27 giugno 2004
Nuova corrente per il sistema
Prezzi alti e prospettive di rapida crescita della domanda: gli ingredienti per attirare investimenti nella costruzione di nuove centrali ci sarebbero tutti, ma per ora il cavallo non beve. O non beve abbastanza in fretta per mettere l’Italia al riparo da altri blackout. Delle 35 centrali autorizzate negli ultimi due anni dal ministero delle Attività produttive, per circa 18mila megawatt complessivi, quasi la metà rimane sulla carta. Dall'apertura del mercato elettrico nel marzo '99 a oggi, l'avvio di nuovi impianti in Italia si conta sulle dita di una mano. Risale appena allo scorso ottobre la partenza della prima nuova centrale, costruita da EniPower a Ferrera Erbognone, in Lomellina, con una potenza installata di oltre mille megawatt. Per quasi cinque anni, dunque, il parco di generazione italiano è rimasto sostanzialmente fermo. Poi è stata la volta dell'impianto di Ostiglia, nel Mantovano, dove Endesa Italia ha varato a fine novembre la conversione al ciclo combinato di 800 MW di potenza installata. Poco lontano, a Sermide, sono partiti i primi gruppi dei complessivi 1200 MW riconvertiti da EdiPower. Nei giorni scorsi EniPower ha cominciato a far girare le turbine della nuova centrale di Ravenna. Ed è entrato in esercizio il gruppo da 400 MW di Ponti sul Mincio, costruito da Asm Brescia e Agsm Verona. Altri impianti minori, come quello di Gorizia, cominciano a funzionare qua e là. Primi segni di una rinascita del mercato, ben lungi però dal soddisfare i picchi dei consumi di energia degli italiani, attesi nei prossimi giorni dal Grtn. Fine luglio e inizio agosto saranno le fasi più critiche - grazie al termometro che sale e al progressivo svuotamento dei bacini idroelettrici - e presenteranno la sfida più ardua anche per le quotazioni di Borsa, che in presenza di forti carenze rischiano d'impennarsi.
In complesso, dei 35 via libera rilasciati dal ministero delle Attività produttive dal 2002 a oggi, per un totale di quasi 18.000 MW, solo 22 cantieri, per circa 10.000 MW, sono già stati avviati e per poco più di 2.000 MW sono già terminati. Si lavora un po' dappertutto, ma soprattutto al Sud. Enel, che giorni fa ha messo in cantiere l'avvenieristica centrale siracusana di Priolo, ha cominciato il rodaggio dell'impianto siciliano di Termini Imerese, dopo una radicale ristrutturazione. Edison ha appena avviato il quarto cantiere in due anni, in Calabria a Simeri Crichi, dove sorgerà una centrale da 800 MW a ciclo combinato, alimentata a gas naturale. Altri 2.000 MW complessivi sono già in costruzione ad Altomonte (800 MW), Candela (400 MW) e Torviscosa (800 MW). Energia (gruppo Cir) ha avviato la costruzione di una centrale da 800 MW a Termoli. Sono partiti i lavori di Aem Torino per un impianto da 770 MW a Moncalieri. Ma tutti, prima di metter mano al piccone, hanno dovuto combattere per anni contro i veti delle amministrazioni locali, i ricorsi al Tar, i picchetti e i cortei con in testa sindaci, vescovi e assessori. Agli italiani piace molto avere il frigorifero o la lavatrice (e negli ultimi tempi anche il condizionatore), ma avere una centrale dietro casa non piace a nessuno. In alcune regioni, come la Campania, il deficit energetico è tale che ci si chiede come facciano a mandare avanti le proprie industrie. Non a caso le quotazioni della Borsa elettrica sono state suddivise in zone e il prezzo dell'energia nell'area Sud risulta molto più alto.
Ma non ci sono solo i ritardi causati dall'estrema litigiosità degli enti locali. Anche i produttori di energia non vedono completamente di buon occhio questa corsa ai nuovi impianti. Troppi megawatt in più potrebbero generare una sovracapacità produttiva che in qualche anno finirebbe per tagliare le gambe ai prezzi del chilowattora, com'era accaduto nel Regno Unito dopo la liberalizzazione del mercato. Anche per questo gli investimenti nel settore sono molto prudenti e più di una centrale che vede tutti d'accordo non viene costruita, tanto che al ministero hanno deciso d'istituire un limite di un anno alla validità delle autorizzazioni, che poi decadono, per incentivare i produttori ad usufruirne in tempi ragionevoli. Non a caso delle 80 domande pendenti al ministero, per circa 50mila MW complessivi, è prevedibile che solo poche verranno davvero realizzate. E anche quelle che arrivano al cantiere, spesso non vengono realizzate dalla società richiedente, che alla fine dell'iter si rivende il pacchetto di autorizzazioni a qualcun altro, con più soldi in tasca da investire su questo mercato. Com'è successo al progetto di Teverola, in provincia di Caserta, dove il gruppo Merloni ha ceduto i diritti di costruzione a Raetia Energie, l'azienda grigionese che ha costruito anche la tratta svizzera del famoso elettrodotto fra San Fiorano e Robbia, fermo da nove anni per l'opposizione degli enti locali italiani.
A fronte del fabbisogno previsto per quest'anno, sarà difficile quindi superare l'estate senza distacchi di corrente, perché la potenza disponibile del sistema elettrico italiano per ora non va oltre i 50mila MW e l'import è stato ridotto a circa 5mila MW per motivi di sicurezza. Il divario fra potenza installata (quasi 77mila MW) e potenza disponibile è una delle grandi debolezze del sistema, dovuta alla variabilità delle fonti idroelettriche e alle inefficienze causate dal caldo nelle centrali termoelettriche o sulle linee ad alta tensione. L'altra è l'estrema lentezza con cui procede l'incremento della capacità produttiva rispetto al ritmo di crescita del fabbisogno di energia del Paese. In base ai calcoli del Grtn, da quest'anno l'Italia entrerà nel novero di quei Paesi ricchi dove la richiesta estiva di energia supera quella invernale: contro un picco invernale di 55.500 MW, il picco estivo potrebbe toccare i 55.800 MW. Già l'anno scorso i due picchi erano stati quasi equivalenti: 53.400 MW d'inverno contro 53.100 MW d'estate. Ma basta andare indietro di pochi anni per constatare la differenza: nel 2000 il picco invernale si era attestato sui 49.713 MW, mentre il picco estivo si era fermato a 47.383 MW. I consumi di energia degli italiani, quindi, sono a una svolta. Non così la produzione.
Liberalizzazione alla svolta
Con l'inizio di luglio anche in Italia, come nel resto d'Europa, la liberalizzazione del mercato elettrico è entrata nel vivo, ampliando il parco clienti liberi a tutte le partite Iva e lasciando nel mercato vincolato solo le utenze familiari. D'un balzo la platea dei consumatori che possono cambiare fornitore di energia è passata così da circa 150mila a 7 milioni di utenti. Il processo di liberalizzazione dei mercati energetici europei si basa su una decisone storica, adottata a Bruxelles il 25 novembre 2002, per preparare il terreno alla creazione del più vasto mercato al mondo dell’energia elettrica e del gas. L'accordo del 2002 - che ha fissato l'ultimo termine per l'avvio della concorrenza al 1° luglio 2004 per gli utenti industriali e al 1° luglio 2007 per quelli domestici - è il punto di arrivo di un lungo percorso, cominciato negli anni Novanta: la Commissione europea ha adottato una direttiva sull’elettricità nel ’96 e due anni dopo una sul gas. Grazie a questi strumenti giuridici, la maggior parte dei Paesi europei è arrivata alla scadenza dell'inizio di luglio già con un elevato grado di apertura del mercato. Attualmente, nell’Ue, sono liberalizzati in media i due terzi della domanda elettrica e circa l’80% della domanda di gas. L'Italia si colloca nella fascia intermedia per livello d'apertura, con Regno Unito e Paesi scandinavi già molto avanti nel processo e Francia e Grecia ancora molto indietro.
Nel Regno Unito, considerato il benchmark europeo di tutte le liberalizzazioni, l'apertura del mercato elettrico è cominciata già negli anni Ottanta, con la privatizzazione in blocco di British Gas. Il mercato elettrico invece è stato privatizzato a settori: prima la produzione, poi la distribuzione e la vendita. Ma dopo lo "spezzatino" iniziale, ora è già ben avviata la fase della concentrazione. Delle 14 società di distribuzione uscite dalla privatizzazione non ne sono rimaste che sei, di cui la metà in mani estere. Delle società di vendita ne sono rimaste sette, su cui dominano i tedeschi con Eon e Rwe e i francesi di Edf, padroni anche di London Electricity. Dal 2001, quand'è partita la Borsa (chiamata Neta) a oggi il prezzo dell'energia all'ingrosso è crollato del 40% e per le utenze familiari le tariffe si sono ridotte del 20%. Da allora ad oggi il 40% delle famiglie ha cambiato fornitore.
La situazione è del tutto antitetica in Francia, dove Edf e Gdf continuano a farla da padrone e il mercato è quasi impenetrabile agli stranieri (solo Electrabel e Vattenfall per ora sono riuscite a entrare, con quote molto basse). Nel mercato dell'elettricità, Edf ha l'80% della produzione e chiaramente le utenze familiari sono ancora vincolate, come in Italia. Anche sul mercato dei grandi consumatori industriali, il cambio di fornitore è molto modesto, attorno al 15%, quando in Italia già la metà ha cambiato fornitore e nel Regno Unito tutti.
L'economia europea consuma il 15% dell'energia prodotta a livello globale, con una crescita media annua del 2% negli ultimi dieci anni. Si basa essenzialmente sui combustibili fossili (petrolio, carbone e gas naturale), che rappresentano oltre la metà del suo consumo totale, di cui circa due terzi sono importati. L'offerta interna di energia, dove il nucleare è la voce più consistente, copre appena la metà del fabbisogno. In Italia, dove i combustibili fossili coprono i quattro quinti dei consumi e manca completamente il nucleare, la dipendenza dall'estero supera l'80% del fabbisogno. Ma alla lunga, con lo sviluppo di un mercato europeo integrato, queste differenze interne dovrebbero smussarsi.
La presenza di un grande mercato Ue darà un notevole contributo alla sicurezza dell’approvvigionamento, a condizione di migliorare l’attuale infrastruttura di rete e di creare un numero sufficiente d'interconnessioni fra le varie reti nazionali, oltre a stabilire regole chiare per gli scambi transfrontalieri. Nell'accordo del 2002 sono state già tracciate le linee-guida per l’integrazione del mercato, in base alle quali almeno il 10% della capacità delle reti nazionali dev'essere interconnessa. Scopo del regolamento è arrivare a un approccio armonizzato tra vari i Gestori di rete, in materia di tariffe di accesso alle reti, mediante un sistema di compensazione per i flussi transfrontalieri di energia elettrica e attraverso un meccanismo armonizzato di definizione dei corrispettivi di accesso, non correlati alla distanza.
Per far crescere entro il 2005 l'interconnessione al 10%, la decisione identifica 12 assi di progetti prioritari d'interesse europeo, di cui 7 nel campo delle reti elettriche (tra questi il rafforzamento delle interconnessioni dell’Italia con la Francia, l’Austria, la Slovenia e la Svizzera) e 5 nel campo delle reti del gas (tra i quali la costruzione di gasdotti dall’Algeria alla Spagna, alla Francia e all’Italia) e fornisce l’elenco aggiornato dei progetti d'interesse comune che possono accedere al finanziamento Ten, così com'è stato fatto per le reti ferroviarie. Tra questi: la linea S.Fiorano-Robbia (Italia-Svizzera); il collegamento tra Cordignano e Lienz (Italia-Austria); lo studio per una nuova linea d'interconnessione tra l’Italia e la Slovenia; la proposta avanzata al gestore francese per una nuova interconnessione tra l’Italia e la Francia; il cavo sottomarino con la Sardegna e il collegamento tra la Calabria e la Sicilia.
17 giugno 2004
Una rete piena di buchi
A nove mesi dal blackout del 28 settembre, l'Italia brancola ancora nel buio. Sappiamo che i principali responsabili di quelle ore drammatiche sono stati gli operatori svizzeri, che non hanno comunicato con sufficiente chiarezza la gravità della situazione. Ma i difetti della rete italiana, che hanno consentito al grande buio di estendersi su tutta la penisola (tranne la Sardegna) e di rimanerci in certe zone per 19 ore filate, non sono ancora stati individuati nei dettagli. Conclusa la settimana scorsa l’indagine conoscitiva dell’Autorità, partono ora le inchieste formali fra produttori, distributori e Grtn per capire che cosa non ha funzionato in casa nostra, perché svizzeri e francesi hanno risolto i loro problemi in pochi minuti mentre da noi ci sono stati quattro morti e danni per 380 milioni di euro. E se siamo ancora in fase d’istruttoria, è legittimo supporre che le carenze di allora non siano state corrette, tranne i difetti più evidenti, come la congestione delle 16 linee d'interconnessione con l'estero, drasticamente ridotta dal Gestore della rete.
Dai rilievi dell’Autorità si deduce che la principale imputata è la rete di trasmissione nazionale, in questi giorni al centro dell'attenzione degli investitori per il maxi collocamento di Terna previsto per oggi. La rete italiana ad altissima tensione è lunga 22.318 chilometri: 74,1 metri di cavo per ogni chilometro quadrato. In Germania ce ne sono 110,7, in Francia 86,4, in Austria 74,2 (ma la densità di popolazione è la metà della nostra). Perfino le linee greche sono più robuste, con 80,6 metri di cavo per chilometro. “La rete è ferma da almeno cinque anni – spiega Davide Tabarelli, direttore del Rie (Ricerche industriali energetiche) di Bologna – e quindi c’è poco da stupirsi che sia andata in tilt al primo imprevisto. In un caso come quello accaduto in settembre, un sistema che si rispetti dovrebbe quantomeno avere un automatismo per isolare Piemonte e Lombardia dal resto d’Italia”. Malgrado l'entusiasmo dei risparmiatori per un titolo sicuro come un Bot ma più remunerativo, agli italiani infatti non piace avere Terna in casa.
Da Rapolla in Basilicata alle vette della Valcamonica o della Valtellina, nessuno ama i tralicci e l’inquinamento elettromagnetico che portano. “I due casi degli elettrodotti Matera-Santa Sofia e San Fiorano-Robbia, fermi da anni per l’opposizione delle comunità locali, sono solo la punta dell’iceberg”, precisa Tabarelli. Il tracciato Matera-Santa Sofia, di cui mancano solo 7 chilometri su 200 per lo stop degli abitanti del paese di Rapolla, dovrebbe collegare la zona di Napoli – gravemente deficitaria - con le due gigantesche centrali di Brindisi, che vanno al minimo per mancanza di un mercato di sbocco. “I costi di produzione nel Napoletano – fa notare Tabarelli - sono molto più alti che altrove, proprio perché scarseggia l’energia elettrica. Ma in generale tutta l’infrastruttura meridionale è molto carente: dorsale adriatica e dorsale tirrenica sono troppo poco collegate e il passaggio di energia spesso dipende da un filo singolo invece che da una rete”. Il Sud della Calabria, dove si stanno costruendo varie centrali importanti, è quasi isolato: lo collega al resto d’Italia una linea su cui non passano più di 300 MW. Ma è inutile costruire centrali se poi l’energia non può arrivare a destinazione. “Anche Sicilia e Sardegna, che producono più di quanto consumino, avrebbero bisogno di un raddoppio delle linee, per non parlare dell’interconnessione con la Grecia”, spiega Tabarelli.
All’altro capo della penisola, la tratta italiana dell’elettrodotto San Fiorano-Robbia, che aumenterebbe di un quarto (1500 MW) la disponibilità di corrente importata dalla Svizzera, è ferma da nove anni per l’opposizione delle comunità locali in Valcamonica e in Valtellina. E non entrerà in funzione nemmeno quest’estate per intoppi burocratici, malgrado l’accordo già firmato da mesi al ministero delle Attività produttive. Nel frattempo la parte svizzera, da Robbia (nei Grigioni) al confine con l’Italia, è già pronta e aspetta di essere collegata. Un'altra ciambella di salvataggio contro il blackout che galleggia da sola senza pretendenti. “Ma le carenze più vistose sono nel Nord-Est – fa notare Giuseppe Gatti di Energy Advisors – dove siamo costretti a rinunciare a una linea d’interconnessione con la Slovenia da 1300 MW già esistente, per questioni di sicurezza. La strozzatura di Dolo, vicino a Venezia, isola praticamente tutta l’area orientale del Paese, da cui potremmo importare più energia se ci fossero più linee”.
Non è solo una questione di dimensioni della rete, che il piano appena varato dal Gestore prevede di ampliare di 1.900 chilometri, per un investimento di 1.700 milioni di euro. “La rete italiana dovrebbe diventare più fitta e più ramificata – commenta Piero Manzoni, responsabile dell’area Power di Siemens Italia – ma soprattutto più moderna. Gli elettrodotti non significano soltanto tralicci, ma anche cavi interrati o linee gas insulated, molto meno inquinanti. I sistemi di controllo e monitoraggio digitali, che correggono l’errore umano, sono poco diffusi”. Nel caso del 28 settembre, un sistema più efficiente di sconnessioni e reinstradamenti automatici dei flussi avrebbe limitato quell’effetto domino che ha spento perfino la Sicilia. Proprio il malfunzionamento di una serie di automatismi ha reso il blackout particolarmente devastante: dagli impianti che si sono spenti, mentre avrebbero dovuto restare accesi sui gruppi ausiliari, all’azione di alleggerimento automatico, che non ha raggiunto i livelli previsti dalle regole tecniche di connessione. “E’ stato riscontrato – precisa addirittura l’Autorità – che un certo numero di imprese distributrici connesse alla rete di trasmissione nazionale non sono dotate di dispositivi di alleggerimento automatico del carico”.Sulle responsabilità della débacle non c’è ancora chiarezza. Ma sulla necessità di potenziare la rete non ci sono dubbi.
15 giugno 2004
James Surowiecki
Per sapere quanto varrà un certo titolo fra due settimane o due mesi, è meglio chiedere a un analista del settore o piazzarsi davanti alla porta della Borsa di Milano e rivolgere la stessa domanda a tutti quelli che escono, facendo poi la media delle risposte? Parrà incredibile, ma Jim Surowiecki, titolare della pagina finanziaria del "New Yorker" e autore del libro "The Wisdom of Crowds", sceglierebbe la seconda strada.
La tesi centrale del suo libro è che i gruppi hanno quasi sempre ragione e certamente molto più spesso dei singoli individui, anche dei migliori. Quindi chi punta contro l'opinione del mercato sbaglia. Ma da dove viene tutta questa fiducia nella pazza folla? "Dalla sperimentazione scientifica. Ci sono ampi studi nell'ambito della ricerca psicologica, sociologica e finanziaria che lo dimostrano. Il primo esperimento lo ha condotto nel 1906 uno scienziato inglese, Francis Galton, un elitista convinto avversatore dei metodi democratici. Gli capitò per caso di assistere a un concorso in una fiera agricola, dove si chiedeva di stimare il peso della carne prodotta da un certo manzo dopo averlo macellato. Fra gli ottocento partecipanti c'erano anche degli allevatori, ma la grande maggioranza era composta da curiosi di passaggio, come lui. Finito il concorso, Galton comprò tutti i biglietti su cui i partecipanti avevano scritto le loro ipotesi, per farci sopra dei test. Con suo grande stupore, scoprì che la media delle soluzioni suggerite dalla folla era di 1.197 libbre e dopo la macellazione la carne del manzo ne pesava 1.198. Nessuno dei singoli scommettitori era andato così vicino alla verità".
Non poteva essere una coincidenza? "Può essere, ma dagli esperimenti successivi sappiamo con certezza che le risposte di massa sono sempre più corrette delle risposte individuali. Una classica dimostrazione è quella del vaso pieno di mentine, condotta da Jack Treynor - un famoso economista che ha insegnato alla Columbia e ora è presidente di Treynor Capital Management, ndr. - tra i suoi studenti. Sollecitati a indovinare quante mentine erano contenute nel vaso, la risposta collettiva fu di 871, mentre nel vaso ce n'erano 850. Solo uno studente sui 56 presenti si avvicinò di più alla verità. Treynor ha ripetuto l'esperimento innumerevoli volte e il risultato non è mai molto diverso. Oppure consideriamo la trasmissione Who wants to be a Millionaire. Quando un concorrente non sa una risposta, può scegliere se farsi aiutare da una persona scelta precedentemente come l'esperto di fiducia, oppure dalla folla del pubblico. In generale verrebbe da pensare che chiedere all'esperto sia la scelta migliore, invece è stato dimostrato che le risposte degli esperti sono giuste nel 65% dei casi, mentre le risposte del pubblico (molto popolare) sono giuste nel 91% dei casi".
Ma se la folla ha sempre ragione, da dove nascono le bolle azionarie o le dittature? "Buona domanda. Perché la folla abbia ragione ci sono quattro condizioni chiave da rispettare: dev'essere una folla diversificata, in modo che ognuno contribuisca con informazioni diverse; dev'essere composta da persone indipendenti, che non badano a quello che stanno facendo gli altri; dev'essere decentralizzata, in modo che nessuno possa pilotarla dall'alto; e deve avere a disposizione un meccanismo, come quello del prezzo per i mercati, capace di riassumere in un dato il verdetto collettivo".
Quand'è che l'opinione collettiva deraglia? "Tutte le volte che la massa subisce una forte influenza esterna e agisce in base a dei pregiudizi collettivi, tende a prendere delle decisioni sbagliate. Ad esempio quando certe opinioni vengono soffocate o quando si comincia a dare troppa importanza a quello che stanno facendo gli altri".
Come nelle bolle… "Esattamente. Le bolle sono un classico esempio di folla stupida: invece di badare a quanto vale davvero un'azienda, in quel caso gli investitori badano solo a quanto gli altri pensano che quell'azienda valga. Il paradosso della saggezza delle masse è che le migliori decisioni di gruppo vengono da una somma di diverse decisioni individuali, mai da un consenso collettivo".
Ma per l’investitore questo cosa comporta? “Il mio consiglio è di comperare sempre il mercato, investendo in fondi indicizzati, perché è molto difficile riconoscere i momenti in cui bisogna andare contro l’orientamento delle masse. So che è molto noioso, ma in questo modo si circoscrivono le perdite a rare cadute momentanee, mentre sul lungo periodo si va sul sicuro”.
Allora gli investitori che cercano di andare sempre controcorrente sbagliano? “E’ giusto andare controcorrente solo quando ci si accorge che l’opinione delle masse sta deragliando, in preda al fervore speculativo. Ma non è facile riconoscere il momento giusto: spesso si rischia di agire troppo presto e si finisce per rimetterci di più”.
In questo momento vede bolle in arrivo? “Sì, la bolla del nanotech. Siamo ai primordi, perché la maggior parte delle società nanotech sono ancora piccole e in mano a privati. Si tratta di una fase simile a quella vissuta nel ’93 - prima dell’ipo di Netscape, ndr. - dalla bolla Internet. Probabilmente la prima grossa ipo del nanotech ci sarà l’anno prossimo. Il nanotech è una di quelle tipiche innovazioni con vaste ricadute su settori molto diversi dell’economia, come la ferrovia, l’elettricità o Internet, che tendono a scatenare delle bolle”.
Quindi meglio tenersi alla larga? “Non dico questo. Ma è chiaro che la maggior parte delle aziende che ora piacciono tanto a Wall Street, per non parlare di quelle che sognano ipo milionarie, nel giro di un decennio saranno sparite. Questo è il modo in cui si sviluppano nuove industrie negli Stati Uniti: sorge un’orda di aziende, dopo un po’ le più deboli muoiono e solo le migliori sopravvivono, per diventare alla lunga dei colossi. Il prezzo dell’innovazione è che si finisce per mettere soldi anche nelle cattive idee oltre che nelle buone. Il paradosso è che spesso le perdite dei singoli sono un guadagno per la società. Grazie alla voglia di rischiare degli investitori, infatti, le aziende riescono a fare molta più ricerca di quanto sarebbe economicamente razionale, sperimentano nuove idee e soluzioni che con meno soldi a disposizione non verrebbero mai sperimentate. E’ un processo doloroso per chi ci perde, ma è il migliore processo mai inventato per finanziare l’innovazione”.
9 giugno 2004
Mercato elettrico: big bang o big flop?
Il big bang del mercato elettrico italiano non farà molto rumore. L'allargamento del parco utenti liberi da 150mila a circa sette milioni, che il calendario europeo fissa alla fine di questo mese, avverrà in sordina, "perché energia competitiva sul mercato italiano non ce n'è". Questa è la previsione di Giuseppe Gatti di Energy Advisors e di tutti gli altri esperti di energia, oltre che della maggior parte degli operatori. Mentre la domanda sale già alle stelle con i primi caldi - insieme alla febbre dei prezzi all'ingrosso, che superano ormai del doppio il prezzo di generazione preso a riferimento dall'Autorità per definire le attuali tariffe - sul mercato italiano continua a mancare la materia prima. Ma a ogni apertura del mercato, si sa, c'è bisogno di materia prima in eccesso per scatenare la concorrenza. Nelle fasi precedenti sono state usate le importazioni o l'energia Cip 6 per ampliare i margini di manovra. Oggi invece non c'è moneta corrente per dar fiato alla nuova tappa della liberalizzazione. "In queste condizioni - fa notare Gatti - per i concorrenti di Enel sarà molto difficile fare offerte convenienti ai nuovi utenti liberi". Con l'allargarsi del numero di clienti idonei, il delta di prezzo fra mercato libero e vincolato tenderà anzi a ridursi. A farne le spese saranno le piccole e piccolissime imprese (attive soprattutto nei settori del commercio e dei servizi) che con il 1° luglio speravano di accedere al meraviglioso mondo degli sconti sulla bolletta elettrica e che invece si troveranno davanti a un sistema ancora troppo ingessato per offrire grandi limature.
Con la prossima tappa, solo le utenze domestiche rimarranno affidate al mercato vincolato, cioè 23-24 milioni di famiglie che consumano meno di 60 terawattora (miliardi di kilowattora) l'anno sui 310 complessivi. Tutto il resto del mercato - ben tre quarti dei consumi - sarà potenzialmente libero. "E' un passaggio cruciale - spiega Davide Tabarelli, direttore del Rie (Ricerche industriali energetiche) di Bologna - perché stavolta avviene a valle della Borsa elettrica, partita in aprile. Anche se i prezzi sono destinati ad aumentare nelle prossime settimane e sono ancora molto legati all'operatore dominante, almeno c'è una certa trasparenza, che alla lunga stimola una maggiore concorrenza". Ma anche per Tabarelli nell'immediato non può esserci vera competizione: "Al massimo gli utenti potranno usare questa nuova apertura come uno strumento per chiedere servizi migliori, sarà difficile che riescano a spuntare grandi sconti".
Il passaggio più difficile, per gli utenti decisi a usufruire della libertà di scegliere, sarà trovare un fornitore alternativo: pochi nuovi entranti sono disposti a sviluppare un servizio commerciale capace di reggere l'impatto del mass market, visti i margini risicatissimi. A parte le inziative di aggregazione delle varie associazioni di categoria, infatti, di solito è grazie all’azione di un nuovo fornitore impegnato sul fronte della vendita, che un utente vincolato, soprattutto se di dimensioni piccole, accede al mercato libero. "Ma calcolando che un cliente costa ogni anno 40-50 euro di fatture e che il guadagno di vendita su ogni utente finale allacciato in bassa tensione è di due euro l'anno, per chi svolge solo l'attività di vendita il trade-off è improponibile", fa notare Antonio Urbano di Dynameeting, operatore indipendente leader nella fornitura alle piccole e medie imprese. Solo chi ha anche un'attività di produzione può estrarre qualche margine in più dai nuovi utenti liberi. Fra i più ottimisti, Mario Molinari, direttore generale di Energia (gruppo Cir), prende la prossima tappa con slancio, malgrado le difficoltà: "Tra i principali scogli tecnici da superare - spiega Molinari - ci sono i costi di trasporto diversi a seconda delle varie reti di distribuzione, quello che nella telefonia si chiamerebbe l'ultimo miglio. Per offrire un prodotto ugualmente valido a un utente di Milano, di Bologna o di Napoli, il nostro modo di prezzare l'energia deve tener conto di queste differenze. E quando si tratta di gestire migliaia di piccoli clienti la questione si complica". Malgrado ciò, Molinari è convinto che se non dal 1° luglio almeno dal 1° gennaio successivo (i contratti di fornitura in genere si stipulano su base annuale) qualcosa comincerà a muoversi. Anche Enel concorda e dopo le dolorose esperienze precedenti comincia già ad attrezzarsi, mettendo in moto la sua potente macchina commerciale per far rientrare dalla finestra i clienti che rischia di perdere dalla porta. Chi sa meglio dell'ex monopolista come affrontare il mass market?
7 giugno 2004
James Lovelock
Per salvare la Terra dalla catastrofe climatica bisogna ricorrere all' uso massiccio del nucleare. L' appello lanciato qualche giorno fa da James Lovelock, uno dei più famosi scienziati verdi del pianeta, fra i primi a denunciare l' effetto serra, sta sollevando un vivace dibattito fra gli ambientalisti e dovunque l' uso del nucleare sia stato fortemente limitato, come in Germania, dove non si costruiscono più centrali nuove e si punta a chiudere quelle esistenti man mano che invecchiano. Il primo effetto della moratoria nucleare è stato il ricorso crescente all' uso di combustibili fossili, come petrolio, gas o carbone, visto che le nuove fonti (soprattutto eolico e solare), non sono ancora sufficientemente competitive per sostenere il fabbisogno energetico di un Paese industrializzato. Con la conseguenza di aumentare significativamente le emissioni di anidride carbonica, principale responsabile dell' effetto serra, insieme ai prezzi dell' energia, sempre più legati alle quotazioni del petrolio. In Italia, l' unico grande Paese d' Europa che non si è limitato alla moratoria, ma ha anche chiuso le sue uniche quattro centrali funzionanti, oggi l' 80% dell' energia deriva da combustibili fossili e il suo prezzo medio è quasi doppio rispetto al resto d' Europa. Secondo gli ultimi dati dell' Enea, nel 2001 il nostro Paese ha conquistato il terzo posto nell' Ue per le emissioni di anidride carbonica dal sistema energetico (14%) e la tendenza è in forte crescita. Per Lovelock, biologo inglese diventato famoso per la teoria di Gaia, secondo cui la Terra sarebbe simile a un organismo vivente in grado di autoregolarsi, questo circolo vizioso va assolutamente spezzato. E in fretta. Perché tanta fretta? «Il ritmo del surriscaldamento della Terra è stato ampiamente sottostimato anche da chi, come me, se ne occupa da oltre vent' anni. Che la temperatura sia cambiata ce ne siamo accorti tutti in Europa: gli inverni sono più caldi, la primavera arriva in anticipo e si trasforma subito in estate, i ghiacciai delle Alpi si sciolgono sotto i nostri occhi. L' ondata di caldo che ha colpito l' anno scorso l' Europa continentale ha fatto ventimila morti e secondo un approfondito studio di un gruppo di scienziati svizzeri, il fenomeno è certamente legato all' effetto serra. Ma quello che gli europei non vedono sono le conseguenze sui ghiacci artici, dove il riscaldamento del clima è circa doppio rispetto alla fascia temperata. Dalla Groenlandia scende acqua a fiumi e nel giro di trent' anni la calotta artica, ancora più vulnerabile, potrebbe essere già completamente sciolta. A quel punto potremmo già avere grandi città costiere, come Londra, New York, Tokio o Calcutta, minacciate dall' acqua alta. Per non parlare di Venezia, dove il danno sarà ormai irrimediabile». Non le sembra un catastrofismo da film The day after tomorrow? «Quello è un film del tutto antiscientifico, ma coglie un dato di fondo: l' urgenza. A poco a poco i popoli dell' Occidente industrializzato si stanno accorgendo che andiamo incontro a un' emergenza. Le conseguenze dell' effetto serra si amplificano a vicenda, creando un' accelerazione complessiva del fenomeno finora mai vista. Ci resta pochissimo tempo per contrastare questa gravissima minaccia alla civiltà umana». Ma perché proprio con l' energia nucleare? «L' effetto serra va affrontato con misure immediate, come se fossimo in guerra. Ma l' industrializzazione non si può spegnere come una lampadina, perciò bisogna sostituire ai combustibili fossili una fonte alternativa già pronta. Il nucleare è l' unica fonte alternativa immediatamente fruibile: in attesa di svilupparne altre in futuro, non c' è altra soluzione. Bisogna che i miei amici verdi accettino l' evidenza e smettano di contrastarla». E il problema delle scorie? «L' opposizione all' energia nucleare è basata su timori irrazionali e del tutto antiscientifici, amplificati ad arte dalla lobby ambientalista. Anch' io sono un ambientalista, ma resto uno scienziato e basta leggere le statistiche per rendersi conto che il nucleare è la fonte energetica più sicura del mondo. I danni causati dalle fughe radioattive sono ridicoli rispetto a quelli derivanti dalla combustione di carbone o petrolio, ma perfino dalle dighe dell' idroelettrico. Bisogna smettere di demonizzare le scorie come pericolose. Sono sorvegliatissime e occupano un volume infinitesimale del nostro spazio: tutte le scorie prodotte dai reattori del Regno Unito, che funzionano da decine di anni, non riempirebbero uno stanzone di dieci metri per dieci». Ma allora perché insistere tanto sulla ratifica del protocollo di Kyoto da parte della Russia e degli Usa? «Già, perché? La ratifica della Russia è imminente, ma non sarà certo l' applicazione di queste regole ridicole a salvare l' umanità. È molto più utile quello che stanno facendo gli Usa, con tutti gli investimenti sull' idrogeno e lo sviluppo di un nuovo tipo di reattore nucleare ancora più sicuro ed efficiente. Purtroppo anche gli americani non percepiscono ancora quanto sia urgente intervenire in maniera radicale, anche se ci sono alcuni singoli Stati - come la California - che hanno introdotto restrizioni molto severe alle emissioni di anidride carbonica. Molto più severe degli accordi di Kyoto».
6 giugno 2004
La "tassa pubblicitaria" alle tv è giustificata?
Il programma s'interrompe, parte lo spot pubblicitario e la mano corre al telecomando. E' un riflesso condizionato, ormai, per milioni di telespettatori. Soprattutto nei Paesi, come gli Stati Uniti, dove l'enorme numero di canali televisivi invita allo zapping continuo, ma anche nelle aree ancora soggette all'oligopolio di poche emittenti, come in Italia, il salto dello spot è uno sport molto praticato. E c'è chi comincia a mettere seriamente in dubbio l'efficacia della pubblicità televisiva, in particolare per i marchi più maturi dei beni di largo consumo. "Negli ultimi cinquant'anni, le emittenti televisive hanno ricavato una sorta di tassa fissa dalle aziende produttrici di beni di largo consumo. Ma ho l'impressione che siamo entrati in una nuova fase, in cui queste aziende si stanno accorgendo che gli spot televisivi non funzionano più", spiega Andrew Shore, analista di Deutsche Bank e autore di un approfondito studio sul rendimento della pubblicità televisiva per i marchi maturi. "Le spese di questo tipo - secondo Shore - sono la prossima voce destinata a cadere sotto la scure delle grandi multinazionali".
Non stiamo parlando di noccioline: dei 500 miliardi di dollari spesi quest'anno nel mondo in pubblicità, circa il 40% finirà in spot televisivi. Ma per i colossi americani dei beni di largo consumo la "tassa alle tv" arriva al 60% di tutte le spese pubblicitarie, cioè circa 12 miliardi l'anno scorso. E secondo l'approfondito studio di Shore, gran parte di questi soldi è stata spesa a vuoto. Dopo aver esaminato la ricaduta degli investimenti pubblicitari televisivi sull'aumento dei volumi e degli utili nei principali 23 marchi dei prodotti di largo consumo lungo un arco di tre anni, Shore sostiene infatti che quegli spot hanno prodotto un ritorno positivo solo nel 18% dei casi sul breve termine e nel 45% dei casi sul lungo termine. Nella migliore delle ipotesi, quindi, meno della metà di quei soldi valeva la pena di essere spesa.
Un'affermazione ardita, che non tutti condividono. Secondo Robert Heath, docente di marketing all'università di Bath, è riduttivo calcolare le ricadute della pubblicità televisiva in base al puro e semplice ritorno sull'investimento: "Anche quando sono deliberatamente ignorati, i messaggi pubblicitari televisivi vengono comunque assorbiti a livello inconscio. E siccome la memoria implicita dura molto più a lungo della memoria esplicita, le immagini che associamo a un marchio, una volta imparate non si dimenticano più". Ma il tentativo di Shore di calcolare in maniera più precisa le ricadute degli investimenti pubblicitari in tv suscita il plauso di molte aziende. Jim Stengel, capo del marketing di Procter & Gamble (principale inserzionista Usa con 2,8 miliardi spesi in pubblicità nel 2003), tuona: "Muoviamo 500 miliardi di dollari all'anno con meno disciplina e meno dati di quanti ne abbiamo in mano per decidere se spendere centomila dollari in altri settori". P&G è l'unica casa produttrice di beni di largo consumo che ha cominciato recentemente a usare dei modelli basati sulle vendite per stimare il ritorno sugli investimenti nelle campagne pubblicitarie e anche dai suoi calcoli emergono forti dubbi sull'efficacia degli spot televisivi tradizionali. L'avvento della tv via cavo, con la conseguente frammentazione dell'audience (vent'anni fa le "big three" Abc, Nbc e Cbs avevano l'80% dell'audience, oggi il 40%) e la diffusione dei videoregistratori digitali, con cui si possono saltare gli spot, sta rendendo la pubblicità televisiva obsoleta. Ma se è vero che gli spot tradizionali non funzionano più, quali sono le alternative?
Per trovare altri canali bisogna fare i conti con la proliferazione dei media. I ragazzini americani passano ormai oltre 7 ore alla settimana alla consolle dei videogiochi, i quattro quinti delle famiglie hanno un allacciamento a Internet, di cui un quarto a banda larga (sarà la metà nel 2008) e un altro quarto ad alta velocità. Ne approfittano le pubblicità interattive, in cui si può rispondere a determinati segnali nei programmi tv attraverso il telecomando, un telefonino o Internet. Si usano gli sms per far partire campagne di marketing virale. Si mettono provocazioni in rete con metodi da guerilla marketing. Steve Heyer, presidente di Coca-Cola, ha recentemente dichiarato l'intenzione di abbandonare la tv per portare le bollicine fra i giovani con il cinema, la musica, i videogiochi, attraverso il product placement. Nel 2003 la spesa di Coca-Cola in pubblicità televisiva è scesa del 60%. Nel frattempo, il gigante di Atlanta ha aperto delle aree chiamate Coke Red Lounge nei centri commerciali, dove si può sentire musica o vedere un film e dove i giovani possono rilassarsi con un bicchiere di Coca-Cola in mano. Lo stesso ha fatto anche la Campbell, aprendo una catena di Soup Sanctuaries, dove offre una minestra rigenerante ai forzati dello shopping. La promozione attraverso esperienze positive s'inserisce perfettamente nel tentativo di vendere uno stile di vita più che un prodotto. Aziende come Estée Lauder o Starbucks si basano su questa concezione già da anni: sono molto parche nelle spese pubblicitarie e fanno piuttosto assegnamento sull'esperienza positiva dei clienti e sul loro passaparola. L'anno scorso Amazon ha bloccato una campagna televisiva giudicata inefficace e da allora si basa su promozioni dirette o su incentivi come la spedizione gratuita per attirare clienti. Di qui a soppiantare la tv, naturalmente, c'è tantissima strada da fare. Ma la fuga dal piccolo schermo è già cominciata.
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