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30 maggio 2004

Attenti alle api impollinatrici del marchio

Quando alla festa di compleanno un ospite trascorre la serata decantando le doti dell'ultimo modello Bmw o del nuovo telefonino Nokia, rizzate le orecchie. Che sia un agente pubblicitario sotto mentite spoglie? Un'ape indaffarata a impollinare i vostri amici? Che sia arrivato anche in Italia l'ultimo grido del marketing? Il passaparola, tanto decantato dai guru del marketing virale ma poco praticato dalle agenzie tradizionali, sta diventando un business. Si chiama BzzAgent la società di Boston che si è specializzata in questa difficile missione: propagandare un prodotto attraverso i consigli confidenziali dell'amico, del cugino, del vicino di casa. E con una rete di 25mila agenti (che si allarga al ritmo di 50 nuovi agenti al giorno) le sue campagne pubblicitarie stanno già diventando una leggenda a soli due anni dalla fondazione. Il "padre" di BzzAgent (e suo amministratore delegato) è Dave Balter, un pioniere del marketing diretto che prima di mettersi in proprio ha organizzato campagne di fidelizzazione per varie multinazionali americane. Con BzzAgent, Balter si è prefisso di imbrigliare il passaparola, per farne uno strumento disciplinato e strategico da mettere al servizio delle aziende. "Il mio obiettivo - spiega Balter - è trovare un modo per catturare il passaparola, trasformando un gruppo di consumatori appassionati in evangelisti dei prodotti in cui credono". Non più pubblicità per i consumatori, ma con i consumatori. Influenzare le scelte del pubblico con campagne massificate, del resto, diventa sempre più difficile e costoso. Secondo uno studio di Jupiter Research il numero di messaggi in competizione per attirare l'attenzione dei consumatori è quintuplicato negli ultimi dieci anni. Per di più, l'avvento della tv via cavo e via satellite ha ridotto il numero di persone raggiunte da un annuncio audiovisivo, raddoppiandone il costo. E' qui che s'inserisce Balter con la sua organizzazione. Il sistema usato da BzzAgent è molto semplice. Prima di tutto si esamina a fondo il prodotto o il servizio da propagandare per capire quale dev'essere il profilo sociologico e psicologico degli agenti che potrebbero apprezzarlo. Poi si esplora la banca dati alla ricerca degli agenti che più si avvicinano a questa tipologia, cui viene offerto l'incarico di partecipare alla campagna con una descrizione dettagliata del prodotto, per farsi un'idea. Chi accetta l'incarico riceve un campione del prodotto da propagandare e un manualetto in cui si descrivono le strategie più adatte a diffondere il messaggio. A ogni "impollinazione", l'agente manda un resoconto alla centrale descrivendo la situazione e l'impatto della sua attività promozionale. Ne riceve un feedback con ulteriori suggerimenti. E così avanti per tutto il periodo prefissato. L'effetto è stupefacente. La campagna organizzata da BzzAgent per Rock Bottom Restaurants, famosa catena di ristoranti e pub "Vecchio West" sparsi in 15 Stati del Midwest, ha fatto balzare le vendite di 1,2 milioni di dollari in un trimestre con l'impegno di un migliaio di agenti. Agli "impollinatori" sono state regalate delle carte fedeltà di Rock Bottom, che erano invitati ad estrarre "per sbaglio" quando pagavano al supermercato o ai grandi magazzini, attaccando così discorso con commesse e clienti per magnificare le specialità culinarie dei ristoranti da propagandare. Anche chiedere al tassista, al portiere dell'albergo o alla cassiera del bar dov'è il Rock Bottom più vicino può funzionare benissimo per iniziare una conversazione sul tema. Oppure buttare là un commento positivo su Rock Bottom tutte le volte che si viene coinvolti in uno scambio di opinioni sul cibo. In queste occasioni, gli agenti venivano consigliati di articolare il più possibile il loro discorso, menzionando anche specifiche pietanze o marche di birra. Una campagna di questo tipo (12 settimane con mille agenti) costa circa 85.000 dollari, esclusi i campioni del prodotto (in questo caso le carte fedeltà). Gli effetti della campagna sono stati descritti in uno studio della Harvard Business School: nel corso dei tre mesi c'è stato un aumento del 76% sulle vendite, precedentemente piatte da tre trimestri, e un aumento del 55% sulle vendite di carte fedeltà, con oltre diecimila nuovi clienti stabili acquisiti. Risultati analoghi sono stati conseguiti in altre campagne per Estée Lauder, Penguin Putnam e per i jeans Lee. Dei mille agenti coinvolti nella campagna Rock Bottom, il 40% si è dichiarato intenzionato a continuare l'opera di propaganda anche dopo la fine dell'incarico, per pura e semplice simpatia nei confronti dei ristoranti. E' proprio l'impegno sincero del network di Balter a farne uno strumento particolarmente attraente per le aziende. "Abbiamo reso il sistema sufficientemente complesso da scoraggiare la gente che vuole soltanto intascare gratuitamente qualche campione promozionale", spiega Balter. Chi partecipa lo fa soprattutto per passione, per curiosità, per sapere in anticipo che cosa si muove su un certo mercato. E anche perché ormai essere un agente di Balter va di moda, soprattutto fra i giovani. C'è chi se lo scrive sul biglietto da visita, in particolare se ha un numero basso di adesione, come Derek Archambault, agente numero 36, un architetto di Providence (Rhode Island) appassionato di musica, che ha partecipato a una campagna per propagandare un nuovo CD. L'esperienza è interessante anche per i professionisti del marketing: Steve Cook, vice presidente di Coca-Cola con delega sul marketing strategico, è stato una delle prime reclute di Balter e sta considerando l'opportunità di usare il network per generare un po' di brusio a favore del gigante delle bollicine. Fra i seguaci di Balter, insomma, non ci sono solo ragazzini in cerca di esperienze cool: il 65% degli aderenti ha più di 25 anni, il 60% sono donne e ci sono anche due amministratori delegati di multinazionali americane, che preferiscono non essere citati. Non a caso il network di Balter è stato anche usato da una major dell'entertainment per testare un nuovo videogame, che poi è stato modificato seguendo i consigli degli agenti coinvolti. Veicolo di marketing, strumento di ricerca, società di consulenza: in soli due anni BzzAgent si è fatto una bella fama. Cha abbia mandato in giro i suoi evangelisti a diffondere il verbo?

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Attenti alle api impollinatrici del marchio

Quando alla festa di compleanno un ospite trascorre la serata decantando le doti dell'ultimo modello Bmw o del nuovo telefonino Nokia, rizzate le orecchie. Che sia un agente pubblicitario sotto mentite spoglie? Un'ape indaffarata a impollinare i vostri amici? Che sia arrivato anche in Italia l'ultimo grido del marketing? Il passaparola, tanto decantato dai guru del marketing virale ma poco praticato dalle agenzie tradizionali, sta diventando un business. Si chiama BzzAgent la società di Boston che si è specializzata in questa difficile missione: propagandare un prodotto attraverso i consigli confidenziali dell'amico, del cugino, del vicino di casa. E con una rete di 25mila agenti (che si allarga al ritmo di 50 nuovi agenti al giorno) le sue campagne pubblicitarie stanno già diventando una leggenda a soli due anni dalla fondazione. Il "padre" di BzzAgent (e suo amministratore delegato) è Dave Balter, un pioniere del marketing diretto che prima di mettersi in proprio ha organizzato campagne di fidelizzazione per varie multinazionali americane. Con BzzAgent, Balter si è prefisso di imbrigliare il passaparola, per farne uno strumento disciplinato e strategico da mettere al servizio delle aziende. "Il mio obiettivo - spiega Balter - è trovare un modo per catturare il passaparola, trasformando un gruppo di consumatori appassionati in evangelisti dei prodotti in cui credono". Non più pubblicità per i consumatori, ma con i consumatori. Influenzare le scelte del pubblico con campagne massificate, del resto, diventa sempre più difficile e costoso. Secondo uno studio di Jupiter Research il numero di messaggi in competizione per attirare l'attenzione dei consumatori è quintuplicato negli ultimi dieci anni. Per di più, l'avvento della tv via cavo e via satellite ha ridotto il numero di persone raggiunte da un annuncio audiovisivo, raddoppiandone il costo. E' qui che s'inserisce Balter con la sua organizzazione. Il sistema usato da BzzAgent è molto semplice. Prima di tutto si esamina a fondo il prodotto o il servizio da propagandare per capire quale dev'essere il profilo sociologico e psicologico degli agenti che potrebbero apprezzarlo. Poi si esplora la banca dati alla ricerca degli agenti che più si avvicinano a questa tipologia, cui viene offerto l'incarico di partecipare alla campagna con una descrizione dettagliata del prodotto, per farsi un'idea. Chi accetta l'incarico riceve un campione del prodotto da propagandare e un manualetto in cui si descrivono le strategie più adatte a diffondere il messaggio. A ogni "impollinazione", l'agente manda un resoconto alla centrale descrivendo la situazione e l'impatto della sua attività promozionale. Ne riceve un feedback con ulteriori suggerimenti. E così avanti per tutto il periodo prefissato. L'effetto è stupefacente. La campagna organizzata da BzzAgent per Rock Bottom Restaurants, famosa catena di ristoranti e pub "Vecchio West" sparsi in 15 Stati del Midwest, ha fatto balzare le vendite di 1,2 milioni di dollari in un trimestre con l'impegno di un migliaio di agenti. Agli "impollinatori" sono state regalate delle carte fedeltà di Rock Bottom, che erano invitati ad estrarre "per sbaglio" quando pagavano al supermercato o ai grandi magazzini, attaccando così discorso con commesse e clienti per magnificare le specialità culinarie dei ristoranti da propagandare. Anche chiedere al tassista, al portiere dell'albergo o alla cassiera del bar dov'è il Rock Bottom più vicino può funzionare benissimo per iniziare una conversazione sul tema. Oppure buttare là un commento positivo su Rock Bottom tutte le volte che si viene coinvolti in uno scambio di opinioni sul cibo. In queste occasioni, gli agenti venivano consigliati di articolare il più possibile il loro discorso, menzionando anche specifiche pietanze o marche di birra. Una campagna di questo tipo (12 settimane con mille agenti) costa circa 85.000 dollari, esclusi i campioni del prodotto (in questo caso le carte fedeltà). Gli effetti della campagna sono stati descritti in uno studio della Harvard Business School: nel corso dei tre mesi c'è stato un aumento del 76% sulle vendite, precedentemente piatte da tre trimestri, e un aumento del 55% sulle vendite di carte fedeltà, con oltre diecimila nuovi clienti stabili acquisiti. Risultati analoghi sono stati conseguiti in altre campagne per Estée Lauder, Penguin Putnam e per i jeans Lee. Dei mille agenti coinvolti nella campagna Rock Bottom, il 40% si è dichiarato intenzionato a continuare l'opera di propaganda anche dopo la fine dell'incarico, per pura e semplice simpatia nei confronti dei ristoranti. E' proprio l'impegno sincero del network di Balter a farne uno strumento particolarmente attraente per le aziende. "Abbiamo reso il sistema sufficientemente complesso da scoraggiare la gente che vuole soltanto intascare gratuitamente qualche campione promozionale", spiega Balter. Chi partecipa lo fa soprattutto per passione, per curiosità, per sapere in anticipo che cosa si muove su un certo mercato. E anche perché ormai essere un agente di Balter va di moda, soprattutto fra i giovani. C'è chi se lo scrive sul biglietto da visita, in particolare se ha un numero basso di adesione, come Derek Archambault, agente numero 36, un architetto di Providence (Rhode Island) appassionato di musica, che ha partecipato a una campagna per propagandare un nuovo CD. L'esperienza è interessante anche per i professionisti del marketing: Steve Cook, vice presidente di Coca-Cola con delega sul marketing strategico, è stato una delle prime reclute di Balter e sta considerando l'opportunità di usare il network per generare un po' di brusio a favore del gigante delle bollicine. Fra i seguaci di Balter, insomma, non ci sono solo ragazzini in cerca di esperienze cool: il 65% degli aderenti ha più di 25 anni, il 60% sono donne e ci sono anche due amministratori delegati di multinazionali americane, che preferiscono non essere citati. Non a caso il network di Balter è stato anche usato da una major dell'entertainment per testare un nuovo videogame, che poi è stato modificato seguendo i consigli degli agenti coinvolti. Veicolo di marketing, strumento di ricerca, società di consulenza: in soli due anni BzzAgent si è fatto una bella fama. Cha abbia mandato in giro i suoi evangelisti a diffondere il verbo?

26 maggio 2004

Basta con la ricerca in ordine sparso

Basta con la ricerca in ordine sparso. Bisogna far convergere le risorse sui temi d'eccellenza, confrontarsi con il panorama internazionale, individuare i settori in cui si può correre più degli altri. Ora le linee guida per riformare il Consiglio nazionale delle ricerche ci sono. I quattro comitati, in cui Adriano De Maio ha riunito i migliori cervelli d'Italia, hanno lavorato giorno e notte per mesi. Il serbatorio di conoscenze avanzate più capiente d'Italia, con dentro oltre quattromila ricercatori e 2.600 tecnici, è stato passato al settaccio per individuare i settori di eccellenza e le teste migliori. La chiamano "anagrafe strategica" del Cnr: "Ma quella che abbiamo scritto in questi mesi è solo l'introduzione a un libro di mille pagine. Ora bisogna vedere se ci saranno la volontà e le risorse per scrivere il resto, per mettere in pratica il nostro piano di rilancio", spiega il fondatore del Cefriel Maurizio Decina, uno degli esperti che hanno contribuito alla stesura della piattaforma Ict. Insieme alle altre tre piattaforme, dedicate alle Scienze della vita, alle Scienze della materia e alla Progettazione molecolare, si è lavorato per mettere su un binario unitario un carrozzone pieno di meraviglie, che finora vagava a briglia sciolta senza una direzione chiara. I risultati di questo lavoro verranno presentati la settimana prossima da De Maio, che si appresta ad abbandonare il posto di comando del Cnr, dov'è stato commissario per un anno. Il testimone passa nelle mani del fisico Fabio Pistella, membro fresco di nomina dell'Autorità per l'energia e vice-commissario al Cnr, designato a sorpresa presidente con un mese di anticipo sulla scadenza del mandato di De Maio. "L'importante è che tutto il lavoro fatto in questi mesi non resti solo sulla carta", si augura Enrico Drioli, uno dei massimi esperti mondiali di tecnologia delle membrane e direttore dell'omonimo istituto del Cnr, che ha animato la piattaforma sulla Progettazione molecolare. "L'operazione avviata da De Maio - spiega Drioli, che ha coinvolto nel suo lavoro di setaccio un migliaio di ricercatori - ha messo in moto per la prima volta tutto il Cnr, nello sforzo di capire che cosa facciamo e dove stiamo andando. I problemi che abbiamo riscontrato sono molti: la frammentazione delle competenze in 107 istituti diversi che viaggiano slegati, la mancanza di multidisciplinarietà, l'età troppo elevata dei ricercatori, la mancanza di competizione interna e di riconoscimento delle professionalità, la carenza di riscontri e di valutazioni, la concentrazione del personale amministrativo là dove non serve, la burocrazia eccessiva. Ma non si può prescindere dalla questione dei finanziamenti: con un budget da 680 milioni non si va da nessuna parte. Per fare un lavoro serio bisognerebbe almeno recuperare quel 30-40% che ci è stato tolto negli ultimi anni. Per adeguarsi ai livelli degli altri Paesi ci vorrebbe un raddoppio". "Se crediamo di poter essere bravi soltanto sull'orizzonte italiano, siamo destinati a morte certa", mette il dito sulla piaga Gian Nicola Babini, direttore dell'Istituto di scienza e tecnologia dei materiali ceramici di Faenza, uno dei fiori all'occhiello del Cnr. Babini si riconosce nella struttura dei sette progetti abbozzati dalle linee guida di De Maio: terra e ambiente, salute, energia, alimentare, valorizzazione del patrimonio culturale, manufacturing, identità culturale. Buoni punti di aggregazione per concentrare le forze, ma al momento dell'allocazione delle risorse sarà necessario tener conto del mercato. "Bisogna valutare il sistema produttivo italiano nel quadro europeo e mondiale. Solo partendo dal mercato mondiale si possono operare delle scelte in una prospettiva dinamica", insiste Babini. Di casa nel distretto delle piastrelle, Babini ha ben presente la rapida avanzata della Cina e delle altre potenze asiatiche sul fronte delle alte tecnologie. E capisce che il tempo stringe. L'anno scorso la Cina ha speso 60 miliardi di dollari per la ricerca. L'Italia, che pure ha un Pil superiore, non è andata oltre i 10 miliardi. Non a caso la quota italiana del commercio mondiale nei beni ad alta tecnologia si è ridotta ormai al lumicino: siamo all'1,64%. Fra la trentina di Paesi dell'Ocse, solo Polonia, Grecia e Turchia stanno peggio. "La quota di brevetti depositati dall’Italia presso l'ufficio europeo di Monaco è solo il 3,5% contro il 6,9% della Francia e il 19,6% della Germania. D’altro canto l’Italia è tra i maggiori acquirenti di brevetti stranieri", spiega il presidente dell'Istituto di promozione industriale Riccardo Gallo. In questi numeri ci sono tutti i limiti della ricerca italiana, compresa quella fatta al Cnr. "E' mancata l'attenzione dello Stato, ma anche del Paese reale, nei confronti della ricerca scientifica", fa notare Luciano Caglioti, ordinario di Chimica alla Sapienza, consulente del Cnr e coordinatore del Comitato per il trasferimento tecnologico dell'Ipi. "Le carenze che troviamo oggi nel Cnr sono le stesse che affliggono l'università, dove negli ultimi cinquant'anni sono stati scoraggiati in tutti i modi i rapporti dei professori con il mercato", precisa Caglioti. Ci vuole uno sforzo ciclopico e collettivo per invertire una tendenza così radicata. Ammesso che basti.

24 maggio 2004

Jim Rogers

Jim Rogers è l’uomo dei record: due volte nel Guinness dei primati per aver fatto il giro del mondo in moto e in fuoristrada, ha fondato Quantum insieme a George Soros nel ’73 mettendo poi a segno con la sua gestione un rendimento del 4.000 per cento fino alla fine degli anni Settanta (nello stesso periodo l’S&P 500 era cresciuto meno del 50%). Dopo quell’esperienza Rogers ha abbandonato gli investimenti di corto respiro per dedicarsi ad altre storie, con prospettive di maggiore ampiezza. Ad esempio le materie prime, su cui ha lanciato un indice e poi, nel ’98, un fondo di cui è appena partita la versione denominata in euro (Diapason Rogers Commodity Index Fund). Segno che il naso è sempre quello di una volta, visto il boom vissuto dalle materie prime negli ultimi anni: dal ’98 a oggi, il fondo è cresciuto del 156%.
Cinicamente, viene da pensare che dopo una performance del genere, il futuro potrebbe riservare qualche delusione a chi investe oggi in questo campo…
“A mio avviso le materie prime sono ancora il migliore investimento per molti anni a venire. Nel lungo periodo di crisi degli anni Ottanta e Novanta, nessuno ha investito in nuova capacità di produzione. Così l’offerta è caduta mentre la domanda continuava a progredire. Le riserve si sono esaurite. Questo significa che il Toro è destinato a regnare sulle commodities ancora per molti anni, fino a riequilibrare la domanda con l’offerta. In generale i cicli delle materie prime durano una ventina d’anni: cinque anni in questo campo è un lasso di tempo molto breve”.
Quindi lei non è molto ottimista su una ripresa stabile dell’economia e dei mercati…
“La ripresa economica è reale negli Stati Uniti e in gran parte del mondo, perché i banchieri americani, giapponesi e cinesi emettono un’enorme montagna di denaro. Ma dopo le elezioni di novembre sospetto che negli Usa ci sarà un rallentamento nel 2005 e 2006 perché gli americani non possono continuare a emettere tutto questo denaro senza danneggiare il dollaro. Detto questo, ci sono Paesi che anche a lungo termine andranno molto bene: il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda, la Cina, l’Indonesia, il Brasile…
E l’Europa?
“In Europa avete un problema demografico molto serio e dei costi sociali schiaccianti. Questo costituisce un appesantimento persistente dell’economia europea. Penso che sia meglio mettere i propri soldi nelle economie legate alle risorse naturali e con una popolazione giovane”.
E i mercati azionari, perché sono così ondivaghi in questo periodo?
“In generale non ho una buona opinione dei mercati azionari, perché le azioni sono molto care nel mondo intero. Ci avviamo verso un periodo simile a quello tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta. A mio avviso i mercati stanno entrando in uno di quei periodi di fluttuazione che non vanno a parare da nessuna parte. E’ stupido comprare delle azioni che hanno già superato un valore di venti volte gli utili e pensare di diventare ricchi così. Non è mai accaduto nella storia”.
Eppure c’è un vasto consenso fra gli analisti sul fatto che Wall Street continuerà ad avanzare fino alle elezioni…
“Non ragiono mai in termini così ravvicinati. Certo è che il 2005 e il 2006 saranno due brutte annate per gli Stati Uniti. E già quest’anno Wall Street rischia di chiudere sotto i valori attuali. Secondo me la gente comincerà a vendere prima delle elezioni”.
Lei in che cosa investe?
“La maggior parte dei miei investimenti sono nei Paesi che beneficeranno del boom delle materie prime, ad esempio in Cina. Credo molto nella progressiva emancipazione delle donne asiatiche e quindi sono favorevole alle imprese che ne beneficeranno, come i produttori di pillole contraccettive o di cosmetici. In Europa, sono interessanti le banche di piccole dimensioni e il comparto della difesa, in previsione di un processo di consolidamento nei due settori. Ma in generale sui mercati azionari sono un venditore, non un compratore. Sul mercato americano sto vendendo le azioni delle grandi banche e delle imprese legate al boom immobiliare, come Fannie Mae (ha il bilancio più indebitato d’America). Quella immobiliare è una bolla destinata a scoppiare presto”.
Non teme un rallentamento dell’economia cinese?
“Anche se l’economia cinese dovesse subire una battuta d’arresto, sul lungo termine è una scommessa sicura”.
Ma sul lungo termine, come diceva Keynes, saremo tutti morti. Bisognerà pur vendere a un certo punto per monetizzare l’investimento…
“Vendere? Non sono un bravo trader. Probabilmente sono il peggiore trader che si sia mai visto sul mercato. Se fosse per me, terrei sempre tutto all’infinito. Prima di tutto se non si vende non si è costretti a pagarci sopra le tasse. E poi per decidere di vendere bisogna seguire gli investimenti passo passo. Io invece cerco delle belle storie con prospettive di lunghissimo termine, le compro e poi non ci penso più. Prendiamo il Botswana: è un Paese che ho comprato a mani basse nell’81 e non ho mai più venduto. Certo se venisse eletto un cattivo governo o le risorse naturali si esaurissero bisognerebbe vendere. Ma finora non è successo”.
Così ha più tempo per girare il mondo…
“Già. Comodo no?”

17 maggio 2004

Prezzi alti, una mazzata per le aziende

I consumi corrono, le centrali non decollano, domanda e offerta di energia sono sempre più distanti. Per di più, a differenza degli altri Paesi europei, oltre due terzi dell' elettricità italiana viene prodotta da idrocarburi, che seguono le quotazioni del petrolio. E il greggio ormai buca il soffitto. C' è poco da stupirsi, dunque, se il prezzo dei chilovattora in Italia viaggia su valori quasi doppi rispetto alla media europea e la bolletta scoppia. «Nel primo mese di vita, sulla piattaforma dell' Ipex sono stati scambiati ben 7,4 teravattora (sui 25 complessivi del mercato italiano), per un controvalore di 408 milioni di euro», spiega Sergio Agosta, amministratore delegato del Gme (il Gestore del mercato elettrico, che gestisce la Borsa). Il prezzo medio ponderato in base ai volumi scambiati è stato di 51,83 euro al MWh, che evidenzia una divaricazione del 14% rispetto al prezzo di generazione (Pgn) preso a riferimento dall' Autorità per definire le attuali tariffe del mercato vincolato. Il confronto lascia il tempo che trova, naturalmente, perché non ha senso paragonare un prezzo regolamentato con quello emerso dall' incrocio tra domanda e offerta sul libero mercato; tuttavia a fine giugno l' Autorità di Alessandro Ortis dovrà pur tener conto del divario per stabilire quanto incideranno i rincari della materia prima sulle bollette degli italiani. «Va ricordato - risponde Ortis - che gli aggiornamenti tariffari restano trimestrali, e quindi si tratterà sempre di medie che per loro natura appiattiscono le punte. Inoltre, per proteggere i consumatori vincolati dalla volatilità dei prezzi, l' Acquirente Unico acquista fuori Borsa più della metà dell' energia che gli serve. Ad aprile si è rifornito anche attraverso contratti bilaterali diretti con i produttori (27% del fabbisogno), attraverso gli approvvigionamenti di energia Cip6 (11%), l' import (13%) e gli acquisti in Borsa a prezzo garantito (10%, contratti differenziali). Quindi, per aprile, meno del 40% degli acquisti risente del prezzo di Borsa». Fatti i conti, la ricaduta potrebbe essere del 2-2,5% secondo le stime di Energy Advisors, una delle prime società di consulenza nel settore. Sulle imprese che si possono approvvigionare al mercato libero, invece, le ricadute sono già evidenti. «L' effetto Borsa sta causando rincari del 5-10%», spiega Carlo Tortato, presidente del consorzio veneto Unindustria Multiutilities, che l' anno scorso ha intermediato 836 mila MWh per 230 siti produttivi. I contratti bilaterali stipulati dalle piccole e medie aziende del consorzio infatti prevedono uno sconto fisso rispetto al prezzo di riferimento. «Se sale il prezzo di riferimento, alla fine aumenta anche il nostro», puntualizza Tortato. Sommando all' effetto Borsa le ricadute delle nuove fasce orarie decise in marzo dall' Autorità, contro cui Unindustria ha presentato un ricorso al Tar insieme ad altri 12 consorzi, si arriva a un rincaro medio annuale del 10-15%. «Ma non basta: a questo vanno aggiunte le nuove componenti tariffarie, gli oneri di capacità e di perdite, che ci costeranno un altro 5%», conclude Tortato, stimando sul 15-20% l' aumento complessivo della bolletta energetica cui dovranno far fronte le imprese italiane nel corso di quest' anno. «E sono stime prudenziali - precisa Tortato -, perché tengono conto solo dei rincari di aprile, un mese tradizionalmente molto tranquillo per i prezzi dell' energia, con i riscaldamenti al minimo, i condizionatori spenti e i bacini idroelettrici pieni». Secondo le stime del Grtn (il gestore della rete), da quest' anno l' Italia entrerà nel novero dei Paesi ricchi dove il fabbisogno estivo di energia supera il fabbisogno invernale: contro un picco invernale di 55.500 MW, il picco estivo potrebbe raggiungere i 55.800 MW. Giugno e luglio saranno i due mesi a rischio blackout e presenteranno la sfida più ardua anche per le quotazioni di Borsa, che in presenza di forti carenze rischiano d' impennarsi. L' anno scorso i due picchi erano già quasi equivalenti: 53.400 MW d' inverno contro 53.100 d' estate. Ma basta andare indietro di pochi anni per constatare la differenza: nel 2000 il picco invernale si era attestato sui 49.713 MW, mentre il picco estivo si era fermato a 47.383. I consumi di energia degli italiani, quindi, sono a una svolta. Non così la produzione. A fronte del fabbisogno previsto per quest' anno, sarà difficile superare l' estate senza distacchi di corrente, perché la potenza disponibile del sistema elettrico italiano per ora non supera i 50 mila MW (a fronte di una potenza installata di oltre 76 mila MW) e l' import è stato ridotto a 5 mila MW. Il divario fra potenza installata e potenza disponibile è una grande debolezza del sistema, dovuta alla variabilità delle fonti idroelettriche e alle inefficienze causate dal caldo nelle centrali termoelettriche o sulle linee ad alta tensione. L' altra è l' estrema lentezza con cui procede l' incremento della capacità produttiva. «Nonostante piccoli passi avanti, non abbiamo ancora superato le resistenze opposte da più parti alla costruzione di nuove centrali», ammette Giovanni Dell' Elce, sottosegretario alle Attività produttive e promotore di un Osservatorio per sveltire le procedure. «Decine di progetti sono bloccati dai veti locali, da complessità burocratiche o dalle incertezze normative che frenano gli investitori finanziari», rincara Dell' Elce, che punta sulla riforma delle politiche energetiche messa in campo dal ministro Marzano, in attesa del via libera parlamentare. «La prossima settimana vogliamo riportare il decreto al Senato e siamo decisi a porre la fiducia se incontrerà altre resistenze», ammonisce Dell' Elce. Dei 12.600 MW di produzione autorizzati dal ministero, in effetti, ben pochi sono stati realizzati e per quest' estate saranno disponibili al massimo un paio di migliaia di megawatt in più rispetto all' anno scorso.

10 maggio 2004

Pier Luigi Celli

Anima, identità, esperienza, narrazione. Le parole chiave che usa Pier Luigi Celli nel suo ultimo libro sarebbero adatte a descrivere un organismo vivente più che un' azienda. Celli, responsabile dell' identità aziendale del gruppo Unicredit, è stato direttore generale della Rai e ha costruito la squadra di alcuni grandi gruppi italiani, uno per tutti Omnitel. E questo bagaglio si vede: in Impresa e classi dirigenti (editore Baldini Castoldi Dalai, pagg. 144, 13 euro), sembra quasi di sentir parlare John Browne, l' amministratore delegato di Bp e il pioniere della cosiddetta adaptive enterprise. Immaginare l' interazione dei dipendenti di un' azienda come un complesso gioco di cellule all' interno di un organismo, del resto, è una metafora molto attraente, tipica delle teorie manageriali postfordiste, che hanno mandato in soffitta la concezione piramidale dell' impresa come macchina manovrata dall' amministratore delegato per utilizzare l' esasperata connettività introdotta con lo sviluppo di Internet: reti piatte ed estese i cui nodi sono perennemente in collegamento, anche quando si trovano a migliaia di chilometri di distanza. Ma non è da tutti il dono di saper insufflare la vita nella propria azienda, rendendola capace di trasformarsi con abilità camaleontica a seconda delle esigenze del mercato, pur senza smarrire la propria identità. Celli mette in luce questi limiti. Limiti ormai endemici nella grande industria italiana, che perde un pezzo dopo l' altro senza apparenti prospettive di resurrezione. Limiti imputati principalmente a una classe dirigente «egoista e senza anima, abile a semplificare e a controllare». Troppo poco in un mondo globalizzato in cui lo spessore degli individui si misura ormai su un' arena sempre più vasta e dove le competenze tecniche non bastano a dominare il presente e a scrutare il futuro. Alla tavola imbandita da Celli siede chiaramente un convitato di pietra, anche se non viene mai chiamato per nome: è Silvio Berlusconi, il sottinteso modello negativo di leader che recita la vita «come un teatrino, uno studio televisivo dalle pareti di cartongesso», a cui gran parte del libro s' ispira e si rivolge. La maledizione di una classe dirigente arrogante, ma al tempo stesso volatile e insicura, è secondo Celli alla base della decadenza che ha colpito l' Italia su tutti i fronti, sia su quello aziendale che su quello politico, diventati ormai intercomunicanti. «Nessuna élite degna di questo nome è mai nata nel deserto culturale in cui il confronto, il dibattito, la messa in discussione di idee, di punti di vista o di scelte di vita (in una parola: di valori), fossero considerati un inciampo per un pragmatico affermarsi degli interessi individuali o di gruppo, come scelta di fondo». Al fallimento e alla rinuncia della grande impresa s' intreccia così l' indebolimento della politica alta, producendo la legittimazione incrociata tra sistemi deboli. E siamo al «deserto narrativo» in cui, «inariditi gli antichi racconti che avevano celebrato il successo di uomini e imprese spesso memorabili (Olivetti, Pirelli, Fiat, Eni, Iri ), c' è dato solo di constatare la mancanza di nuovi filoni di racconto, di nuovi casi emblematici a cui poter attaccare nuovo slancio e nuova vitalità imprenditoriale». Resta il mito delle piccole e medie imprese, come serbatoio di ricchezza del Paese e sua assicurazione sul futuro. «Il piccolo - risponde Celli - ha fatto più della sua parte, ma il respiro, in difetto di strutture di supporto, di reti di connessione, di servizi rapidi ed efficienti, di istituzioni che non sanno uscire da una cronica irriformabilità, non può che restare corto». E allora? Allora non basta turare le falle, farsi il lifting. «Bisogna rovesciare il modello: dare per scontato che ciò che è piccolo e vitale può continuare anche a crescere, ma è alla politica vera che bisogna tornare se si vuole offrire un ancoraggio serio a quanti cercano un orientamento e una prospettiva». La politica «vera» come grimaldello per riproporre quella mediazione fra locale e globale fallita dalla grande industria: per riavviare un dibattito alto, ma soprattutto per tirare su nuovi «produttori di luoghi». Il vero leader, per Celli, è chi riempie di senso uno spazio e un tempo che prima non c' erano o non erano riconoscibili. Solo con gente così, che non ha bisogno di teatrini, si può rianimare un organismo ormai sull' orlo del collasso.

9 maggio 2004

Burton Malkiel

Chi gioca a fare il prossimo Warren Buffett, non vada a chiedere consigli a Burton Malkiel, docente di Economia a Princeton e grande fautore dei fondi indicizzati. In una delle sue molte frasi celebri, Malkiel ha sostenuto che uno scimpanzé bendato potrebbe selezionare un portafoglio tirando freccette sulle pagine finanziarie di un quotidiano molto meglio di un qualsiasi esperto. E che il segreto di un buon investimento, soprattutto in periodi di rendimenti modesti come questo, sta nel contenimento dei costi, non nella scelta dei titoli.
Ma se il mercato ha sempre ragione, come lei teorizza, allora come si spiegano le bolle? E come si fa a batterle?
“Bella domanda. Ammetto che il mercato non ha sempre ragione, ma sul lungo periodo non vedo nessuno che sia stato capace di trovare i titoli giusti per batterlo, nemmeno gli hedge funds. I gestori che sono riusciti a battere il mercato nel ’98-’99 poi sono andati lunghi distesi nel 2000-2002 e viceversa. Dalle mie ricerche emerge chiaramente che chi fa bene in un periodo non è mai lo stesso che fa bene nel periodo successivo: i migliori fondi degli anni Sessanta sono andati male nei Settanta e i più bravi degli Ottanta erano allo sbando nei Novanta. Perciò il mio consiglio resta sempre uguale: piuttosto che cercare un ago nel pagliaio, comperate il pagliaio”.
Un consiglio interessato da parte di uno che sta nel consiglio d’amministrazione del gruppo Vanguard, uno dei più noti fondi indicizzati del mondo?
“Guardi, io ho cominciato a dire che bisognava comperare il pagliaio nel ’73, quando i fondi indicizzati non esistevano nemmeno, con la prima edizione del mio libro A Random Walk Down Wall Street. Semmai sono loro che hanno preso spunto da me, non viceversa”.
E da trent’anni ripete sempre lo stesso consiglio?
“In un certo senso sì, anche se ho continuato modificare il libro, che l’anno scorso è arrivato all’ottava edizione, perché gli strumenti cambiano e gli investitori hanno bisogno di indicazioni concrete”.
Con un milione di copie vendute, ormai avrebbero dovuto capirla. Eppure oggi esistono più fondi comuni a gestione attiva che titoli a Wall Street…
“Già, sembra incredibile. E nell’ultima edizione del mio libro mi sono divertito a esaminare dettagliatamente i loro rendimenti e a paragonarli con quelli dei fondi indicizzati. Il risultato non lascia spazio ad alcun dubbio. Nell’ultimo decennio, ad esempio, il Vanguard Total Stock Market Index Fund, che rappresenta il più fedelmente possibile il mercato americano, ha battuto del 41% il fondo Magellan di Fidelity, uno dei più noti fondi a gestione attiva. Per di più ha imposto commissioni molto più basse. E in una prospettiva di rendimenti modesti come quella in cui ci troviamo, ridurre i costi diventa essenziale”.
Secondo lei si va verso rendimenti molto più modesti dell’ultimo decennio?
“Sì. Dall’82 al 2000, gli investitori hanno goduto di rendimenti medi annuali del 18%. Se calcoliamo il rendimento medio dal ’26 ad oggi, si va sul 10% abbondante. Da oggi in poi, secondo me, non supereremo l’8%. Sempre il doppio dei buoni del Tesoro, comunque…”
Come si arriva a questa previsione?
“Molto semplice. Si tratta di una formula ben collaudata, che somma il tasso di rendimento del mercato (oggi un 2% scarso) e il tasso di crescita degli utili aziendali sul lungo periodo, che si avvicina al 6%. Mettendoli assieme si ottiene un 8% scarso ed è quello che gli investitori intascheranno secondo me, in media, nel prossimo decennio. Facendo lo stesso calcolo dal ’26 ad oggi, da qualunque momento si parta il risultato si avvicina moltissimo al rendimento effettivo ottenuto dagli investitori”.
Gli investitori che scommetteranno sul mercato…
“Chiaro”.
Ma nel suo libero lei non esclude completamente l’idea di puntare su qualche singolo titolo…
“Cosa vuole, dire a un investitore che deve assolutamente evitare di scommetere su singoli titoli è come dire a un bambino che Babbo Natale non esiste”.
Quali sono i suoi consigli per non fare troppi guai?
“Le regole fondamentali sono quattro: comprare solo azioni di aziende in grado di sostenere una crescita media al di sopra della media, tipo Microsoft o Pfizer; non comprare mai titoli che presentino un rapporto prezzo/utili molto superiore alla media, che oggi si aggira sul 20; scegliere aziende con una bella storia da raccontare, su cui gli investitori potrebbero costruire qualche castello in aria; cambiare pochissimo. Anche qui, sono convinto che per avere rendimenti alti bisogna avere spese basse”.
Lei in cosa investe?
“Il grosso è in fondi indicizzati, anche per l’obbligazionario (uso il Lehman Aggregate Bond Index Fund). Ma mi piace puntare su qualche singolo titolo. Altrimenti mi annoio”.

5 maggio 2004

Kilowatt salato? Per qualcuno è una manna

"In Italia il prezzo dell'energia è alto e resterà alto ancora per molti anni". Una iattura per i consumatori finali, ma Gianni Locatelli sorride soddisfatto a questa constatazione. Dopo una vita passata ai vertici del Sole 24 Ore, della Rai, dell'Istituto Tumori (e anche del movimento Libertà e Giustizia), oggi Locatelli punta a un futuro con la scossa come presidente della consociata italiana del gruppo Trafigura, uno dei primi trader mondiali di materie prime, sbarcata a Milano per cogliere le occasioni offerte dalla liberalizzazione del mercato dell'energia. E approfittare dei suoi prezzi stratosferici. "Ai prezzi alti - argomenta Locatelli - in Italia non c'è scampo: prima di soddisfare appieno la domanda, in forte crescita, ci vorranno molti anni, perché nessuno ha interesse a investire pesantemente nella generazione finché il mercato resterà così dominato dall'Enel e perché le autorizzazioni a nuove linee d'interconnessione con l'estero arrivano con il contagocce. Il petrolio resterà molto caro e il dollaro è destinato a salire. Così continueremo a produrre energia costosa, perché da noi manca il nucleare e in parte anche il carbone". Trafigura - società olandese specializzata nel trading di idrocarburi con un giro d'affari da 12 miliardi di dollari, una centrale operativa a Lucerna e uffici in tutto il mondo - vede nel mercato italiano una piazza molto appetitosa, poiché da noi l'energia si fa soprattutto con il petrolio e il gas. Ma lo considera soprattutto un buon trampolino per allargare ai chilovattora l'esperienza maturata nelle altre commodities. Trafigura Italia - con un giro d'affari di 165 milioni nel 2003 - compra e vende all'ingrosso anche sul mercato francese e tedesco. Importa energia in Italia da tutti i Paesi confinanti: "L'energia che ha rimesso in moto la centrale di Brindisi bloccata dal blackout - spiega Locatelli - l'abbiamo importata noi dalla Grecia". Riesce persino ad esportarla, una contraddizione in termini vista la carenza sul mercato domestico: "Dopo il blackout, quando il Grtn ridusse il carico delle importazioni dalla Svizzera - ricorda Locatelli - noi utilizzammo la linea per portare in Svizzera 250 MW di energia italiana". Vende all'ingrosso alle municipalizzate e ai grandi distributori. Al dettaglio a oltre 400 clienti idonei. E rappresenta una delle poche società indipendenti, non legate a grandi compagnie elettriche, produttori o distributori, che opererà sulla Borsa italiana dell'energia dalla fine di quest'anno. "Ma non vogliamo soltanto vendere e comprare energia come stiamo facendo adesso - precisa l'amministratore delegato Vincenzo Vadacca, ingegnere nucleare ex Ansaldo - perché nelle condizioni attuali i margini più interessanti si ottengono sulla generazione più che sul trading puro". Ecco perché Trafigura Italia ha messo mano al piccone, per costruire una piccola centrale turbogas a Gorizia in società con la municipalizzata triestina Acegas e un'altra un po' più grande a Nola, oltre a tre merchant lines d'interconnessione con la Slovenia e la Croazia. Per ora tutti i grandi investimenti successivi alla liberalizzazione si sono concentrati soprattutto sul repowering di centrali già esistenti, comperate da Enel al momento della dismissione delle tre gen.co oppure interne agli stabilimenti produttivi delle grandi industrie. Pochissimi hanno costruito centrali da zero. Trafigura lo sta facendo perché le sue centrali non saranno come tutte le altre. "La nuova struttura dei consumi elettrici, derivata dal declino del settore manifatturiero, sconsiglia la costruzione di impianti molto grandi, che sono i più lenti ad accendersi", spiega Vadacca. Piccolo è bello, per saltare agilmente di picco in picco, accendendo l'impianto quando la domanda è più forte e i prezzi volano, per spegnerlo invece nei periodi di calma. Flessibilità è la parola d'ordine in un mercato come quello italiano, l'unico in Europa dove si possa contare su picchi frequenti e costosissimi. Con appena 60 MW di potenza e una turbina d'aereo GE per partire a razzo, la centrale a gas di Gorizia (un investimento da 35 milioni) avrà un costo di generazione molto basso: 590 euro per kW contro costi oscillanti fra i 640 e gli 830 euro per le centrali dismesse da Enel. Entrerà in funzione a fine luglio. Per Nola, un investimento da 63 milioni con potenza doppia, ci vorrà più tempo: il via alla produzione è previsto per la fine dell'anno prossimo.Sulle linee d'interconnessione con Slovenia e Croazia Trafigura è ancora in attesa dell'autorizzazione da parte del Grtn, che si attende di giorno in giorno. "In questo modo - commenta Locatelli - avremo accesso a due mercati molto interessanti. Quello della Slovenia perché ha molta energia da esportare e quello della Croazia perché ha delle ottime interconnessioni con Bulgaria e Romania, grandi produttori di energia destinati a entrare ben presto nell'Unione europea". Sul fronte sloveno l'investimento da 140 milioni sarà condiviso con Terna e Acegas, mentre sul versante croato (un cavo sottomarino da altri 140 milioni) solo con Acegas e la croata Montmontaza. Bucare i confini è il sogno di tutti i trader: sul trucco di comperare a buon mercato di là per vendere a caro prezzo di qua si reggono i bilanci di diverse compagnie elettriche italiane. Peccato che i consumatori non possano fare shopping all'estero. Ancora.

3 maggio 2004

Nero, sporco e cattivo. O no?

Nero, sporco e cattivo. Fa tanto «fumo di Londra» e soffre del complesso di Kyoto. Eppure il carbone è una fonte energetica molto economica, largamente disponibile e priva di controindicazioni geopolitiche. Non a caso il suo uso è cresciuto quasi del 50% negli ultimi 25 anni, sfidando ambientalisti e luoghi comuni. In Europa il 32% dell' energia elettrica proviene dal carbone, con punte del 52% in Germania (come negli Stati Uniti), o del 40% nel Regno Unito. La Francia, che ha appena chiuso la sua ultima miniera in Lorena, fa eccezione: con un 76% di energia prodotta dal nucleare se lo può permettere. «L' Italia è l' unico Paese d' Europa che, pur non facendo ricorso al nucleare, ha una quota molto bassa di utilizzo del carbone, sul 9%», spiega Andrea Clavarino, presidente di Assocarboni e anche dell' associazione europea Euracoal. È questa anomalia, dovuta a motivi storici ma anche a pregiudizi duri a morire, una delle cause principali del caro-bolletta in Italia rispetto agli altri Paesi d' Europa. Petrolio e gas, entrambi combustibili costosi, coprono infatti il 70% del nostro fabbisogno energetico. E con la progressiva riduzione dell' olio, caro e inefficiente, la quota del metano è destinata ad aumentare: così nel 2006, mentre l' Europa continuerà a basare la propria produzione elettrica sull' accoppiata nucleare e carbone almeno al 60%, l' Italia andrà per la stessa percentuale a gas naturale, che importiamo soprattutto da Russia ed Algeria. «Al contrario del petrolio e del gas - commenta Clavarino - il carbone garantisce la sicurezza dell' approvvigionamento energetico, perché le riserve mondiali sono distribuite su oltre cento Paesi diversi, dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Germania all' Australia, dalla Russia al Sudafrica, in concorrenza fra di loro. Non c' è il rischio di cartelli o di crisi politiche dirompenti, perché si può facilmente cambiare fornitore. Può viaggiare senza problemi perché non è esplosivo né inquinante per il suolo o per l' acqua. Se va a fondo si può addirittura recuperare senza micidiali maree oleose. E il prezzo basso unito ai minori costi di produzione lo rende veramente competitivo rispetto alle altre fonti». Secondo l' ultima rilevazione dell' Autorità per l' energia, in effetti, produrre un chilowattora di energia con il carbone costa 2,18 centesimi, con l' olio combustibile 5,51 centesimi e con il metano 6,34 centesimi. È da questo dato che l' amministratore delegato dell' Enel, Paolo Scaroni, è partito quando ha deciso di aumentare fino al 20% l' uso del carbone nella produzione di energia dell' ex monopolista. Un proposito destinato a sollevare non poche polemiche. Ma Enel, che ha sette centrali a carbone e ne sta riconvertendo un' ottava nei pressi di Civitavecchia, ha fatto i compiti a casa. «Oggi possiamo abbattere quasi completamente, con tecnologie molto sofisticate, le emissioni nocive alla salute, come l' anidride solforosa, gli ossidi di azoto e le polveri», spiega Gennaro De Michele, responsabile della ricerca Enel. Una centrale a carbone può ridurre anche del 70-80% le emissioni nocive rispetto ad una vecchia a olio. Nell' ultimo quinquennio i produttori italiani di energia hanno investito complessivamente oltre 4 miliardi di euro per l' ambientalizzazione delle centrali a carbone. «Gli inquinanti - precisa De Michele - vengono abbattuti con la combustione a stadi del carbone e con la depurazione dei fumi. Quel che non si può abbattere è l' anidride carbonica». Il carbone, quando brucia, produce quasi il doppio di anidride carbonica rispetto al metano. Il gas non è nocivo per l' uomo, ma è additato dal protocollo di Kyoto come il principale responsabile dell' effetto serra. Può essere compensato con un maggiore ricorso alle fonti rinnovabili, su cui Enel ha un piano di sviluppo da un miliardo entro il 2008. O si può cercare di sequestrarlo in depositi naturali sotterranei. Oppure si può seguire la via dell' efficienza: usando meno combustibile per gli stessi chilowattora si riducono le emissioni di CO2. L' Enel segue tutte e tre le strade. «Stiamo studiando insieme all' Istituto nazionale di vulcanologia e all' Enea - racconta De Michele - la possibilità di sequestrare l' anidride carbonica nei giacimenti petroliferi esauriti della Pianura Padana. E stiamo costruendo accanto alla centrale di Fusina (Ve), nell' Hydrogen Park di Porto Marghera, un impianto di gassificazione ad altissima efficienza per trarre l' idrogeno dal carbone». Entrerà in funzione nel giro di due anni.