“L’Italia ha bisogno di uno stimolo forte, come del resto l’Europa intera. Tagliare le tasse è una via rischiosa, ma in assenza di una politica monetaria espansionistica c’è poco altro da fare per dare un colpo di gas alla crescita”. Paul Krugman, professore di Economia a Princeton e commentatore politico sul New York Times, non è certo un appassionato di deficit di bilancio. Per stimolare l’economia italiana ed europea partirebbe da una politica monetaria diversa da quella applicata fino ad oggi dalla Banca centrale europea.
Tagliare i tassi, quindi. Non le pare un po’ tardi?
“In effetti il treno della ripresa è passato da un bel po’, ma l’Europa non ci è ancora montata sopra. La crisi più nera è superata, ma la crescita non ingrana. Perché dunque insistere con una politica monetaria che chiaramente non funziona? Sembra quasi che la crescita economica europea non interessi ai banchieri di Francoforte”.
In effetti il loro compito si limita a garantire la stabilità dei prezzi…
“Ma com’è possibile impostare una politica monetaria solo sulla difesa dall’inflazione? Se la minaccia viene da una direzione diversa che cosa si fa, si guarda da un’altra parte?”
C’è sempre la politica fiscale…
“Anche su quella la libertà di manovra è molto limitata dal Patto di stabilità, concentrato a regolare il deficit su base annuale, che tutto sommato conta poco. Sarebbe molto più sensato prendere in considerazione il peso complessivo del debito e limitare quello, o tenere sotto controllo il deficit dando un lasso di tempo più lungo di un anno per rientrare. Da quando sono entrate in vigore, le restrizioni imposte alla politica monetaria e alla politica fiscale europea hanno sicuramente aggravato la crisi, anziché alleviarla”.
Quindi via con i tagli alle tasse?
“E’ un buon sistema per rimettere in moto la domanda, ma va usato con giudizio, altrimenti si rischia di accumulare troppo debito”.
Preferisce altre misure di stimolo, come l’aumento della spesa pubblica?
“Fra le due possibilità nel caso italiano preferirei senz’altro tagliare le tasse, che da voi sono molto alte. I tagli fiscali non possono sostituire del tutto una politica monetaria espansiva, ma sono la misura che più le si avvicina. La spesa pubblica, invece, andrebbe semmai alleggerita ulteriormente, riformando il sistema pensionistico, che è troppo pesante”.
C’è già stato un tentativo in questo senso…
“Resta un sistema eccessivo, che incide troppo sul Pil. Non bisogna dimenticare che la popolazione europea – e in particolare quella italiana – sta invecchiando molto più rapidamente della popolazione americana. In queste condizioni un sistema pensionistico come il vostro non è più sostenibile. Non si può caricare sulle spalle dei giovani un peso di queste dimensioni e poi pretendere anche che si mettano a correre per far crescere l’economia”.
Quindi riforme strutturali…
“Sì, le riforme strutturali sono il segreto dei pochi Paesi europei, come il Regno Unito o la Spagna, che sono riusciti a mantenere un buon ritmo di espansione anche negli anni più difficili. La Germania invece è ferma, perché non ha messo a segno le riforme più urgenti, come quella del mercato del lavoro”.
E’ un problema anche italiano…
“Certo. Se si vuole stimolare la competitività dell’Italia bisognerebbe intervenire anche sul mercato del lavoro”.
In che modo?
“Bisogna essere chiari su un punto: la correlazione fra domanda e offerta vale anche per il mercato del lavoro. Se il governo riuscisse a far scendere i costi delle nuove assunzioni, le aziende assumerebbero di più e la disoccupazione scenderebbe”.
Quindi maggiore flessibilità?
“Maggiore flessibilità e maggiori incentivi alla mobilità. Assumere e cambiare lavoro deve diventare più facile, più naturale. Anche la contrattazione sui salari dovrebbe essere più flessibile. Queste sono le ragioni per cui negli Stati Uniti si creano più posti di lavoro che in Europa”.
Ma così non si rischia d’importare in Europa anche i problemi di povertà che lei tanto critica nel suo Paese?
“La disoccupazione è il male maggiore. Le disuguaglianze sono il male minore. Prima bisogna combattere la disoccupazione, poi le disuguaglianze, applicando misure che non interferiscano troppo con il mercato del lavoro. Quando i sussidi sono talmente alti da disincentivare la gente a trovarsi un lavoro, come in Germania, le ricadute sono devastanti”.