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25 giugno 2005

Prezzi fermi, ma è solo un trucco

Mette un freno al caro-energia con una rimodulazione dei rimborsi sugli oneri di sistema, rilancia la sfida dell' opzione nucleare, affronta la questione delle compensazioni locali per facilitare l' insediamento di nuove centrali elettriche, riprende in mano le nomine all' Authority, dove mancano da quasi un anno tre commissari. Claudio Scajola il decisionista sembra intenzionato a imprimere una svolta alla politica energetica italiana. Ma non tutti sono d' accordo con il suo primo atto ufficiale, visto da molti come un ennesimo esempio di finanza creativa. Il decreto con cui il ministro delle Attività produttive succeduto a Marzano ha fermato l' aumento delle tariffe elettriche previsto per fine mese «è solo un palliativo», secondo il presidente e ad di Edison, Umberto Quadrino. «Può essere una soluzione momentanea per non aumentare tariffe e bollette, ma il problema di fondo resta: le aziende italiane pagano l' energia il 30% in più dei loro competitor europei, perché serve una politica industriale che risolva le nostre carenze strutturali», commenta Emma Marcegaglia, vice presidente di Confindustria con delega per l' energia. E c' è addirittura chi prefigura una distorsione pericolosa dei meccanismi di mercato, come Davide Tabarelli, direttore del Rie (Ricerche industriali energetiche). «Non bisogna farsi prendere dall' ansia da inflazione: i segnali di prezzo vanno lasciati liberi, se si vuole che siano efficienti», precisa Tabarelli. Il prezzo è un segnale importante di autoregolazione del mercato: quando sale, alla lunga incide sui consumi, come sta accadendo con le benzine. La scelta di agire subito, invece, tradisce il nuovo stile interventista del ministro. «Speriamo - commenta Tabarelli - che applichi lo stesso interventismo anche a politiche più di sostanza». Scajola si è sentito in dovere di fermare l' ennesima impennata - dopo i rincari dei primi due trimestri dell' anno - diluendo il peso sulle tariffe elettriche degli oneri di sistema, a cominciare dai cosiddetti stranded cost, i costi incagliati, riconosciuti agli operatori per gli investimenti legati a scelte di politica sociale sostenuti nel passato e non più recuperabili con la liberalizzazione del mercato elettrico. Il rimborso degli stranded cost prevede una compensazione di circa 1.400 milioni di euro, di cui circa mille destinati alle casse di Enel e gli altri 400 suddivisi fra Endesa e Tirreno Power, le due società che si sono aggiudicate le gen.co cedute dall' ex monopolista. Grazie al decreto appena varato, solo 300 dei 1.400 milioni di euro verranno rimborsati subito. Il resto (più gli interessi) sarà spalmato con un meccanismo di rateizzazione da qui al 2009. Il progetto allo studio prevedeva anche l' ipotesi di una cartolarizzazione dei rimborsi Cip6 per le energie rinnovabili e assimilate, che però ha bisogno di tempi tecnici più lunghi, coinvolgendo un pool di istituti finanziari, e verrà messa a punto nelle prossime settimane. Va da sé che i relativi sovracosti verranno girati ai consumatori, in futuro. La speranza è che allora il barile di petrolio ci costi qualche euro in meno e l' alchimia della produzione elettrica riesca ad avvicinare i costi italiani a quelli europei. «E' prevedibile che nei prossimi 18 mesi il prezzo dell' energia cali - spiega Sergio Agosta, ad del Gme, che controlla la Borsa elettrica - non solo grazie a un rallentamento del caro-greggio, ma anche grazie all' ampliamento della capacità produttiva e all' evoluzione del mix italiano verso fonti meno care, che si vanno realizzando con le nuove centrali in costruzione». Il governo spera dunque di non pesare troppo sulle tasche dei consumatori, facendoli rientrare nel debito quando il prezzo dell' energia sarà più contenuto. Ma la prospettiva di un contenimento dei prezzi si scontra con altri provvedimenti, che vanno in direzione opposta. «Gli aggravi causati dall' applicazione del protocollo di Kyoto e dall' imposizione dell' Ici sulle turbine delle centrali elettriche sono destinati a far lievitare ulteriormente i costi di produzione dell' energia di almeno 450 milioni l' anno, con un conseguente impatto sulle bollette», rileva Giordano Serena, presidente di Assoelettrica, che raggruppa le aziende produttrici. «Attendiamo i necessari indirizzi dal governo», si lamenta invece il presidente dell' Authority Sandro Ortis - per la revisione complessiva della struttura tariffaria, che potrebbe introdurre una vera e propria rivoluzione nei consumi degli italiani. E' anni che si parla di questa riforma, annunciata come imminente già all' inizio del 2000, ma ancora largamente indefinita. L' attuale «fascia sociale», infatti, andrebbe modificata: a oggi assegna una quota agevolata di energia semplicemente a chi è in grado di accontentarsi di un contatore tarato sui 3 chilowatt di consumi istantanei massimi (tipico caso del single benestante), penalizzando chi consuma di più, ad esempio le famiglie numerose, anche a bassissimo reddito. L' Authority, per la verità, ha lavorato sodo, producendo un corposo documento di consultazione con una proposta precisa per rimediare a questa stortura e cogliere le nuove opportunità tecnologiche per orientare i consumi in maniera più equa e più efficiente rispetto alla produzione e distribuzione di elettricità. Ma il nodo sta nel governo, che doveva elaborare i criteri e gli indici di calcolo della nuova fascia sociale alla quale legare le agevolazioni. E non l' ha ancora fatto.

20 giugno 2005

L'alternativa spagnola al monopolio dell'Eni

Più concorrenza nel gas. Questo chiede il mercato e su questo stanno ripartendo i progetti congelati, primo fra tutti il terminale di rigassificazione di Livorno. L' impianto, che avrà una capacità di circa 4 miliardi di metri cubi all' anno, sarà il primo terminale offshore costruito in ambito europeo e verrà collocato a una ventina di chilometri al largo della costa toscana. «L' impianto entrerà in funzione nel 2007» spiega Jesus Olmos, amministratore delegato di Endesa Europa e presidente di Endesa Italia, che ha appena concluso un' alleanza con la municipalizzata di Genova, Amga, per acquisire pariteticamente il controllo del progetto. L' accordo, firmato a Madrid, prevede un investimento complessivo nell' ordine dei 400 milioni: il colosso iberico dell' energia e la multiutility ligure si attesteranno sul 51% del capitale della società Olt Offshore, mentre il restante 49% delle azioni farà capo a un gruppo d' imprenditori locali. Endesa e Amga si spartiranno al 50% la capacità del terminale, destinata a rifornire il mercato italiano in cui già operano i due partner. «Livorno - commenta Olmos - sarà l' unica alternativa all' Eni e per noi è molto importante trovare una fonte di approvvigionamento più competitiva, per alimentare le nostre centrali a gas, che attualmente hanno una capacità di generazione di 2.400 megawatt, ma sono destinate a salire a 3.800». Il trasporto via nave di gas naturale liquefatto dai giacimenti ai punti di approdo, per la conseguente rigassificazione e immissione nella rete locale, sta diventando in tutto il mondo l' alternativa più credibile al classico metanodotto: da un lato consente di ricorrere a fornitori diversi, in Paesi produttori dall' Estremo Oriente al Sud America, con i quali non esiste un collegamento via gasdotto, aumentando la concorrenza con i fornitori tradizionali, dall' altro lato utilizza una modalità più flessibile, che ha minori perdite di carico. Come hanno già detto l' Antitrust e l' Authority per l' energia nella loro recente indagine congiunta sullo stato della liberalizzazione, «è soprattutto dallo sviluppo di nuovi terminali di rigassificazione che potrà arrivare un significativo contributo alla concorrenza». E infatti uno dei principali interventi previsto dal decreto di riordino del settore energetico riguarda la realizzazione di diversi terminali. Ma gli impianti già autorizzati, di Brindisi (Enel e British Gas) e di Rovigo (Edison, ExxonMobil e il Qatar), procedono a rilento. Mentre si scontrano con un ostacolo dietro l' altro i progetti di Rosignano (Edison, Bp e Solvay), Trieste e Taranto (Gas Natural), Gioia Tauro (Gruppo Sensi) e Priolo (Erg e Shell). L' unico progetto che sembrerebbe davvero in dirittura d' arrivo è quello di Livorno, dove la soluzione offshore rappresenta una garanzia di salvaguardia dell' ambiente molto apprezzata a livello locale, che ha consentito di superare a maggioranza lo scoglio della Conferenza servizi, malgrado la posizione molto critica del Comune di Pisa, deciso a dar battaglia al Tar del Lazio, e la richiesta d' indire un referendum locale avanzata dai Verdi, preoccupati dalle ricadute dei lavori sulle secche della Meloria. Ora si attende a breve il decreto interministeriale dall' Ambiente e dalle Attività produttive, che dovrebbe dare il via al progetto. «Dal nostro punto di vista - spiega Raffaele Ventresca, responsabile della direzione per la valutazione d' impatto ambientale del ministero - il terminale di Livorno va benissimo. Vorremmo solo qualche informazione in più sull' altro progetto, quello di Rosignano, pochi chilometri più a Sud, che è stato respinto dalla Regione ma sta presentando una variante in questi giorni». Gilberto Dialuce, il suo omologo alle Attività produttive, è ancora più ottimista: «Livorno arriverà al traguardo in poche settimane, stiamo accelerando al massimo perché è un progetto strategico». Ma nelle pieghe dell' accordo fra Endesa e Amga si nasconde una bomba a orologeria che potrebbe rallentare anche la realizzazione di questo impianto. Nella compagine societaria di Olt Offshore, oltre alla partecipazione del gruppo Belleli, c' è anche un 15% del gruppo Falck, che considera l' ingresso di Endesa «una palese violazione dei patti parasociali» e del suo diritto di prelazione sulle azioni Olt. Per far valere i suoi diritti, Falck sta per intraprendere una serie di azioni legali, anche in Spagna, che potrebbero disturbare non poco l' avanzamento del progetto. Il gruppo Falck è da tempo in guerra con il socio Aldo Belleli, accusato in una serie di cause di aver compiuto operazioni finanziarie costosissime, che hanno comportato la distrazione di oltre 10 milioni di euro dalle casse delle società. E. finché non si troverà un accordo fra i due, sarà difficile che il progetto più strategico per il mercato italiano del gas possa decollare.

13 giugno 2005

Biotech, la salvezza della medicina

Ci sono voluti trent' anni di ricerche, ma ora la lenta rivoluzione del biotech sta arrivando a maturazione. Lo dice l' ultimo rapporto di Ernst & Young. Lo dimostrano le major farmaceutiche, che stanno cercando di fare man bassa in questo settore. E lo conferma George Morrow, numero due di Amgen, la più grossa azienda biotech del mondo, alleata in Italia con Dompé. «Metà dei farmaci approvati dalla Food and Drug Administration l' anno scorso erano di origine biologica», spiega Morrow. Nelle malattie più gravi, come il cancro, ormai quasi tutti i 400 prodotti attualmente in fase di test su pazienti a livello mondiale sono medicine biotecnologiche molto specifiche, che evitano i terribili effetti collaterali della chemioterapia. Tredici dei farmaci biotech più venduti al mondo sono dei blockbuster che, da soli, garantiscono incassi superiori al miliardo di dollari all' anno. Di questi, cinque sono prodotti da Amgen, che nel 2004 ha fatto 10,6 miliardi di dollari di fatturato e 2,4 di utili (con 2 miliardi d' investimenti in ricerca). «Con l' ultima ondata di farmaci biotech anticancro - precisa Morrow - il più grande killer di questo secolo è stato ridotto, nella maggioranza dei casi, a una malattia cronica ma controllabile». Trent' anni di scoperte biologiche, di progressi nella mappatura del genoma umano e di manipolazioni sempre più esotiche ci hanno introdotto in questa nuova età dell' oro dei farmaci biotech, che sembra annunciare la fine dell' era delle pillole. «La differenza, rispetto alle medicine di sintesi, è che i farmaci biotech vengono sempre spinti dalla comunità scientifica, più che dalle esigenze commerciali: si tratta quindi di una rivoluzione medica, oltre che industriale», commenta Morrow. Non a caso la nascita di aziende biotech (ce ne sono oltre 1.800 in Europa, contro le 1.500 statunitensi) è spesso legata ai centri più avanzati di ricerca universitaria e segue lo sviluppo a rete tipico dell' attività scientifica. «Le migliori menti universitarie cercano lavoro da noi, perché noi rappresentiamo la nuova frontiera. A differenza delle major farmaceutiche, molto dipendenti da singoli farmaci a larga diffusione, noi cerchiamo di concentrarci sui bisogni insoddisfatti dei pazienti, anche se si tratta di esigenze settoriali. E risolvere i problemi dei pazienti, anche i più astrusi, è il primo obiettivo di chiunque abbia una formazione medica», sottolinea Morrow. Questa strategia paga: «Le major tradizionali hanno sempre meno prodotti promettenti in via di approvazione e cercano continue partnership con aziende biotech, imitando il nostro modello di sviluppo», commenta Morrow. Novartis, ad esempio, ha spostato il suo principale centro di ricerca dalla Svizzera a Cambridge (Massachusetts), mettendone a capo un ricercatore accademico, Mark Fishman di Harvard. Malgrado ciò, il 67% dei farmaci arrivati l' anno scorso ai test clinici nel mondo erano biotecnologici. Si tratta di prodotti sofisticati, quindi generalmente più costosi, perché va sempre garantita la massima qualità di stoccaggio, conservazione e somministrazione: «Produrre farmaci da organismi viventi è un processo molto più complesso rispetto alla farmacia tradizionale, sia per l' investimento iniziale nelle tecnologie di produzione, sia per i costi del materiale e le alte competenze necessarie», spiega Sergio Dompé, con cui Amgen sta sviluppando in Italia diversi farmaci. Sono molecole più grandi e delicate di quelle di sintesi, che vanno somministrate per via endovenosa o per iniezione, solitamente in un ambulatorio medico. Ma colpiscono molto precisamente nel segno, quasi senza effetti collaterali. E fanno baluginare la tanto agognata era della farmacologia personalizzata. «Restano però grandi differenze fra le diverse aree del mondo», precisa Morrow, che si occupa dello sviluppo internazionale del business di Amgen. Quasi l' 80% dei 17 miliardi riversati l' anno scorso dagli investitori sul settore sono finiti negli Stati Uniti. «Le differenze culturali e la diversa sensibilità delle amministrazioni pubbliche giocano un ruolo importante in questa corsa - fa notare Morrow. - Da noi in California lo Stato ha lanciato un bond da 3 miliardi di dollari per finanziare la ricerca sulle cellule staminali embrionali» . «Mentre in Italia al momento attuale - precisa Dompé - c' è la peggiore legge al mondo in questo campo, che non solo non finanzia, ma proibisce completamente la ricerca sulle cellule staminali degli embrioni».

6 giugno 2005

Italia-Ucraina, il patto d'acciaio

Chi l' ha detto, che in Europa per l' acciaio non c' è futuro? L' accordo di collaborazione fra l' italiana Duferco e l' Industrial Union of Donbass, che sarà firmato venerdì a Kiev alla presenza del premier ucraino Yulia Timoshenko, di Gianfranco Fini, Adolfo Urso e dell' amministratore delegato di Sviluppo Italia, Massimo Caputi, dimostra il contrario. Con l' incrocio di partecipazioni fra il gruppo Duferco di Bruno Bolfo e il primo produttore ucraino di acciaio, si gettano le basi per un nuovo modello di mantenimento delle attività siderurgiche in un' economia sviluppata. Unendo la produzione di acciaio grezzo in Est Europa, competitiva, con l' attività di trasformazione e distribuzione ad alto valore aggiunto dell' Europa occidentale. Le due aziende, dopo avere già collaborato alla privatizzazione della siderurgia ungherese con il consorzio Dunaferr, venerdì concluderanno una joint venture fra l' impianto ucraino di colate continue di Dneprovsk e lo stabilimento Duferco di Giammoro in Sicilia, prima linea di produzione italiana di travi d' acciaio per le costruzioni. Con lo scambio di partecipazioni, che comporta un investimento da 35 milioni per gli ucraini a Giammoro e di 25 milioni per l' azienda italiana a Dneprovsk, Duferco si assicura l' esclusiva della produzione del colosso ucraino, l' unico nella regione mineraria del Donbass a continuare indisturbato la sua attività dopo la rivoluzione degli arancioni, grazie agli ottimi rapporti del suo presidente Sergey Taruta con il nuovo presidente ucraino, Viktor Yuschenko. «Lo stabilimento di Dneprovsk - spiega Antonio Gozzi, amministratore delegato di Duferco con Massimo Bolfo, responsabile del trading, in cui la Duferco è leader mondiale - si affaccia sul fiume Dnepr e quindi l' acciaio viene caricato direttamente sulle navi che lo portano in Sicilia attraverso il Mar Nero e il Mediterraneo». Nell' impianto di Giammoro, che sorge sul mare a 20 chilometri da Messina, sono in via di costruzione le banchine adatte a ricevere le grandi navi ucraine. L' accordo - reso possibile anche dal supporto di Sviluppo Italia - avrà una ricaduta sulla competitività dello stabilimento e sulla crescita in occupazione. «Per sfruttare le forniture dall' Ucraina - aggiunge Gozzi - è previsto un ampliamento del laminatoio e la realizzazione di un grande centro di lavorazione per l' acciaio nelle costruzioni». Proprio dall' esigenza di potenziare le forniture per l' edilizia, uno dei pochi settori che non si possono delocalizzare, nasce quest' operazione, in controtendenza rispetto a quello che sembrava il declino ormai inarrestabile del settore, con le chiusure di Thyssen Krupp a Terni e il passaggio della Lucchini alla russa Severstal. «Ormai siamo alla delocalizzazione selvaggia verso i Paesi del terzo mondo - commenta Gozzi, che insegna Economia e gestione delle imprese logistiche all' università di Genova -. Ma attenzione a non esagerare: su alcune produzioni la delocalizzazione è antieconomica, perché i costi e i tempi di trasporto contano». Non che Duferco rifugga dalla delocalizzazione: l' azienda di Bolfo - che nel 2004 ha prodotto 6,3 milioni di tonnellate di acciaio e ne ha commercializzati 16, con un giro d' affari di 6,8 miliardi di dollari e un utile netto di 270 milioni - è presente in 40 Paesi con 11mila dipendenti ed è il primo investitore industriale italiano in Russia con la sua Viz Stahl di Ekaterinburg. «Ben venga la delocalizzazione intelligente - puntualizza Gozzi -, non solo mirata alla ricerca di manodopera a basso costo: in Est Europa, dove abbiamo stabilimenti in 11 Paesi, abbiamo imparato molte cose. A Ekaterinburg abbiamo una produzione avanzatissima di lamierino magnetico con tecnologia russa: per noi è stata un' avventura basata sull' innovazione. E anche un' opportunità per creare un avamposto commerciale in un luogo straordinario, a cavallo fra l' Europa e l' Asia, sugli Urali». Non a caso la Duferco di Ekaterinburg è diventata l' impresa chioccia di uno dei distretti italiani all' estero recentemente avviati, con il sostegno del ministero delle Attività produttive. Attorno alla sua sede si sono installate imprese italiane dei settori più diversi, dal biomedicale (Esaot) alle vernici (Stoppani), dalla meccanica ai tubi. Sempre in joint venture con aziende locali. «Se si vuole arrestare il declino delle esportazioni - fa notare Gozzi - bisogna sfruttare meglio l' antico spirito dei fondaci, con cui le nostre repubbliche marinare creavano le loro reti all' estero». Senza dimenticare la produzione in Italia, quando ne vale la pena.