farli sembrare migliori. Chi gioca duro non imbroglia”.
Ma chi sarebbero queste aziende che giocano duro? E quali tattiche usano? Si tratta di macchine da guerra come Wal-Mart, Toyota o Southwest che perseguono con grande determinazione la posizione dominante e tutti i vantaggi che ne derivano, dalla quota più consistente ai margini più ampi, passando per i benefici intangibili derivanti dal controllo di un mercato. Questo tipo di giocatori “individuano i propri obiettivi, vanno in cerca dello scontro, impongono il ritmo, saggiano i limiti del possibile”. Le aziende meno competitive, invece, possono dare buoni risultati ma non sono fortemente determinate a vincere. “Non accettano il fatto che talvolta bisogna ferire i propri rivali e anche rischiare di farsi male per ottenere quello che si vuole”. Invece di correre in una direzione precisa, si guardano in giro e fischiettano. Giocano per giocare. E anche se non finiscono tra i veri perdenti, non sono certamente destinate a vincere. Stalk e Lachenauer accusano la scienza del management di aver inquinato aziende e imprenditori con il pensiero debole, che trasuda da ogni produzione accademica in materia: “La preferenza per una costellazione di argomenti deboli come la cultura aziendale, la gestione della conoscenza, la gestione del talento, la necessità di coccolare i dipendenti e la clientela, ha incoraggiato quest’approccio ‘soft’ al business”. E ammoniscono gli imprenditori: “Non date da leggere questa roba ai vostri dipendenti e non mandateli a sentire i discorsi di questa gente”. Nomi e cognomi non se ne fanno, ma la provocazione è fin troppo chiara. E’ guerra senza quartiere contro il buonismo dominante.
Tutta la loro ammirazione, invece, va alle tecniche con cui i giocatori forti perseguono il proprio vantaggio. “Molte aziende parlano di vantaggio competitivo, ma poche sono in grado di descrivere con precisione il proprio e ancor meno di quantificarlo”. Chi gioca duro è in grado. Wal-Mart, ad esempio, è principalmente un gigante della logistica che ha vinto la sua battaglia sui prezzi usando una serie di grandi autoporti dove la merce in arrivo dai fornitori passa direttamente sui camion in uscita verso i supermercati. Per spingere al massimo l’efficienza di questi autoporti, Wal-Mart esercita una pressione fortissima sui fornitori, imponendo una serie di condizioni capestro che mettono molte aziende in difficoltà. E chi non ci sta viene eliminato senza complimenti: com’è successo a Rubbermaid nel ’96, un’azienda da due miliardi di fatturato, definita da Fortune una delle società più ammirate degli Stati Uniti, che ha denunciato queste pratiche ed è rimasta tagliata fuori dalla catena. Due anni dopo era sull’orlo della bancarotta (nel ’99 è stata acquisita da Newell). La durezza con cui Wal-Mart stringe i bulloni della sua macchina logistica portano i prezzi sempre più in basso e le sopracciglia dei suoi critici sempre più in alto. In una recente copertina, BusinessWeek si chiedeva: “Wal-Mart è troppo potente?” Stalk e Lachenauer, ovviamente, rispondono di no.
Toyota è un altro caso di pensiero forte che i due guru additano ad esempio. L’estremo vantaggio competitivo conferitole dal suo ammiratissimo sistema di produzione la pone completamente fuori dalla portata dei suoi rivali. “Spesso chi gioca duro si basa su un sistema produttivo inespugnabile, su un rapporto privilegiato con un cliente o con un fornitore irraggiungibile per i rivali, su talenti come un’estrema velocità di sviluppo dei prodotti o una conoscenza della clientela impossibile da replicare”. I concorrenti tendono a protestare, considerando questo vantaggio ingiusto, non perché sia stato conseguito illegalmente, ma perché non riuesciranno mai a eguagliarlo. Toyota è così convinta di questo che ha perfino invitato i rivali a visitare i suoi stabilimenti. “Studiateci quanto volete”, ha offerto. E in effetti le tre sorelle di Detroit non sono mai riuscite a imitarla, malgrado i ripetuti tentativi. Nel frattempo la casa giapponese continua a stringere i bulloni. E i risultati sono spettacolari: la quota di mercato mondiale di Toyota, che l’anno scorso ha scavalcato Ford, è cresciuta dal 5% nell’80 al 10% di oggi (ogni punto vale dieci miliardi di fatturato). Già nel 2010, secondo le previsioni, dovrebbe arrivare al 15%. Commento di BusinessWeek: “Come fermare Toyota?”
Il terzo caso, quello di Southwest Airlines, è costruito sull’attacco indiretto. La filosofia di Herb Kelleher, copiata poi in Europa dal fondatore di RyanAir, Michael O’Leary, è di aggirare la posizione dominante stabilita dalle compagnie principali nei grandi hub concentrandosi sui piccoli aeroporti collocati in posizioni strategiche. La sua strategia mise le grandi compagnie di fronte a un dilemma: lasciarlo crescere o affrontarlo sul suo stesso terreno? Ma quando United provò a lanciare un servizio in competizione con Southwest in California, Kelleher tirò fuori le unghie, mobilitando i suoi dipendenti con una lettera intitolata “Inizio delle ostilità” in cui si ammoniva che l’attacco di United metteva in gioco “le nostre azioni, i nostri stipendi, la sicurezza dei nostri posti di lavoro e le nostre possibilità di espansione”. Negli aeroporti più esposti, i dipendenti di Southwest cominciarono ad andare a lavorare in tuta mimetica. E l’attacco di United abortì. Anche Continental Lite si è schiantata subito. E Southwest è l’unica compagnia aerea ameriana che ha continuato a crescere anche dopo l’11 settembre.
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