29 maggio 2005
Pubblicità in fuga dal piccolo schermo?
Il programma s'interrompe, parte lo spot pubblicitario. Bidop. Bidop. Bidop. Questo è il rumore di un videoregistratore digitale quando salta uno spot: per l'industria televisiva, è un rumore che fa accapponare la pelle. Più che un segno di pacifico nomadismo, assomiglia al grido di guerra dei nuovi barbari.
Le tecnologie digitali, già temutissime rivali, non si limitano più a erodere l'audience televisiva dirottando il pubblico verso nuovi media, ma passano ormai ad attaccare il cuore stesso del business: la pubblicità. Le implicazioni del salto dello spot sono devastanti: la percezione dell'inutilità degli annunci televisivi sta già avendo le prime ricadute sulle attribuzioni dei budget pubblicitari. E quando questa perdita di efficacia comincerà a essere documentata, l'effetto domino potrebbe essere repentino. In un settore basato su costi fissi come quello televisivo, anche un piccolo calo degli introiti pubblicitari può causare notevoli danni ai profitti, innescando un circolo vizioso che passa per il taglio al budget dei programmi e finisce nell'ulteriore perdita di audience. TiVo e compagni potrebbero diventare la killer application (nel senso letterale del termine) che farà pendere la bilancia dai media tradizionali, finanziati e controllati dai pubblicitari, verso i nuovi media, finanziati e controllati dai consumatori.
Per ora, i videorecorder digitali che consentono il salto dello spot (oltre il 70% dei loro possessori li usano così) possono vantare una penetrazione del 10% negli Usa e del 15% in Giappone, mentre in Europa sono su percentuali ancora molto modeste. Ma i ritmi di crescita stanno accelerando. E cominciano a uscire i primi studi che mettono seriamente in dubbio l'efficacia della pubblicità televisiva, in particolare per i marchi più maturi dei beni di largo consumo. "Negli ultimi cinquant'anni, le emittenti hanno ricavato una sorta di tassa fissa dalle aziende produttrici di beni di largo consumo. Ma ho l'impressione che siamo entrati in una nuova fase, in cui queste aziende si stanno accorgendo che gli spot televisivi non funzionano più", spiega Andrew Shore, analista di Deutsche Bank e autore dello studio più approfondito sul rendimento della pubblicità televisiva per i marchi maturi. "Le spese di questo tipo - secondo Shore - sono la prossima voce destinata a cadere sotto la scure delle grandi multinazionali".
Non stiamo parlando di noccioline: dei 500 miliardi di dollari spesi quest'anno nel mondo in pubblicità, circa il 40% finirà in spot televisivi. Ma per i colossi americani dei beni di largo consumo la "tassa alle tv" arriva al 60% di tutte le spese pubblicitarie, cioè circa 12 miliardi l'anno scorso. E secondo lo studio di Shore, gran parte di questi soldi è stata spesa a vuoto. Dopo aver esaminato la ricaduta degli investimenti pubblicitari televisivi sull'aumento dei volumi e degli utili nei principali 23 marchi dei prodotti di largo consumo lungo un arco di tre anni, Shore sostiene infatti che quegli spot hanno prodotto un ritorno positivo solo nel 18% dei casi sul breve termine e nel 45% dei casi sul lungo termine. Nella migliore delle ipotesi, quindi, meno della metà di quei soldi valeva la pena di essere spesa.
Un'affermazione ardita, che non tutti condividono. Secondo Robert Heath, docente di marketing all'università di Bath, è riduttivo calcolare le ricadute della pubblicità televisiva in base al puro e semplice ritorno sull'investimento: "Anche quando sono deliberatamente ignorati, i messaggi pubblicitari televisivi vengono comunque assorbiti a livello inconscio. E siccome la memoria implicita dura molto più a lungo della memoria esplicita, le immagini che associamo a un marchio, una volta imparate non si dimenticano più". Ma il tentativo di Shore di calcolare in maniera più precisa le ricadute degli investimenti pubblicitari in tv suscita il plauso di molte aziende.
Jim Stengel, capo del marketing di Procter & Gamble (principale inserzionista Usa con 2,8 miliardi spesi in pubblicità l'anno scorso), tuona: "Muoviamo 500 miliardi di dollari all'anno con meno disciplina e meno dati di quanti ne abbiamo in mano per decidere se spendere centomila dollari in altri settori". P&G è l'unica casa produttrice di beni di largo consumo che ha cominciato recentemente a usare dei modelli basati sulle vendite per stimare il ritorno sugli investimenti nelle campagne pubblicitarie e anche dai suoi calcoli emergono forti dubbi sull'efficacia degli spot televisivi tradizionali. Già solo l'avvento della tv via cavo, con la conseguente frammentazione dell'audience (vent'anni fa le "big three" Abc, Nbc e Cbs avevano l'80% dell'audience, oggi il 40%) sta rendendo la pubblicità televisiva obsoleta. Figurarsi l'arrivo dei videoregistratori digitali. Ma se è vero che gli spot tradizionali non funzionano più, quali sono le alternative?
Per trovare altri canali bisogna fare i conti con la proliferazione dei media. I ragazzini americani passano ormai oltre 7 ore alla settimana alla consolle dei videogiochi, i quattro quinti delle famiglie hanno un allacciamento a Internet, di cui un quarto a banda larga (sarà la metà nel 2008) e un altro quarto ad alta velocità. Ne approfittano le pubblicità interattive, in cui si può rispondere a determinati segnali nei programmi tv attraverso il telecomando, un telefonino o Internet. Si usano gli sms per far partire campagne di marketing virale. Si mettono provocazioni in rete con metodi da guerilla marketing. Chuck Fruit, capo del marketing di Coca-Cola, ha recentemente dichiarato l'intenzione di abbandonare la tv per portare le bollicine fra i giovani con il cinema, la musica, i videogiochi, attraverso il product placement. Nel 2004 la spesa di Coca-Cola in pubblicità televisiva è scesa del 60%. Nel frattempo, il gigante di Atlanta ha aperto delle aree chiamate Coke Red Lounge nei centri commerciali, dove si può sentire musica o vedere un film e dove i giovani possono rilassarsi con un bicchiere di Coca-Cola in mano. Lo stesso ha fatto anche la Campbell, aprendo una catena di Soup Sanctuaries, dove offre una minestra rigenerante ai forzati dello shopping. La promozione attraverso esperienze positive s'inserisce perfettamente nel tentativo di vendere uno stile di vita più che un prodotto. Aziende come Estée Lauder o Starbucks si basano su questa concezione già da anni: sono molto parche nelle spese pubblicitarie e fanno piuttosto assegnamento sull'esperienza positiva dei clienti e sul loro passaparola. L'anno scorso Amazon ha bloccato una campagna televisiva giudicata inefficace e da allora si basa su promozioni dirette o su incentivi come la spedizione gratuita per attirare clienti. Di qui a soppiantare la tv, naturalmente, c'è tantissima strada da fare. Ma la fuga dal piccolo schermo è già cominciata. Bidop.
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