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2 agosto 2004

Ray Dalio

I tassi d'interesse in risalita tagliano le gambe ai bond: un dato di fatto da cui non si sfugge o un mito da sfatare? Ray Dalio, tra i massimi esperti americani di obbligazioni a livello globale, propende per la seconda ipotesi, soprattutto nelle attuali condizioni ambientali, che consentono di spostarsi agevolmente da un mercato all'altro per andare controcorrente.
I rialzi dei tassi stanno mettendo a dura prova il mercato obbligazionario americano e la pressione si estende anche all'Europa. Lei cosa consiglia?
"Consiglio di aspettare che il tasso sui Fed Funds arrivi al 4,25%, che sarà il suo picco, e i rendimenti dei Treasury a dieci anni al 5,75%. A quel punto si può essere sicuri che la politica monetaria della Fed avrà già raffreddato abbastanza l'economia per rendere i bond americani di nuovo attraenti. Per quanto mi riguarda, ricomincerò a comprare già quando i Treasury a dieci anni saranno arrivati al 5,25%, se l'economia mostrerà segni di rallentamento, come ad esempio due decimi di punto in più sulla disoccupazione rispetto al tasso più basso raggiunto dopo la recessione, finora il 5,6%. Nel frattempo, consiglio di andarsi a cercare altrove condizioni ambientali migliori".
Difficile, visto che l'economia americana continua a fare da traino per gran parte del mondo…
"Anche questo è un mito da sfatare. L'economia mondiale, che nell'ultimo decennio sembrava sempre più sincronizzata su un'unica lunghezza d'onda - quella americana - oggi è di nuovo una cacofonia di mercati che corrono in direzioni divergenti. Merito dei banchieri centrali, che ragionano in maniera indipendente gli uni dagli altri".
Quindi?
"Mentre la Fed rialza i tassi per raffreddare un'economia in crescita troppo rapida, il Giappone si è appena avviato verso un periodo di crescita sostenuta. L'Asia sta decelerando dopo una corsa a perdifiato e l'America Latina anche, dopo una modesta espansione. L'Europa invece continuerà a crescere adagio. Ma anche all'interno di queste aree ci sono singole economie nazionali che non vanno al passo con il resto: una delle Borse che ha fatto meglio quest'anno, con un balzo nell'ordine del 20%, è quella ungherese, che sta in Europa, mentre fra le peggiori c'è quella thailandese, che sta in Asia".
Lei come sfrutta questa cacofonia?
"Vado in giro per il mondo a cercarmi le obbligazioni prezzate in maniera più attraente, soprattutto fra quelle dove gli emittenti hanno un profilo di rischio in via di miglioramento. Il maggior valore che si può trarre dalle obbligazioni si trova dove il rischio di credito viene prezzato in maniera inefficiente dal mercato".
Quali sono i segnali da guardare?
"Bisogna combinare una visione macroeconomica globale con un minuzioso processo di selezione dei singoli titoli. La maggiore o minore volatilità dei mercati e la tenuta dei vari settori sono dati importanti di cui tener conto. Fondamentale è anche costruire un portafoglio che abbia molte parti in movimento, in modo da bilanciare le varie fasi dei cicli economici in giro per il mondo".
In pratica?
"I nostri investimenti obbligazionari sono sparsi su 30 Paesi, 40 settori e 10 diverse valute. Questa diversificazione ci tiene al riparo dai problemi delle singole economie nazionali".
Che vantaggi vi ha portato?
"Nel 2002, quando il dollaro è caduto, noi avevamo importanti posizioni su valute più piccole come la corona norvegese o il dollaro neozelandese, che sono andate molto bene quell'anno, con guadagni del 30-40%. Il 2002 è stato l'anno di Enron e WorldCom, la gente si è fatta prendere dal panico ed è uscita in massa dai corporate bond. Noi invece abbiamo aumentato la nostra esposizione sia sui titoli più sicuri che su quelli ad alto rendimento. E difatti nel 2003 c'è stato il rally dei corporate bond. Ora però abbiamo ridotto la nostra esposizione sui corporate, soprattutto ad alto rendimento, perché sarà difficile che continuino a correre".
Quali sono i Paesi che privilegiate?
"Solo il 30% dei nostri investimenti obbligazionari sono negli Stati Uniti. Il 70% sono bond non denominati in dollari. Un altro terzo è in euro, un po' meno di un decimo in yen, il 7% in sterline e il 6% in dollari canadesi. Il resto sono spiccioli. Per quanto riguarda i Paesi, dopo gli Stati Uniti viene il Canada, poi la Germania, il Regno Unito e l'Olanda".

1 agosto 2004

I compensi imbarazzanti dei manager strapagati

Ripartita Wall Street, ripartita l'economia americana, sono ripartiti anche i compensi dei top manager. E i risultati sono imbarazzanti. Cambia la posizione di qualche nome a seconda delle classifiche, ma i numeri sono sempre quelli: tra 141 e 148 milioni di dollari per Reuben Mark di Colgate-Palmolive, 75 milioni per Steve Jobs di Apple, 70 milioni per George David di United Technologies, tra 54 e 60 milioni per Henry Silverman di Cendant, 54 milioni per Sanford Weill di Citigroup (in pensione dallo scorso ottobre), tra 53 e 67 milioni per Richard Fuld di Lehman Brothers e avanti così, con Larry Ellison di Oracle a quota 40 milioni, Richard Kovacevich di Wells Fargo a quota 37 o James Cayne di Bear Stearns a quota 34. Dopo due anni di contrazione dei compensi, nel 2003 la serie A dei top manager americani è tornata a giocare sulla luna, con un aumento dei compensi che tra i meglio pagati - come Reuben Mark, Larry Ellison o Steve Jobs - è arrivato anche a decuplicare la paga del 2002. In generale il balzo è dovuto soprattutto all'incasso delle stock options. Nel caso di Reuben Mark, tanto per fare un esempio, gran parte delle sue entrate dipendono dalle opzioni che gli erano state concesse dieci anni fa: allora valevano 4 milioni e potevano essere incassate solo nel caso di un aumento dell'80% del titolo. Ma in questi dieci anni, sotto la guida di Mark (che siede da vent'anni sul trono dell'impero del dentifricio), il titolo Colgate è aumentato del 286%, più del doppio dell'indice S&P 500. E così Mark le ha incassate. Si tratta di eccezioni, naturalmente: la media dei compensi intascati dai capi delle 500 maggiori aziende americane è aumentata "solo" dell'8%, arrivando alla miserrima cifra di 6,6 milioni (circa 200 volte la paga media di uno dei loro dipendenti). E dimostrando ancora una volta che guidare una grande azienda in Nord America conviene più che in Europa. I compensi medi degli ad delle maggiori aziende europee, infatti, sono ben più bassi: si va da 3,1 milioni in Francia a 2,6 milioni in Svizzera a 2,3 milioni nel Regno Unito, per scendere fino a 1,4 milioni in Olanda e Belgio o 1 milione in Germania. La differenza dipende dal fatto che i consigli d'amministrazione europei tendono a ragionare in termini nazionali, più che globali. Anche quando si tratta di multinazionali che operano su tutti i continenti, la paga dei capi azienda resta comunque legata alle medie correnti nel Paese di riferimento. E considerando che i lavoratori europei guadagnano un terzo di meno dei lavoratori americani, anche le differenze fra i top manager diventano più comprensibili. Altrimenti si rischia di esporsi alla collera dei piccoli azionisti. Com'è successo a Anders Moberg, ex ad di Ikea, che l'anno scorso è stato chiamato a risanare Ahold, la multinazionale olandese colpita da uno dei peggiori scandali societari europei, prima di Parmalat. Lo scorso settembre, Moberg è stato aggredito dai piccoli azionisti furiosi contro gli incentivi che gli erano stati offerti e ha dovuto tagliare la sua paga - destinata a superare i 10 milioni di dollari - della metà. Anche i portafogli delle star europee della categoria sono molto meno gonfi di quelli dei colleghi d'oltre Atlantico: Daniel Vasella, capo di Novartis, ha superato di poco i 12 milioni nel 2003, come Chris Gent di Vodafone. John Browne di Bp ha intascato poco più di 10 milioni, come Igor Landau di Aventis, e Josef Ackermann di Deutsche Bank non è arrivato a 10. Lindsay Owen-Jones di L'Oréal ha superato gli 8 milioni e Jorma Ollila di Nokia si è fermato a quota 7,5. Marcel Ospel di Ubs ha sfiorato quota 6. Tom McKillop di AstraZeneca e Matthew Barrett di Barclays si sono messi in tasca 5,5 milioni. E così avanti, con Peter Brabeck-Letmathe di Nestlé a quota 5,2, Franck Riboud di Danone, Jean-Pierre Garnier di GlaxoSmithKline e Martin Bouygues a 4,9. Come si vede dall'elenco mancano in gran parte i tedeschi, anche perché in Germania non c'è obbligo di rendere pubblici i compensi dei capi azienda. Se ci fosse, è probabile che un manager come Juergen Schrempp di DaimplerChrysler sarebbe entrato nella classifica (Deutsche Bank, invece, ha scelto la trasparenza volontaria). Fra gli italiani, l'ultimo che ha fatto la sua comparsa in questo Gotha è Paolo Fresco, con 4,6 milioni nel 2002. Sia in Nord America che in Europa, nella ristretta cerchia dei meglio pagati si nota un certo affollamento di manager impegnati nei settori meno colpiti dalla crisi: parecchi sono banchieri, qualcuno vende materie prime, altri guidano aziende farmaceutiche, alimentari o produttrici di articoli per la cura personale, altri ancora sono impegnati nell'informatica o nelle tlc. Mancano i capi delle compagnie aeree e delle compagnie automobilistiche, due settori fra i più colpiti. Questo non significa che il compenso dei capi si rifletta necessariamente sulla performance dell'azienda. Larry Ellison, uno dei manager meglio pagati d'America, non ha dato molte soddisfazioni agli azionisti nell'ultimo tirennio: Oracle ha dato un rendimento negativo del 54%, contro un -19% dell'indice S&P 500. Ma tra i manager americani c'è anche chi la paga non la piglia per niente: John Chambers, che ha guidato Cisco Systems per gli ultimi nove anni, dal 2001 ha preso un salario annuale di 1 dollaro e non ha più ricevuto bonus in cash. John Wren, capo del gigante della comunicazione pubblicitaria Omnicom, ha rinunciato a ogni bonus in cash, insieme ad altri top manager della sua azienda, per consentire una maggiore generosità negli incentivi ai dipendenti dei livelli più bassi. Malgrado ciò, Wren ha guadagnato 875.000 dollari e non rischia di finire sotto i ponti. Negli ultimi tre anni, la sua azienda ha messo a segno un utile netto medio del 28%. Tra gli esempi positivi, uno dei capi azienda che ha creato più ricchezza per i suoi azionisti senza pretendere compensi stratosferici è Warren Buffett, che si è accontentato di un compenso medio di 1 milione negli ultimi tre anni e ha prodotto un rendimento del 19% per gli azionisti di Berkshire Hathaway. Steve Ballmer, di Microsoft, ha prodotto un rendimento del 27% contro una paga di 2,3 milioni. E Meg Whitman - prima e unica donna citata nelle classifiche del valore - ha fatto anche meglio: per un compenso di 3,4 milioni ha offerto un rendimento del 292% ai fortunati azionisti di eBay. Jeff Bezos, poi, svetta per la sua modestia. Da quando ha portato Amazon.com a Wall Street nel '97, ha prodotto in media un rendimento annuale del 58%, pur prendendo una paga da fame: 82.000 dollari. Se fosse ancora in lista, varrebbe la pena di calcolare su questi stessi parametri la performance di Paolo Fresco nei confronti degli azionisti Fiat.