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18 dicembre 2006

La battaglia delle tariffe elettriche

Un centinaio di grossisti contro 160 distributori, tra cui una decina di grandi, per contendersi quasi 35 milioni di clienti. Sono queste le forze in campo, comprese le svariate posizioni che si sovrappongono da una parte e dall' altra, per la madre di tutte le battaglie sul mercato elettrico italiano. Data d' inizio del match, luglio 2007, quando scatterà la liberalizzazione completa di tutte le utenze, anche quelle domestiche. Ma le grandi manovre sono già cominciate da tempo, con l' assalto dei lobbisti di entrambe le parti alle stanze del potere. E lo scontro è destinato a durare anni. «Come in tutte le grandi gare podistiche, prenderemo velocità solo nel 2008», prevede Francesco Starace, responsabile Enel del mercato. Dal punto di vista puramente quantitativo, in realtà il grosso del mercato è già liberalizzato: al contrario del mercato del gas, sull' energia elettrica l' Italia ha scelto la strada di una vera apertura alla concorrenza. Dal ' 99, quando il decreto Bersani ha segnato l' inizio di questo processo, il 60% dei clienti industriali ha cambiato fornitore. Meglio di noi hanno fatto soltanto il Regno Unito e la Scandinavia. Di conseguenza, su un consumo complessivo di 185 terawattora l' anno, 135 sono già «liberi». «In questo mercato - spiega Starace - la quota dell' Enel si è ridotta a meno del 15%». Da luglio potranno cambiare fornitore anche le famiglie, che rappresentano un parco consumi di 60 terawattora l' anno. I restanti 90 terawattora fanno capo al cosiddetto «popolo delle partite Iva», che è già libero di cambiare fornitore da quasi due anni, ma finora l' ha fatto solo in misura irrisoria. Dal punto di vista numerico, invece, il parco clienti che si apre il prossimo luglio è immenso: sui 35 milioni di utenti elettrici italiani, finora solo 500mila hanno scelto il mercato libero. Gli altri, di cui 7 milioni già «eleggibili», sono ancora legati al loro fornitore originario. Su questo mercato, l' Enel mantiene una quota dell' 80%. Il resto è suddiviso fra le varie municipalizzate, in primis Acea di Roma, Aem Milano, Aem Torino, Hera di Bologna... Dall' altra parte della barricata, i contendenti si chiamano Eni, Edison, Sorgenia del gruppo Cir, le varie estere Rezia, Egl, Eon e una vasta costellazione di trader che comprano e vendono alla Borsa elettrica cercando così il loro profitto: ne sono registrati un centinaio. Tutti questi soggetti potrebbero tentare di fare concorrenza agli incumbent, ma è dubbio quanto gli convenga scendere in campo, nella situazione attuale. «Stiamo cercando di favorire la libera competizione e offrire agli utenti una reale possibilità di cambiare fornitore, ma sarebbe tutto più facile se arrivassimo all' appuntamento con una struttura di mercato più efficiente», spiega il presidente dell' Authority Sandro Ortis. Per avvicinarsi a quest' obbiettivo, le riunioni si susseguono furiosamente. «Dobbiamo istituire entro luglio un servizio di salvaguardia e un fornitore di ultima istanza, per scongiurare interruzioni delle forniture causate da eventi contingenti, come fallimenti di società o simili. Dobbiamo cambiare il sistema di tariffe agevolate, individuando una fascia sociale davvero più bisognosa, da sostenere con prezzi più bassi. Dobbiamo considerare l' ipotesi di un servizio di maggior tutela per i clienti più vulnerabili, quelli domestici, che potrebbe essere affidato all' Acquirente Unico», elenca Ortis. Poi c' è la struttura delle tariffe, che oggi concede all' attività commerciale un margine talmente risicato da diventare insostenibile. E infine l' accessibilità dei dati: chi conosce il profilo di carico e le abitudini di consumo dei clienti, ha una marcia in più decisiva. «Ma abbiamo bisogno del perimetro normativo», insiste Ortis. «Dal 1° luglio - concorda il presidente dell' Acquirente Unico, Nando Pasquali - non si potrà più parlare di cliente vincolato. Ma la domanda è: come accompagnare questa moltitudine verso il mercato libero?» La risposta sta nel governo e nel Parlamento, che ancora non si sono pronunciati, mettendo in difficoltà i nuovi entranti alla ricerca di una strategia commerciale. Non per mancanza di attenzione a questo tema, ma semmai il contrario: «Ognuno tira dalla sua parte», dicono gli insider. E gli interessi in gioco sono giganteschi. Il nodo principale, su cui infuria la battaglia dei lobbisti, sta nella struttura delle tariffe: anche se la liberalizzazione dovrebbe eliminare la tariffa regolata, è chiaro che nel mercato elettrico finirà come in quello del gas. «Stabiliremo un meccanismo di price cap: più su di così non si può andare», precisa Ortis. E da lì in giù, vinca il migliore: chi riesce ad essere più efficiente e offre i prezzi più bassi, rastrella il maggior numero di clienti. Il problema è che l' attuale struttura tariffaria premia il produttore e il distributore, ma penalizza il venditore. «Facendo un calcolo a spanne - fa notare Massimo Orlandi, capo di Sorgenia - su 45 euro all' anno per cliente, 25 vanno a remunerare il servizio di misura, 17 quello di trasporto e meno di 3 il commerciale: quindi i primi 42 euro resterebbero nelle tasche dell' incumbent e nelle mie tasche ne arriverebbero meno di 3. Ma con 3 euro per cliente non ci pago nemmeno i francobolli per le bollette...» In pratica, l' attività di vendita non è quasi remunerata e pochi nuovi entranti saranno pronti a sviluppare un servizio commerciale capace di reggere l' impatto del mass market, visti i margini risicatissimi. «L' utente domestico non è un cliente facile: pretende, protesta, telefona», commenta Starace, che lo conosce bene. Chi se lo prenderà?

11 dicembre 2006

Bruciamo più gas, ne arriva sempre meno

Tranquilli. Inverno mite, ovvero emergenza gas scongiurata. Sembra logico, ma spesso l' apparenza inganna. Come in questo caso. È vero che gli stoccaggi sono attrezzati meglio dell' anno scorso, grazie all' intervento del ministro Pier Luigi Bersani, ma è anche vero che i tubi sono sempre quelli e l' export russo continua a calare, mentre la sete di metano degli italiani cresce. Il calo di forniture sul confine orientale, da una media del -4,2 per cento sui primi dieci mesi dell' anno, è schizzato a un -19,9 per cento in ottobre. L' inverno russo è cominciato. Le ultime stime ministeriali, d' altra parte, prevedono un incremento complessivo della domanda di circa 3 miliardi di metri cubi di gas per quest' inverno, che diventeranno 4 miliardi nel 2007-2008. È una sete che non c' entra nulla con le temperature, calde o fredde che siano, ma con la produzione elettrica, che in Italia si sta spostando massicciamente dall' olio combustibile al metano, senza calmieri. «Rispetto all' anno scorso, quest' anno abbiamo ben tre centrali termoelettriche in più, per 2.500 megawatt complessivi, che bevono ognuna 4-5 milioni di metri cubi di gas al giorno», spiega Davide Tabarelli di Nomisma Energia. Da una parte queste nuove centrali risolvono il problema della carenza nella generazione italiana, ma dall' altra incrementano i consumi di gas. Tanto è vero che nell' aumento del fabbisogno previsto per quest' inverno, la quota destinata a usi civili è quasi irrilevante: solo 300 milioni di metri cubi, contro i 2,6 miliardi legati all' entrata in funzione dei nuovi impianti di generazione elettrica. Non a caso il ministro Bersani continua a ripetere che «bisogna cominciare a mettere un tetto all' utilizzo del gas per l' energia elettrica». Messo così, è un invito difficile da tradurre in pratica, considerando che siamo in regime di libero mercato. «La corsa al gas italiana - conferma Riccardo Monti del Boston Consulting Group - ci porterà quest' anno, secondo i nostri calcoli, a una carenza di un miliardo abbondante di metri cubi di gas entro la fine dell' inverno». Ma il problema non è solo italiano. «La corsa al gas sta portando a un raddoppio della domanda in tutta Europa - precisa Monti - mentre la produzione interna è in drastico calo: nel giro di una decina d' anni l' import di gas dovrà essere triplicato per coprire il nostro fabbisogno, ma non sembra che la Russia sia in grado di star dietro a questo ritmo di crescita, perché anche la loro domanda interna sta aumentando». Il ministro dell' Economia della Federazione russa, German Gref, nei giorni scorsi, ha lanciato per primo l' allarme sul deficit incombente: «Il mercato interno avrà bisogno da solo di 26-27 miliardi di metri cubi di gas in più, mentre le nostre proiezioni indicano una crescita di 21 miliardi di metri cubi supplementari». Gref ha detto apertamente di non avere idea di dove si possano trovare le risorse necessarie per colmare il deficit, che ha origine nella scarsa attenzione prestata in questi anni da Gazprom all' estrazione di gas e al potenziamento dei metanodotti. «Si sono talmente concentrati sul vendere, vendere, vendere, che si sono dimenticati di produrre», commenta Tabarelli. Gazprom non ha nessun interesse a mettere la crisi nero su bianco, ma basta osservare i numeri per notare le coincidenze: nei primi dieci mesi del 2006 l' export di gas dalla Russia è calato del 4,3 per cento rispetto all' anno scorso, fino a un crollo del 10,7 per cento in ottobre, corrispondente al crollo dell' import ai nostri confini orientali. Eppure, sottolinea il resoconto del ministero dello Sviluppo Economico, la tendenza al rialzo dei prezzi del gas russo sui mercati internazionali (+51,3 per cento in media mensile) avrebbe dovuto favorire le esportazioni. Questo conferma che il deficit è strutturale, non congiunturale. La falla per ora non si nota, ma non bisogna farsi ingannare dal clima mite: «Siamo sul filo del rasoio», ripete Bersani. E non si vedono soluzioni reali all' orizzonte: di nuovi gasdotti si parla da anni - dall' Igi per importare il gas turco passando per la Grecia, al Galsi per importare altro gas algerino attraverso la Sardegna - ma i tempi sono lunghi, così come anche per i terminali di rigassificazione. Gli interventi per affrontare l' emergenza possono essere solo difensivi: l' utilizzo degli stoccaggi strategici e le misure per la riduzione della domanda, comprese le interruzioni ad alcuni utenti industriali, sono già programmati. Gli stoccaggi di modulazione sono stati incrementati di 600 milioni di metri cubi rispetto all' anno scorso. Nuove concessioni sono in esame nei vecchi giacimenti esauriti, da Alfonsine a Conegliano, ma nessun aumento significativo di capacità di stoccaggio è previsto fino al 2011. A tutto vantaggio di Gas Plus, la società di Fidenza appena andata in Borsa col botto, che si profila come la nuova regina degli stoccaggi. Già prenotati da Gazprom con un accordo blindato per distribuire il suo gas direttamente ai clienti finali italiani. Quale gas, non si sa.

13 novembre 2006

Il triangolo della morte di Acerra

Lo chiamano «il triangolo della morte». Nel territorio compreso fra Nola, Acerra e Marigliano, l' indice di mortalità per tumore al fegato ogni 100 mila abitanti sfiora il 36 per cento, contro una media nazionale del 14. Migliaia di persone sono esposte a sostanze altamente tossiche da decenni. La criminalità organizzata ha fatto dello smaltimento illegale dei rifiuti un vero business, attraverso il controllo di 5 mila discariche illegali, dove le immondizie vengono regolarmente bruciate a cielo aperto. Tutto è contaminato: gli agenti inquinanti, come la diossina, sono ben al di sopra dei livelli consentiti nell' aria, nell' acqua e nei prodotti della terra. Ma Acerra scende in piazza e si ribella a un solo mostro: il termovalorizzatore. Per dare agli operai accesso al sito dove dev' essere costruito, ci sono voluti quattro anni di battaglie e la mobilitazione di migliaia di poliziotti. E intanto la camorra fa i suoi affari. Valanga di voti Il senatore di Rifondazione comunista Tommaso Sodano, professione agronomo, è stato eletto nel collegio di Pomigliano-Acerra con una valanga di voti dopo essere salito sulle barricate insieme al sindaco Espedito Marletta (anche lui di Rifondazione) per bloccare l' impianto deciso nel ' 97 dal commissario Antonio Rastrelli come primo tentativo di risolvere l' emergenza rifiuti campana. Ora presiede la Commissione ambiente del Senato. Il presidente dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio, salernitano, definisce la costruzione dell' impianto «un accanimento inspiegabile». Ora è ministro dell' Ambiente. Ma i rifiuti non si dissolvono nell' aria, non possono mai essere riciclati completamente. Anche nei sistemi più avanzati, almeno la metà va smaltita in qualche altro modo: bisogna scegliere fra il termovalorizzatore e la discarica. I partner europei hanno scelto i termovalorizzatori, al momento attuale in Europa occidentale se ne stanno costruendo una cinquantina e le discariche ormai non ci sono più. In Danimarca vengono inceneriti ogni anno 600 chili di rifiuti per abitante, in Svizzera 400, in Olanda e Svezia 350, in Francia più di 200 (vedi tabella in basso, ndr). In Italia siamo a quota 60. Fisia Babcock, la società di Impregilo che ha vinto nel ' 99 la gara d' appalto per i due termovalorizzatori campani, quello di Acerra e quello di Santa Maria La Fossa (Caserta), ne ha in costruzione 12, sparsi fra Germania, Svezia, Finlandia, Danimarca, Olanda e Francia. L' ultimo, a Riihimäki nel sud della Finlandia, è entrato in produzione in 28 mesi. In Campania, se d' ora in poi il cantiere non subirà altri attacchi come quello recente dei disoccupati organizzati, l' impianto di Acerra sarà operativo il prossimo autunno, a otto anni dal conferimento dell' incarico. Quello di Santa Maria La Fossa non è nemmeno cominciato e attende la firma del ministro Pecoraro Scanio sulla valutazione d' impatto ambientale. «Ci avevano scritto in luglio che l' avremmo avuta nel giro di una settimana - riferiscono alla Protezione Civile - la stiamo ancora aspettando». L' impianto L' impianto di Acerra, anche quando sarà a regime, non risolverà il problema della Campania: delle 8 mila tonnellate di rifiuti prodotti ogni giorno dai suoi abitanti, ne può incenerire solo 2 mila, che bruciando produrranno due milioni e mezzo di kilowattora, quanto basta per alimentare una cittadina di medie dimensioni. Il resto, finché non si avvia una raccolta differenziata com' era scritto nel piano e non è mai stato fatto, continuerà ad andare in discarica. Ma in provincia di Napoli le montagne di monnezza si accatastano per le strade e non si riesce più a trovare nemmeno le discariche, legali o illegali. «Quando hai l' urgenza di decongestionare - sussurrano alla Protezione Civile - ricorri a chiunque ti offra una soluzione». Ma la soluzione non c' è. «Siamo costretti ad incontrarci clandestinamente nelle prefetture - confidano - perché i sindaci hanno paura di essere linciati se offrono un terreno». Tant' è vero che Guido Bertolaso, l' uomo forte della Protezione Civile nominato un mese fa nuovo commissario dopo tre governatori e cinque prefetti, già minaccia le dimissioni. Mancano i fondi per gestire l' emergenza, figurarsi per superarla: lo sbilancio mensile dell' attività del commissario oscilla fra i 5 e i 10 milioni di euro. «Se non paghiamo i debiti pregressi - spiegano alla protezione Civile - tutte le porte si chiudono: non riusciamo nemmeno più a esportare i rifiuti all' estero per problemi di costi e anche spedirli nelle altre regioni sta diventando problematico». Dopo la richiesta d' aiuto lanciata da Bertolaso il 14 ottobre solo due regioni, il Piemonte e l' Emilia-Romagna, hanno dato la loro disponibilità.

6 novembre 2006

La concorrenza vola con il vento

Gli investimenti globali nell' energia pulita, tratta da fonti rinnovabili come il sole o il vento, sono più che raddoppiati negli ultimi due anni, arrivando a superare i 63 miliardi di dollari. E sono destinati a crescere almeno di un altro trenta per cento l' anno prossimo. Il settore è in pieno boom: beneficia da un lato dei progressi tecnologici che migliorano l' efficienza delle nuove fonti, dall' altro del caro-greggio, che abbatte il gap con i costi di generazione da fonti tradizionali. Ma il differenziale non è del tutto colmato e l' energia pulita ha ancora bisogno di essere incentivata per crescere. «In Italia, ad esempio, per raggiungere l' obiettivo comunitario, fissato al 22% della nostra produzione complessiva di energia al 2010, dovremo spendere circa due miliardi di euro all' anno in sussidi alla costruzione di impianti solari, eolici e via dicendo», spiega Andrea Bollino, presidente del Gestore dei servizi elettrici (Gse), che occupa un ruolo centrale nella promozione delle fonti rinnovabili, con il mercato dei certificati verdi e l' incentivazione del fotovoltaico. Ma gli italiani - si è chiesto Bollino - sarebbero disposti a pagare direttamente una parte di questi sussidi, a condizione di finanziare in questo modo la crescita di un settore capace di ridurre la nostra dipendenza dagli idrocarburi? E in che misura? La risposta - presentata da Bollino alla conferenza mondiale dell' International Association for Energy Economics di Ann Harbor, dov' è stato eletto presidente per l' anno prossimo - è abbastanza stupefacente: gli italiani sarebbero disposti a sobbarcarsi direttamente circa un terzo del costo complessivo dei sussidi. In base a un sondaggio condotto dall' Eurisko per la prima volta in Italia, si è scoperto infatti che gli utenti elettrici sarebbero pronti a pagare in media 5 euro in più a bolletta per finanziare l' energia verde, quindi 30 euro all' anno. «Moltiplicato per 21 milioni di utenze familiari, si arriva a 660 milioni, cioè quasi un terzo dei 2 miliardi che servono per arrivare in tempo al nostro target», conclude Bollino. Un supporto straordinariamente deciso, tenuto conto del fatto che la fattura energetica in Italia è già ben più alta che all' estero. «Questo significa - commenta Bollino - che le fonti rinnovabili hanno un sostegno dal mercato ben più alto di quanto si creda, basterebbe farle conoscere meglio: si è visto anche dalla valanga di richieste che ci sono arrivate per gli incentivi al fotovoltaico». Purtroppo andate in gran parte a vuoto, data l' inadeguatezza del sistema. La crescita delle energie alternative, del resto, darà anche una spinta alla libera concorrenza. E quindi, alla lunga, i rincari verrebbero compensati. Bollino paragona la nascita di un sistema di generazione nuovo, parallelo a quello tradizionale, allo sviluppo della telefonia mobile. «Così come lo sviluppo degli operatori mobili ha dato una spinta alla deregulation nelle tlc - prevede Bollino - per il mercato dell' energia il nuovo fronte sono le rinnovabili, che introducono nuovi player in un sistema ingessato come quello attuale, ancorato alle vecchie fonti, dove prevalgono inevitabilmente gli ex monopolisti». Non a caso le nuove imprese, capaci di trasformare il sole e il vento in energia, sono oggetto di un' euforia borsistica ormai da molti paragonata alla bolla Internet. Il New Energy Fund di Merrill Lynch, considerato uno degli indici più rappresentativi del mercato, è cresciuto del 202 per cento in tre anni. Grazie al boom degli investimenti, l' innovazione rende le tecniche di utilizzo delle fonti rinnovabili sempre più remunerative. E gli analisti calcolano che in zone molto ventose, come la Sardegna, un parco eolico installato sulla terraferma sia già in grado di reggersi sulle proprie gambe. Da qui a rinunciare completamente ai sussidi, ce ne corre. Ma è il primo passo verso una svolta.

30 ottobre 2006

Per l'Eni Capo Nord si fa rovente

La lunga notte artica sta per scendere sul Mare di Barents, ma al largo di Capo Nord le trivelle non cesseranno di funzionare. Un quarto delle riserve mondiali di idrocarburi non ancora sfruttate potrebbe dormire qui sotto. Finora, però, la corsa all' oro nero ha scoperto solo due vene veramente notevoli. Dalla parte russa del Mare di Barents, a 500 chilometri dal porto di Murmansk, c' è Shtokman, il giacimento di gas più grande del mondo, che Gazprom ha appena reclamato per sé estromettendo tutte le major occidentali finora impegnate nelle prospezioni. Dalla parte norvegese c' è Goliat, un giacimento di petrolio scoperto dall' Eni a neanche 50 chilometri dalla costa, che già fa parlare di sé come il primo assaggio di un nuovo «Mare del Nord». Per ora le riserve di Goliat sono stimate in 250 milioni di barili, per un valore di circa 15 miliardi di dollari. «Ma il giacimento potrebbe essere ben più vasto», precisano al Direttorato norvegese del petrolio. Le stime di varie società di analisi, come la norvegese First Securities o la britannica Wood McKenzie, parlano di almeno 6-700 milioni di barili. Se ne saprà di più quando l' Eni - proprietaria del giacimento al 65%, insieme a due compagnie norvegesi, la Statoil al 20% e la Dno al 15% - avrà completato due nuove trivellazioni, appena iniziate. Per ora la portata delle scoperte è circondata dal massimo riserbo. E non stupisce. La zona di Goliat, infatti, si sta facendo piuttosto affollata. A parte le 400mila pulcinelle di mare che nidificano da quelle parti, c' è Esperanza, la nave di Greenpeace, che ha tentato più volte l' assalto: «La produzione di petrolio offshore contempla sempre un certo rischio, ma questo è inaccettabile in un' area ecologicamente unica come questa», commenta Brad Smith, responsabile di Greenpeace per le campagne nei mari artici. «Il sito di Goliat - spiega Smith - è una delle aree più fragili del Mare di Barents, qui si riproducono e crescono i principali stock di pesce norvegese, qui vivono milioni di uccelli marini e si nutrono nelle acque prospicenti alle scogliere: quest' area è già minacciata dal traffico delle petroliere russe dirette ai mercati europei e richiede maggiore protezione, non un aumento del rischio petrolifero». In sostanza, Greenpeace chiede all' Eni di sospendere immediatamente ogni attività: «Per mantenersi nei principi ambientali inclusi nel suo codice etico, l' Eni deve abbandonare i piani di trivellazione nell' area di Goliat». In realtà è del tutto improbabile che le richieste degli ambientalisti facciano breccia nelle autorità locali, che già oggi impongono regole molto restrittive alle ricerche petrolifere nel Mare di Barents e le mettono completamente al bando nel circondario delle isole Lofoten. «Non è mai successo - precisa Bente Nyland, del Direttorato norvegese del petrolio - che una licenza di esplorazione sia stata revocata dopo aver trovato abbastanza petrolio da giustificare l' avvio della produzione commerciale». E qui abbiamo già superato questo stadio. Anzi, l' Eni deve difendersi da un assalto ben più preoccupante di quello degli ambientalisti. La corsa delle compagnie internazionali che hanno chiesto licenze di trivellazione nella zona si sta facendo travolgente: il Direttorato non rivela i nomi, ma annuncia l' avvio di altri 24 blocchi di esplorazione, nell' area che si estende tra Goliat e il vicino giacimento di gas di Snohvit, geologicamente omogenei. Non potranno mancare alla festa le norvegesi Statoil e Hydro, controllate al 71 e al 44% dallo Stato. Le due cugine, del resto, non si sono ancora riavute dalla mala parata sul fronte russo: dopo aver speso 60 milioni di euro e molto know how nelle trivellazioni per Shtokman, sono state brutalmente estromesse insieme a Chevron, ConocoPhillips e Total dal padrone di casa, Gazprom, che ha deciso di vendicarsi così per le resistenze occidentali all' ingresso della Russia nella Wto. Le trattative per ridurre il nazionalismo russo a più miti consigli sono in corso. Ma nel frattempo a Capo Nord la vita si fa sempre più dura.

25 ottobre 2006

Blog aziendali, dal marketing al knowledge management

Quanto può contare un blog a supporto delle strategie di comunicazione e delle campagne di marketing è facilmente immaginabile. Ormai quasi tutte le grandi aziende ne fanno ampio uso per arricchire i propri rapporti con il pubblico. Ma l'uso dei blog come strumenti di knowledge management interni alle organizzazioni è ancora poco conosciuto, pur essendo di pari se non maggiore importanza. Moltissime corporation, da Sun Microsystems a Ibm, da Gm a Hewlett Packard, hanno un sistema di blog accessibili solo dall'interno, protetti da un firewall, per condividere i progetti con i colleghi. Altre, come GE, utilizzano addirittura blog aperti anche per gli scambi aziendali. Su Edison's Desk, il blog del dipartimento di ricerca e sviluppo di GE, i ricercatori mettono in rete di tutto, dai nuovi progetti in materia di energie rinnovabili alle promesse dei materiali autopulenti. Si tratta di una rivoluzione, non solo sul fronte del concetto di proprietà intellettuale, ma anche sul fronte della governance in senso lato. Vedi il caso di Mark Jen, diventato una cause célèbre l'anno scorso, quando fu licenziato da Google dopo aver riferito nel suo blog qualche dettaglio di troppo sulla sua vita aziendale. Già oggi un caso simile sarebbe impensabile. Ma viene da chiedersi: perché i blogs stanno soppiantando le intranet aziendali? E come possono contribuire alla gestione della conoscenza interna? La risposta alla prima domanda è banale: sono facili da avviare, molto convenienti nella gestione quotidiana e inducono al dialogo continuo e informale. Tutta un'altra cosa rispetto alla rigidezza paludata delle intranet aziendali. La seconda risposta necessita di una piccola introduzione: a cosa serve il cosiddetto knowledge management? Serve a preservare l'expertise dell'organizzazione anche quando i depositari di queste conoscenze se ne vanno in pensione (l'attuale curva demografica rappresenta una grave preoccupazione per le multinazionali del mondo industrializzato) e a mettere in comune queste risorse per addestrare le nuove leve. Serve a fornire informazioni che esulano dal loro campo specifico d'attività a tutti i dipendenti. Serve ad evitare di perdere tempo per reinventare soluzioni a problemi già risolti. Per ottenere questo risultato bisogna superare una serie di barriere. La prima è indurre gli esperti a mettere in comune la propria expertise, a meno che la comunicazione non faccia già direttamente parte del loro mestiere. Se è vero che tutto il valore di un lavoratore sta in quello che sa (e che gli altri non sanno), perché dovrebbe improvvisamente metterlo in comune? Il rischio di perdere parte del proprio valore rende la maggior parte degli esperti riluttanti ad aprire i propri forzieri, a maggior ragione se si tratta di conoscenze tecniche strategiche per l'azienda. Di conseguenza, il primo passo sulla strada del knowledge management parte sempre da un cambiamento complessivo di prospettiva nella cultura aziendale. Il passaggio dalla mentalità da "cane da guardia" del proprio sapere alla cultura della condivisione, comporta un incoraggiamento esplicito da parte dell'azienda a mettere in comune le proprie conoscenze. Un'altra barriera è la diffidenza degli altri a riconoscere un oscuro collega come esperto di qualcosa. La terza barriera è individuare la collocazione dei flussi del sapere all'interno dell'organizzazione e intercettarli. Per superare questi tre ostacoli, di non poco conto, è molto più adatto un sistema flessibile, informale e facile da aggiornare tutti i giorni piuttosto che un database rigido e suddiviso per argomenti, come quelli che sono stati usati fino ad oggi. Ecco la risposta alla seconda domanda. I blogs stanno trasformando in maniera radicale e dando sostanza a tutti i sistemi di knowledge management del mondo. Il nuovo software consente agli esperti di integrare perfettamente questa attività nel loro ambiente naturale di lavoro, come se fosse un nuovo browser, annotando in tempo reale i siti da segnalare come parte della loro area di expertise. Supera i formalismi e le gerarchie dei sistemi tradizionali. Polverizza le normali classificazioni per categorie, introducendo una maggiore flessibilità nella ricerca delle informazioni, reperibili anche direttamente attraverso i nomi degli esperti, una volta riconosciuti come tali. In questo modo offre alle organizzazioni la possibilità di attingere non solo a un banale archivio di documenti già creati, ma direttamente alla conoscenza dei propri dipendenti - passati e presenti - rinnovata in tempo reale dagli scambi e dalle discussioni interne. L'ultimo passo, che già si vede spuntare in qualche blog aziendale fra i più avanzati, è la certificazione del valore delle informazioni fornite, attraverso il "voto" degli utenti o addirittura attraverso un processo di "peer review" nel caso di contenuti scientifici. Un buon indirizzo per approfondire l'argomento o semplicemente dare un'occhiata a qualche blog aziendale, è http://www.eu.socialtext.net/bizblogs/index.cgi, la directory più completa dei blog delle aziende Fortune 500. La lista è partita da una polemica avviata da Chris Anderson, direttore di Wired e autore di "The Long Tail" (http://www.thelongtail.com), sulla scarsa attenzione delle grandi multinazionali al femonemo dei blog: dalla lista risulta che solo l'8% di queste aziende utilizzano ad oggi dei blog aziendali aperti al pubblico. Un mese fa era il 4%.

23 ottobre 2006

Solare? In Italia incentivati solo i furbi

Esempio pratico: «Per un impianto fotovoltaico da 50 KW: energia prodotta annualmente circa 65 mila kwh (Centro Italia); guadagno complessivo circa 36 mila euro/anno, cioè 700 mila euro in 20 anni; costo dell' impianto "chiavi in mano" 260/300 mila euro. Si metta in contatto con noi per avere un' offerta individuale che rispecchi le Sue esigenze. Le facciamo avere, in tempi brevi, un preventivo per la realizzazione della Sua centrale fotovoltaica». Questa è Suneon, una delle imprese che hanno fatto man bassa degli incentivi al fotovoltaico messi in palio dal Gestore del sistema elettrico, che dovevano far decollare il mercato italiano del solare. L' azienda bolzanina è nata in marzo, sull' onda dei nuovi contributi in conto energia, e ha già 50 progetti in pipeline - dicono i due soci Alexander Berger e Reinhold Gabloner - per 49,5 MW in tutto, ben più dell' attuale parco solare complessivo italiano. Ma neanche uno realizzato. A un anno dalla partenza del nuovo sistema d' incentivazione, in effetti non si è mossa foglia: su 185 MW di progetti incentivati, finora non c' è nemmeno 1 MW in funzione. E solo per 27 MW è stato notificato l' inizio dei lavori. «Se non arriviamo neanche a 10 MW installati entro la fine del 2006, l' Italia ci fa davvero una figuraccia e rischia di perdere gli investimenti delle grandi aziende del settore», spiega Gianni Chianetta di Bp Solar, uno dei giganti mondiali dell' energia del sole. Chianetta - che è anche presidente di Assosolare, la neo costituita associazione dell' industria fotovoltaica - punta il dito da un lato su un sistema decisamente mal congegnato, dall' altro su un assalto di incompetenti attratti dal guadagno facile. «Il punto dolente sta nei tetti annuali di potenza, che hanno spinto le aziende a fare incetta di autorizzazioni», precisa Chianetta. Ma da qui a realizzare i progetti autorizzati, ce ne passa. Suneon, ad esempio, ha rastrellato insieme alla siciliana Ste.da decine di autorizzazioni nella gara tenuta in marzo dal Gestore del sistema elettrico sui progetti più grossi, di potenza superiore a 50 KW. Il meccanismo era quello dell' asta al ribasso: i progetti che potevano essere realizzati con il minore esborso per lo Stato sono stati autorizzati. Con il risultato di assegnare tutta la quota annuale a un paio di aziende che si offrivano di realizzare gli impianti anche accontentandosi di un incentivo ventennale di 30 centesimi a kwh, contro una base d' asta di 49 centesimi. Un bel risparmio del 40%. Ma così l' impianto non è remunerativo. Hai voglia di tentare di rivendersi l' autorizzazione a chi era rimasto fuori: nessuno ci è cascato. Di conseguenza, al momento di presentare le fidejussioni bancarie (un milione di euro a MW), per realizzare i progetti, tutti si sono tirati indietro. Risultato: alla fine di settembre, al Gestore del sistema elettrico non è rimasta altra scelta che andare a riaprire la graduatoria e ammettere altri trenta progetti. E via a scalare. Finché alla fine, prima o poi, si troverà qualcuno che si accolla il rischio. Ma intanto si è perso un anno. «Ora si riparte con prospettive solide e obiettivi ambiziosi», annuncia il consigliere del ministro Bersani, Gianni Silvestrini, che sta disegnando il nuovo decreto d' incentivazione, destinato a sostituire il vecchio sistema dal 1° gennaio. «Puntiamo a semplificare al massimo l' accesso all' incentivo, per evitare ogni tipo di speculazione - puntualizza Silvestrini -. Toglieremo il tetto annuale ed elimineremo il sistema delle fidejussioni, spostando la concessione dell' incentivo al momento dell' entrata in esercizio dell' impianto». In sostanza l' impianto sarà automaticamente ammesso all' incentivazione, con diversi livelli di incentivo a seconda della tipologia: più alto per gli impianti piccoli e integrati negli edifici, più basso per quelli grandi a terra. Ma se è vero che cadranno i tetti annuali, nel testo attuale del nuovo decreto si parla comunque di un tetto complessivo, che non è stato ancora fissato. La cifra più accreditata, 1.500 MW al 2012, è già un obiettivo ambizioso: in pratica, darebbe via libera all' installazione di 250 MW di pannelli all' anno, quando fino ad oggi in Italia non si supera una potenza installata di 40 MW in tutto. «Se riusciremo a raggiungere questo ritmo di crescita sarei davvero molto soddisfatto - commenta Silvestrini -. Il nostro obiettivo è dare vita anche qui a un' industria del solare, che nel resto del mondo cresce a ritmi vertiginosi mentre in Italia, il Paese del sole, è ancora ferma». In Germania, con un milione di pannelli solari installati, sono nate 5 mila aziende che danno lavoro a 25 mila addetti. Nel futuro del Belpaese, Silvestrini vede la nascita di un «Italian Solar Design», capace di incidere sui nuovi standard architettonici mondiali, dove ormai la sostenibilità ambientale degli edifici è diventata un must. «Ma per fare questo dobbiamo muoverci in fretta - fa notare Chianetta - e liberarci dalle pastoie delle autorità locali, che trattano gli impianti fotovoltaici come se fossero centrali nucleari e impongono mille pareri prima di concedere la licenza edilizia: nel nuovo decreto questo problema non viene risolto». Altrimenti l' Italia rischia ancora una volta di restare al palo.

25 settembre 2006

Offshoring fino all'ultimo respiro

Mikhail Gorbachev è stato accolto da un lungo applauso lo scorso agosto, in una sala gremita alla periferia di Boston. Ma nel suo discorso non c'era traccia di perestroika o di pace nel mondo. L'ex presidente sovietico ha caldeggiato il principio dell'apertura dei mercati e messo in luce senza mezzi termini il formidabile talento dei programmatori russi, invitando i 700 manager convenuti al Massachusetts Software Council a investire nella nascente industria informatica dell'ex Impero del male. E nessuno si è meravigliato della sua trasformazione, da statista di rango a piazzista di lusso: è solo un segno della crescente posta in gioco sul tavolo dell'outsourcing globale. Dal Brasile al Vietnam, dalla Russia al Botswana, tutto il mondo in via di sviluppo è in corsa per attirare gli investimenti nei servizi delle multinazionali europee e americane. L'India è il loro modello. L'anno scorso il gigante asiatico ha totalizzato un giro d'affari da 22 miliardi gestendo reti informatiche piazzate dall'altra parte del globo, rispondendo alle telefonate di clienti texani o scozzesi, elaborando fatture o scrivendo software per aziende sempre più globalizzate. Non stupisce che tanti governi si stiano muovendo per costruire altre mille Bangalore: guardano ai risultati messi a segno nel subcontinente indiano - compreso il milione e mezzo di posti di lavoro creati in dieci anni - e vogliono partecipare al gioco. Rispetto all'outsourcing manifatturiero, ad alta intensità di capitale, catturare l'outsourcing dei servizi non richiede grandi strutture e può generare centinaia di posti di lavoro in più per ogni dollaro investito. Ma i benefici economici e sociali si estendono ben oltre i vantaggi immediati: in base alle stime di Nasscom, l'associazione indiana del settore, per ogni nuovo lavoratore nell'hi-tech si creano ben sette posizioni nell'indotto. Per di più, i Paesi che vogliono competere in questa gara devono per forza migliorare le proprie infrastrutture e introdurre maggiore flessibilità nella legislazione, con ricadute positive di vasta portata. La domanda di manodopera specializzata dà slancio al miglioramento del sistema educativo e le nuove competenze acquisite da tutti gli studenti mettono in moto un circolo virtuoso di sviluppo inarrestabile. Per ottenere tutto ciò, basta intercettare il volano di un settore che sta esplodendo. Le stime di Gartner dicono che il mercato dell'offshoring di servizi IT e del backoffice ha raggiunto un valore di 34 miliardi di dollari nel 2005 e potrebbe raddoppiare entro la fine dell'anno prossimo. La fetta indiana della torta, oggi del 60%, è destinata a ridursi, proprio a causa del successo che spinge in alto i salari e accelera il turnover. Questo lascia un po' più di spazio agli altri Paesi in gara, che l'anno prossimo si metteranno in tasca 30 miliardi di dollari da questo business. Ma all'interno della cifra complessiva, è tutto da vedere quali saranno i cavalli vincenti. Tra i contendenti c'è naturalmente la Cina, grazie alle dimensioni micidiali della sua forza lavoro e alla capacità di attrarre investimenti nell'outsourcing manifatturiero, dov'è spesso incluso lo sviluppo di tecnologie digitali. Anche Russia, Brasile e Messico, grazie alle diverse specificità geografiche o storiche, sono in testa alle classifiche: offrono costi e talenti più o meno assimilabili a quelli asiatici, ma hanno dalla loro il vantaggio di una maggiore contiguità ai mercati che servono. Perfino alcuni Paesi africani, sulla scia del Sudafrica che è già ben piazzato, partecipano alla corsa, dal Botswana all'Egitto. Ma il vero sprinter che sta emergendo negli ultimi mesi è il Vietnam. Uno degli ultimi bastioni del socialismo reale si è aperto al nuovo business con entusiasmo, come si deduce dall'accoglienza riservata a Bill Gates dagli apparatchik riuniti sotto i ritratti di Marx e di Lenin. Qualche mese fa l'uomo più ricco del mondo è arrivato per la prima volta in visita a Hanoi proprio durante il congresso del partito e il presidente Nguyen Minh Triet ha interrotto l'evento più solenne della vita politica del Paese per salutarlo come un eroe. Nella sua sosta all'Università della Tecnologia il fondatore di Microsoft è stato letteralmente preso d'assalto da migliaia di studenti in delirio, tra cui molti stringevano in mano la versione vietnamita dei suoi libri. L'entusiastica reazione della folla al nuovo che avanza, proprio mentre i suoi leader discutevano di piani quinquennali in pieno spirito marxista, riflette gli impulsi conflittuali che si agitano nel Vietnam di oggi, dove il governo punta all'industria hi-tech per farne la pietra angolare dello sviluppo, ma nel contempo resta legato ai modelli di un'economia strettamente controllata dallo Stato. Malgrado la conflittualità fra il sistema pianificato e la moderna economia globalizzata, il Vietnam cresce a rotta di collo: dal 2000 a ritmi del 7,5%, nel 2005 addirittura dell'8,4%. La Borsa di Hanoi, con appena 36 aziende quotate, quest'anno è cresciuta del 90%. Gli investimenti esteri diretti galoppano e Intel ha recentemente annunciato l'intenzione di costruire una fabbrica di microchip da 300 milioni di dollari a Ho Chi Minh City. Il nuovissimo Saigon High Tech Park offre a tutte le imprese IT un'esenzione fiscale di quattro anni a partire dal break-even e una riduzione del 50% nei nove anni successivi. Ma anche senza la defiscalizzazione i vantaggi sono evidenti: la popolazione è molto giovane grazie al baby-boom seguito alla guerra e il costo del lavoro è fra i più bassi del mondo, mentre il tasso d'istruzione è uno dei più elevati. In Vietnam ci sono 62 università per 84 milioni di persone, che tutti gli anni producono 8.500-9.000 laureati in materie scientifiche, 500 master e 50 dottori in campi collegati alle scienze informatiche. Da quest'anno il ministero dell'Educazione ha reso l'informatica materia obbligatoria in tutti i licei. Inoltre le condizioni favorevoli stanno riportando indietro un'intera generazione di vietnamiti espatriati, gli amatissimi “viet kieu”. Molti di loro hanno raccolto vaste esperienze nell'imprenditoria informatica a Silicon Valley e ora vogliono replicare in patria il modello di start-up appreso negli Stati Uniti. Nguyen Huu Le è uno dei casi più noti: vice presidente di Nortel, dopo 22 anni passati in Nord America è ritornato a casa e ha fondato Tma Solutions, una compagnia di software per le tlc che lavora ormai per tutti i giganti del settore, da Lucent a NTT. E questo è soltanto l'inizio.

18 settembre 2006

Snam: nessuna fusione con Terna

Terna, la rete elettrica ad alta tensione, è già da anni separata dall' Enel e privatizzata. Ora si parla di scorporo e vendita della rete Telecom. E Snam Rete Gas? La rete dei metanodotti disegnata negli anni Cinquanta da Enrico Mattei è ancora di proprietà dell' Eni al 50%, una quota che entro il 2008 dovrebbe calare sotto il 20%. Ma Paolo Scaroni non è d' accordo: la discesa di Eni nel capitale di Snam Rete Gas «non farebbe gli interessi degli azionisti», ha detto recentemente, augurandosi che «il Parlamento riveda» la norma. Sul fronte opposto, il presidente dell' Authority Sandro Ortis: «Enel ha ceduto la rete e non mi pare che sia diventata più debole. Non vedo pericoli per l' Eni». E quindi occorre che «al più presto Snam e Stogit diventino terze, perché hanno ricavi connessi a tariffe che tutti paghiamo» e «perché gli operatori possano accedere senza discriminazioni di sorta». «Ma questo già si fa», replicano alla Snam. Anzi. «Da quando la rete si è costituita in società autonoma per poi venire quotata in Borsa nel 2001, ad oggi, gli operatori che fanno transitare il loro gas sulla nostra rete sono più che raddoppiati: erano 19, ora sono una cinquantina», spiega l' amministratore delegato Carlo Malacarne. «E non abbiamo mai avuto una sola rimostranza», aggiunge fiero il presidente Alberto Meomartini. Vero è che le tariffe di trasporto entry-exit applicate sulla rete italiana sono le più basse d' Europa e sono considerate un modello di equità anche dalla Commissione Europea e dal Forum di Madrid, dove si definiscono i benchmark del mercato europeo del gas. Ma nelle ultime settimane, anche sull' onda dell' accordo con Gazprom e delle passate indiscrezioni sull' interesse dei russi nella rete italiana, s' infittiscono le voci di scorporo e anche di fusione con Terna, sul modello inglese. «È un' operazione che personalmente non caldeggio ma che ha qualche significato logico», commenta Scaroni. A condizione, fa capire, che Snam rimanga controllata dall' Eni. Di conseguenza anche Terna, se fusa in Snam, dovrebbe rinunciare alla propria indipendenza per passare direttamente sotto il cane a sei zampe. «Niente di simile è allo studio», precisa Meomartini. E la definisce un' operazione squisitamente finanziaria, visto che le due reti funzionano in base a principi del tutto antitetici: mentre la rete elettrica comanda sulle centrali, accendendole o spegnendole in base alle oscillazioni della domanda, la rete gas è un contenitore molto più elastico, che non comanda nulla e dev' essere invece pronto in ogni momento a soddisfare le esigenze degli operatori. Non a caso sugli scambi di energia elettrica - dove domanda e offerta devono sempre mantenersi perfettamente in equilibrio - è attiva già da anni una Borsa elettrica, mentre la Borsa del gas, pensata a suo tempo come un tassello importante della liberalizzazione, non è mai stata avviata. Poche sarebbero, dunque, le sinergie possibili fra i due network, che pure servono a trasmettere materie prime correlate. L' Italia infatti sta uscendo dall' era delle centrali a olio e non avendo altra scelta (il nucleare non c' è e il carbone viene fortemente osteggiato dalle comunità locali) vira rapidamente verso un sistema elettrico alimentato prevalentemente a metano: a fronte dei 18 mila MW attuali di potenza installata a gas, ce ne sono quasi 9 mila in costruzione e Snam prevede un parco centrali a metano da 32 mila MW complessivi nel 2009. Quasi un raddoppio. A fronte della domanda che corre, è inevitabile l' aumento dell' offerta: arrivano i rigassificatori e si potenziano i metanodotti che importano il gas dalla Russia e dall' Algeria, con altri in progetto per portare in Puglia il gas del Mar Nero attraverso la Turchia e la Grecia (l' Igi) e in Sardegna quello algerino (il Galsi). La domanda si concentra soprattutto al Nord, l' offerta al Sud. In mezzo c' è la rete Snam, che diventa sempre più strategica per il sistema Paese. «Gli investimenti di oggi sono già pensati in questa prospettiva: 3 miliardi e mezzo di lavori da qui al 2009 per potenziare la rete in vista delle nuove immissioni dalla Russia e dall' Algeria e in previsione di nuovi rigassificatori in funzione oltre al nostro di Panigaglia», spiega Meomartini. Oggi la rete primaria movimenta 85 miliardi di metri cubi di metano all' anno, ma già nel 2010 saranno 95 e nel 2015, secondo le previsioni, 106. «Per noi il futuro è già qui - commenta - non possiamo permetterci di farci cogliere di sorpresa dagli avvenimenti». Si è visto con la crisi del gas: nei momenti di panico vissuti dall' Italia lo scorso inverno, mancava il metano ma non i tubi per trasportarlo. «In quest' ottica di prevenzione dei possibili problemi - aggiunge Meomartini - stiamo potenziando la rete in corrispondenza dei punti di sbocco dei gasdotti esteri, quindi in Friuli e in Sicilia, ma anche nell' area padana e lungo la dorsale adriatica, colonna vertebrale del sistema». Snam si prepara così ad ogni evenienza, anche a una provvidenziale sovrabbondanza di gas rispetto al fabbisogno nazionale, che consentirebbe di fare dell' Italia uno snodo centrale di tutto il mercato europeo, quel famoso hub del gas vagheggiato da anni dal presidente dell' Authority Sandro Ortis. «Gli operatori che stanno costruendo nuovi terminali possono stare tranquilli: la rete ci sarà, neutrale ed efficiente», prospetta Meomartini. Con un piano d' investimenti di questa portata, del resto, le prospettive di fusioni impallidiscono sullo sfondo. E comunque, dice Scaroni: «Se proprio dovessimo cedere Snam, la venderemo a chi paga di più». E non è detto che gli azionisti di Terna siano il migliore offerente. Magari un' offerta in rubli potrebbe battere la concorrenza.

11 settembre 2006

Vendola: rigassificatori a Brindisi mai

Sul rigassificatore di Brindisi, «mi trovo di fronte a un mandato popolare chiaro: il consiglio regionale si è espresso all' unanimità contro questo impianto, così come il consiglio provinciale e quello comunale». Nichi Vendola, governatore della Puglia, fin dalla campagna elettorale si è schierato con decisone contro la collocazione di un terminal di rigassificazione nel porto industriale di Brindisi, dove il gruppo British Gas (Bg) sta lavorando da un anno. L' impianto, che poteva essere già pronto nel 2007, ha subito una serie di rallentamenti burocratici tali da farne slittare l' entrata in esercizio al 2009. Fra il 2001 e il 2002, le amministrazioni regionale, provinciale e comunale si erano già pronunciate a favore dell' impianto proposto da Bg, che all' inizio del 2003 ha ottenuto il via libera con un decreto interministeriale. Non le sembra un capitolo chiuso? «No, non mi sembra un capitolo chiuso. Qui bisogna decidere a che cosa dare più importanza: al mandato popolare o a un' astratta procedura amministrativa?». La procedura amministrativa ha messo insieme 23 diversi enti locali e centrali, pronunciatisi all' unanimità nella conferenza servizi. Non discendevano da un mandato popolare? «Ma sia l' amministrazione comunale che quella provinciale e regionale poi sono state mandate a casa. Ciò significa che le decisioni prese da quelle amministrazioni non hanno soddisfatto la popolazione locale. Quindi vanno modificate. Non è un caso che gli attuali amministratori siano stati votati proprio sull' onda dell' opposizione a quell' impianto. Ora che siamo stati eletti, dobbiamo dare seguito alle promesse fatte in campagna elettorale. Per questo chiediamo che venga fatta una nuova valutazione d' impatto ambientale». Non è detto che quando un' amministrazione viene mandata a casa, bisogna disfare tutto quello che ha messo in piedi. Le decisioni prese spesso diventano legge. Come la mettiamo con la certezza del diritto? «L' iter procedurale attraverso il quale si è giunti al decreto si è svolto in un clima di degrado politico, di gestione affaristica della cosa pubblica e di vaste corruttele che ora noi vogliamo correggere. Non si possono lasciar correre scelte rilevanti per il futuro del territorio che potrebbero essere state portate a maturazione da interessi personali». Lei accusa le amministrazioni precedenti di aver agito per interessi personali? «Questo è compito della magistratura». Ma non tutti a Brindisi sono contro il rigassificatore. «Ci sono alcune espressioni sindacali, che restano legate alle logiche di gestione delle passate amministrazioni. Ma sono estremamente minoritarie in termini di consenso popolare». Dunque la sua opinione è che il rigassificatore di Brindisi non s' ha da fare? «Senza dubbio. Abbiamo detto sì a una vasta serie di progetti nel campo dell' energia: a Brindisi sorgerà una maxi centrale solare. Ci piacerebbe fare della Puglia uno dei più importanti parchi energetici alternativi. Abbiamo concluso la moratoria all' eolico e detto sì al metanodotto fra la Grecia a Otranto. Non abbiamo nemmeno espresso un no pregiudiziale ai rigassificatori: c' è il progetto di Taranto». Si farà? «Non ho detto questo. Bisogna vedere che ne pensano i tarantini...».

Illy: un rigassificatore va bene, anzi due

Per un Paese come l' Italia «la carenza di gas è gravissima: già nell' inverno scorso diverse aziende friulane sono state costrette ad interrompere la produzione dalla crisi ucraina. Bisogna assolutamente fare qualcosa perché questo non si ripeta più». Riccardo Illy, governatore del Friuli-Venezia Giulia, ha aderito con slancio alla «giusta volontà del governo di accelerare i tempi», ammettendo che «i terminal di rigassificazione sono l' unico strumento a disposizione nel medio termine». Tanto da prendere in considerazione l' ipotesi di collocarne addirittura due nel Golfo di Trieste. Come mai tanto entusiasmo per questi impianti, che stanno già sollevando delle polemiche tra gli ambientalisti locali? «Nessun entusiasmo pregiudiziale, ma nemmeno contrarietà di principio. Semplicemente facciamo la nostra parte, senza pretese di considerarla esaustiva. Naturalmente prenderemo tutti i provvedimenti necessari per evitare rischi ambientali: abbiamo già chiesto un approfondimento tecnico alle due società che li propongono, Endesa e Gas Natural. Ma si tratta di impianti abbastanza semplici e quindi contiamo di chiudere la partita entro la fine dell' anno». Due terminal in uno specchio d' acqua di queste dimensioni, non le sembra eccessivo? «Guardiamoci un po' intorno, prima di fasciarci la testa: nella baia di Tokyo, lunga 50 chilometri e larga 20, circa il doppio del golfo di Trieste, ce ne stanno cinque, che portano un traffico di 400 navi gasiere l' anno. Pur con un mare meno profondo del nostro, non mi risulta che ci siano problemi». Quali problemi potrebbero dare? «Il gas liquido viene compresso a una temperatura molto bassa e per riportarlo allo stato gassoso bisogna farlo tornare a temperatura ambiente: di solito si usa l' acqua di mare, che si raffredda nel processo. Ma si tratta di una massa d' acqua modesta, che non può certo causare abbassamenti di temperatura in tutto il golfo. E il freddo generato può anche essere sfruttato in qualche altro modo. Per l' impianto di Gas Natural, che dovrebbe sorgere in una zona industriale del porto, vicino a un termovalorizzatore e a un impianto siderurgico, si potrebbero studiare delle sinergie con questi stabilimenti. È un aspetto ancora da studiare». E l' altro impianto dove si collocherebbe? «Il terminal proposto da Endesa è su una piattaforma off-shore. Oltre alla questione del raffreddamento dell' acqua, questo impianto presenta un problema paesaggistico, anche se la dimensione è modesta: non supera il profilo di una nave. In più, c' è l' uso del cloro, che serve a mantenere gli scambiatori di calore sgombri da alghe. Vogliamo capire se si riesce a sostituirlo con qualche altro sistema. Ma anche qui si tratta di quantità veramente irrisorie: usiamo certamente più cloro, in proporzione, per rendere potabile la nostra acqua». Che vantaggi porterebbero questi impianti? «In un Paese che ha scelto il gas come fonte energetica principale, il primo vantaggio consiste nel garantire gli approvvigionamenti. In più, si aumenta la concorrenza, favorendo la diminuzione dei prezzi. E naturalmente c' è anche un vantaggio economico, in termini di posti di lavoro e di entrate nelle casse locali. Per la nostra regione, queste sono considerazioni importanti. Dopo il terremoto del ' 76, il nostro motto è stato: prima ricostruire le fabbriche, poi le case, infine le chiese. Il lavoro viene prima di tutto».

4 settembre 2006

British Gas: "Vi bruciate la reputazione"

Armando Henriques, capo di British Gas per l' area del Mediterraneo, è un manager navigato, si occupa da vent' anni di petrolio e di gas, ma una situazione come questa non l' aveva mai vista. «Abbiamo il gas che serve all' Italia - dice -, ma non sappiamo dove farlo arrivare, perché il nostro terminale di Brindisi, che doveva essere già pronto nel 2007, subisce un intralcio dietro l' altro dalle autorità locali». E prosegue: «Il rigassificatore che stiamo costruendo, dopo avere ottenuto già da anni tutte le autorizzazioni, è il più importante investimento mai fatto da un' impresa britannica in Italia: 400 milioni di euro complessivi, di cui 150 già spesi. Se i nostri sforzi venissero frustrati adesso, questo solleverebbe gravi dubbi sull' attrattività dell' Italia per gli investimenti esteri». Proprio mentre il ministro dello Sviluppo economico, Pierluigi Bersani, si fa in quattro per dare una soluzione alla crisi del gas prossima ventura, accelerando il processo autorizzativo per gli altri rigassificatori in progetto, l' unico impianto che potrebbe essere già quasi pronto sembra definitivamente incagliato nel limbo delle resistenze locali. «Dragon, il terminale gemello che stiamo costruendo nel Galles, sarà operativo nel 2007 come previsto - dice Henriques - e comincerà subito a ricevere il gas dai nostri pozzi egiziani». Il gruppo Bg, infatti è uno dei giganti mondiali del gas, attivo anche nell' estrazione, e il rigassificatore di Brindisi è uno dei pochi progetti in Italia con i contratti di approvvigionamento già in essere: un vantaggio non indifferente in un mercato dove la materia prima comincia a scarseggiare. «Gli impianti di rigassificazione costruiti oggi senza la certezza dell' approvvigionamento - spiega Henriques - rischiano di diventare cattedrali nel deserto». È per questo che Bg ha messo in cantiere contemporaneamente a Brindisi anche un impianto di liquefazione a Idku, in Egitto, con un investimento da un miliardo e mezzo. Ma il gas liquefatto destinato a Brindisi ora sta prendendo altre destinazioni: verso gli Usa, dove Bg gestisce il più grande rigassificatore americano in Louisiana, o verso altri Paesi europei. «Peccato, perché da Brindisi potremmo fornire 8 miliardi di metri cubi di gas all' anno, quasi un decimo del fabbisogno italiano, colmando le carenze che si sono evidenziate lo scorso inverno», fa notare Henriques, intervenuto al culmine della crisi con due navi gasiere mandate in aiuto all' Eni nel suo impianto di Panigaglia. «La richiesta globale di Gnl ormai supera la domanda - commenta Henriques -, perché si costruiscono sempre più rigassificatori, che sono il modo migliore di ricevere gas da Paesi lontani senza la schiavitù del tubo». In Spagna, negli ultimi anni, ne sono sorti quattro. Nel frattempo, in Italia, Brindisi ha subito continui slittamenti: «Abbiamo passato tutta la trafila, abbiamo raccolto l' unanimità dei consensi alla conferenza servizi da 23 enti locali e nazionali, compresi Comune, Provincia e Regione, oltre ai sei ministeri competenti, che già nel 2003 ci hanno dato il via con un decreto. Ma quando siamo partiti con i lavori le autorità locali hanno subito cominciato a chiedere altre verifiche, rallentando il progetto di anni». Il fatto è che, nel frattempo, c' erano state le elezioni e le amministrazioni locali avevano cambiato colore. Nel 2004 il nuovo sindaco di centro-destra Domenico Mennitti è subentrato a Giovanni Antonino, mentre alla Provincia il diessino Michele Errico ha sostituito il forzista Nicola Frugis. Nel 2005 Nichi Vendola si è seduto sulla poltrona di Raffaele Fitto. E ognuno di loro ha voluto distruggere il lavoro del predecessore. Il gruppo britannico non si spiega le loro motivazioni. «Abbiamo cercato il dialogo - sostiene Henriques -. Abbiamo tenuto il cantiere fermo in attesa di una nuova valutazione del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, che è stata positiva. Abbiamo subito persino una verifica archeologica dell' area su cui stavamo costruendo, che non ha scoperto nulla di nuovo. Ci hanno chiesto di cambiare localizzazione, ma siamo quasi a metà dei lavori e qualsiasi spostamento ci farebbe ripartire daccapo con le autorizzazioni. Il Consiglio di Stato ci ha dato ragione. E comunque localizzazioni migliori non ci sono: siamo in una zona già destinata a usi industriali e non diamo fastidio né agli abitanti, che sono lontani, né al porto. Riceveremo due navi alla settimana, che non impiegano più di 40 minuti per fare la manovra. E daremo lavoro e prospettive di sviluppo a un' area in crisi». What' s the problem?

20 agosto 2006

Eli Noam

Sulle due sponde dell’Atlantico si vanno sviluppando due sistemi di comunicazione digitale apparentemente molto simili, ma in realtà ben diversi fra di loro. Eli Noam, professore di economia alla Columbia University, ha studiato le ricadute di queste differenze e predica da anni una maggiore attenzione reciproca da parte dei due sistemi: “Tutti gli operatori del settore – dice Noam - potrebbero trarre dall’osservazione di queste differenze buoni suggerimenti per lo sviluppo del proprio sistema”. Eccone alcuni.
Quali sono le differenze più importanti?
“Per entrambi il collegamento di base è la banda larga, che consente di connettersi a internet ad alta velocità. Man mano che la banda larga diventa più potente e diffusa, viene vista dai consumatori come lo standard di trasmissione per video, musica, giochi, notizie o altri servizi, dalla telemedicina al telelavoro. Ma in Europa e in Nord America si vanno imponendo due tipi di banda larga molto diversi fra di loro”.
Faccia un esempio…
“In generale in Europa la banda larga arriva nelle case della gente attraverso il doppino di rame delle compagnie telefoniche, utilizzando una tecnologia nota come DSL. Questa è la via più economica e non richiede molti investimenti. Ma offre una capacità di trasmissione e una portata relativamente limitate. Al contrario negli Stati Uniti la banda larga è fornita principalmente attraverso i cavi – molto più potenti - delle compagnie televisive”.
Perché succede questo?
“I motivi sono svariati, ma il più importante è la prevalenza della tv via cavo in Nord America, mentre nei principali Paesi europei la tv tende a essere trasmessa via satellite. C’è pochissima tv via cavo in Francia, Italia, Spagna e Polonia, un po’ di più in Germania e nel Regno Unito, ma anche qui stenta ad attecchire”.
E quindi?
“Negli Stati Uniti, le compagnie televisive hanno spinto molto aggressivamente la diffusione della banda larga attraverso i loro potenti cavi coassiali e si sono accaparrate i due terzi del mercato. Gli operatori telefonici, soprattutto Verizon, hanno dovuto darsi una mossa per riconquistare posizioni e dopo aver tentato di sfondare con la tecnologia DSL come gli operatori europei, si sono imbarcati in una serie di costosi programmi per passare alla fibra ottica. Verizon, ad esempio, ha molto inquietato i suoi investitori lanciando un programma di upgrade da 20 miliardi, nella convinzione che sia l’unico mezzo per non rischiare di restare fuori da questo business”.
E questo che cosa comporta?
“Comeporta una notevole sfasatura fra i due sistemi. Da un lato il Nord America e la Corea (leader mondiale nel tasso di penetrazione della banda larga) si stanno muovendo verso un sistema basato su una ‘piattaforma 2,5’ con due potenti reti – quella della tv via cavo e quella a fibre ottiche degli operatori telefonici – più altre infrastrutture più piccole per applicazioni di nicchia come reti e wi-fi municipali, linee elettriche e satelliti. Dall’altro lato i principali Paesi europei vanno invece verso un sistema basato su una ‘piattaforma 1,5’ incentrata sulla tecnologia DSL diffusa attraverso il doppino di rame o talvolta la fibra ottica dalle compagnie telefoniche, più altre opzioni secondarie. Il traffico dati via cellulare è destinato a restare un’alternativa circoscritta, a meno che non gli venga allocata una vasta porzione dello spettro o si ricopra ogni altura con una folla di ripetitori”.
Dunque si va verso due mercati molto diversi fra di loro…
“Certamente. La struttura dei due mercati è sempre più diversa, il che a sua volta ha un impatto sui contenuti, i prezzi, gli investimenti e la politica regolatoria. Un sistema 1,5 è basato essenzialmente su un monopolio delle compagnie telefoniche, mentre un sistema 2,5 tende a diventare un oligopolio. Nei Paesi con un sistema 2,5 c’è più competizione, prezzi più bassi, maggiore dinamismo ma anche maggiore volatilità. I sistemi 1,5 sono più remunerativi, quindi più sicuri per gli investitori, ma danno maggiore potere di mercato agli operatori dominanti nei confronti dei fornitori di contenuti e anche dei consumatori, che spesso devono pagare tariffe più alte. Per questo un sistema 1,5 ha bisogno di politiche regolatorie più restrittive sulle tariffe e sull’accesso al mercato. Un sistema 2,5 è più rischioso per gli investitori, anche se la competizione sui prezzi può essere tenuta sotto controllo dalla sua struttura oligopolistica”.
Altre implicazioni?
“Un sistema 1,5 assomiglierà più probabilmente a un sistema telefonico, aperto a tutti ma lento nell’innovare. All’opposto un sistema 2,5 assomiglierà di più a un sistema televisivo, con maggiore partecipazione del provider alla creazione dei contenuti”.
E questo che cosa comporta per il tipo di mezzi di comunicazione in via di sviluppo sulle due sponde dell’Atlantico?
“Il sistema 2,5 - più potente e meno regolamentato – produrrà nuovi stili tecnologici e contenuti innovativi più rapidamente dell’altro. Sarà un sistema che favorisce l’imprenditorialità commerciale, sia da parte dei media già consolidati che da parte di nuove startup. Il sistema 1,5 – più limitato – sarà mantenuto più aperto dalle politiche regolatorie e perciò sarà più accessibile ai contenuti alternativi, non profit. Il primo sarà più dinamico, il secondo più trasversale. Il primo più commerciale, l’altro più partecipativo. E se è vero che il mezzo è il messaggio, queste caratteristiche avranno un impatto di lungo termine sulla società, la cultura, la crescita economica e la politica sulle due sponde dell’Atlantico”.

3 luglio 2006

Serve un campione o gli asiatici ci mangeranno

Mittal-Arcelor, non è che l' inizio. «Dopo tre anni filati di boom dell' acciaio, gran parte della liquidità in eccesso sui mercati finanziari tende a incanalarsi verso la siderurgia e quindi le acquisizioni continueranno», prevede Antonio Gozzi, presidente degli elettrosiderurgici e amministratore delegato di Duferco Italia. Ma gli acciaieri europei restano deboli e in difesa: «Non siamo stati capaci di mettere in moto un processo di aggregazione interno, realizzando così un campione europeo: perciò continueremo a essere mangiati dai nostri rivali dei Paesi emergenti, com' è stato per Severstal con Lucchini e ora per Mittal con Arcelor». Diagnosi La diagnosi di Gozzi parte da lontano, da una serie di errori di valutazione dell' industria nostrana e dagli innegabili vantaggi competitivi di cui godono gli acciaieri orientali e asiatici. «Per capire il mercato dell' acciaio bisogna seguire l' andamento globale degli investimenti in attività fisse, come infrastrutture e impianti: l' indice che le quantifica è cresciuto dello 0,4% l' anno dal 1996 alla fine del 2002, mentre dal 2003 alla fine del 2005 è aumentato del 14% l' anno. In pratica, questo dato ci dice che siamo nel bel mezzo della più forte crescita dell' economia mondiale del secondo dopoguerra. Ma la corsa è molto sbilanciata: da un lato ci sono i Paesi emergenti, che corrono come lepri, dall' alto lato c' è l' Europa quasi ferma». Qui non riusciamo a percepire il ritmo tumultuoso a cui viaggia il resto del mondo e per questo l' industria europea dell' acciaio ha sbagliato i suoi calcoli. «Mentre Mittal nei primi anni Duemila rastrellava acquisizioni in tutto il mondo, scommettendo su una crescita di lungo respiro, Arcelor era tutta concentrata sui tagli, con lo sguardo fisso a un' imminente caduta della tensione. Che invece non c' è stata». Gozzi ammette di averci creduto anche lui: «Da quando faccio questo mestiere, ho sempre visto dei cicli di domanda lunghi circa cinque anni, con 2 anni e mezzo tremendi, uno e mezzo mediocre e uno buono. Ma dal giugno 2003 il mondo dell' acciaio ha vissuto tre anni praticamente ininterrotti di prezzi in tensione. E continueranno così: i timori di una battuta d' arresto nel 2006 si sono rivelati infondati e con ogni probabilità non ci sarà nemmeno nei primi mesi del 2007. Questo significa quattro anni di boom senza soluzione di continuità. Si tratta di un cambiamento strutturale del ciclo della domanda rispetto ai vent' anni precedenti». Nessuno se l' aspettava, in Europa. «Gli asiatici, invece, l' avevano capito». Da qui deriva la prognosi riservata per l' Europa: «Di fronte a questa emergenza, assistiamo a un' insipienza totale dell' industria e della politica europea». L' unica difesa per resistere agli assalti dall' esterno sarebbe la costruzione di un campione europeo. «Ma una fusione, ad esempio, fra Arcelor e Krupp Thyssen è stata duramente scoraggiata dalle nostre normative antitrust. Normative - fa notare Gozzi - del tutto inadatte a un mercato che va ormai pensato in termini mondiali, non europei. In questo modo i nuovi signori della guerra russi, ucraini, cinesi, indiani e brasiliani vanno nel burro. E ora che Arcelor non c' è più, ci manca il pivot delle possibili aggregazioni interne». Nel caso italiano, poi, il gioco è stato ancora più semplice per i russi della Severstal: «Qui le aggregazioni sono rese difficili dall' isolazionismo delle famiglie, che preferiscono regnare da sole su un piccolo impero piuttosto che insieme ad altri su un impero più grosso». Prospettiva Sull' Europa incombe perciò la prospettiva della deindustrializzazione galoppante. «Il capitalismo nascente - precisa Gozzi - è sempre brutale e in questa fase i nostri rivali asiatici godono di redditività e cashflow sistematicamente più elevati perché dispongono di vantaggi competitivi naturali, come le materie prime e l' energia a buon prezzo, basso costo del lavoro, dumping sociale e ambientale». Per gli europei, sempre più timorosi di difendere i propri valori di funzione sociale dell' impresa, non c' è gara. «I nostri competitor non hanno paura di difendere con forza i propri interessi strategici. La commissaria europea Neelie Kroes insiste ad esaminare il dossier Mittal-Arcelor solo del punto di vista delle regole della concorrenza e non anche rispetto alle ricadute sull' occupazione. Benissimo, ma mi pare che in questo modo si dimentichi di notare che mentre Arcelor ha una struttura azionaria liberamente scalabile, Mittal non è contendibile, perché il suo padrone Lakshmi Mittal ne tiene in tasca l' 88%. E allora, come la mettiamo con la libera concorrenza?».

12 giugno 2006

Aumentare l'offerta. E il prezzo scenderà

Sulla questione del sistema energetico si è perso troppo tempo e ora dobbiamo recuperare. Per Pippo Ranci, economista della Cattolica ed ex presidente dell' Authority per l' energia, il problema è duplice: d' infrastrutture e di regole. «In Italia negli ultimi anni è cresciuto moltissimo il consumo di gas, utilizzato per produrre la maggior parte dell' energia elettrica di questo Paese: per far funzionare il sistema bisogna quindi aumentare di molto gli approvvigionamenti, rafforzando le infrastrutture, sia i gasdotti che i terminali di rigassificazione, che garantiscono una pluralità di fornitori». Quando avremo più gas, anche il prezzo scenderà, influenzando quello dell' energia elettrica. Servono perciò nuovi investimenti, ma anche nuove regole. «Le nostre importazioni di gas continuano a essere mirate solo a soddisfare a malapena il fabbisogno interno: è un sistema derivato dalla politica tradizionale dell' Eni, che non ha interesse a costruire più infrastrutture di quelle strettamente necessarie. Ma questo non è più accettabile: come l' elettricità circola liberamente in un mercato integrato europeo, così dev' essere anche per il gas». Per ampliare il mercato, ci dev' essere concorrenza anche sul fronte delle importazioni. «Finché sarà solo l' Eni a controllare tutto l' import, l' Italia non riuscirà mai a diventare un hub del gas, così come sarebbe conveniente: non dimentichiamo che la sicurezza di un Paese di transito è molto maggiore di quella di un Paese solo consumatore». E l' Italia si presta a diventarlo per la sua collocazione geografica centrale nel Mediterraneo, ideale punto di raccordo fra i produttori del Nord Africa e i consumatori del Centro Europa. «Ma va modificata alla radice la struttura societaria delle reti, che non possono stare in mano agli operatori: Snam Rete Gas dev' essere separata dall' Eni e il governo deve garantirne la neutralità». Ma non si rischia, come ammonisce frequentemente Paolo Scaroni, di farla finire in mano ai russi? «A Gazprom interessano i clienti finali: non la rete di trasporto, ma semmai quella di distribuzione. E comunque, l' azionariato di Snam dev' essere neutrale e stabile, non soggetto a scalate». Anche gli stoccaggi, remunerati con tariffa amministrata, oggi sono ancora tutti in mano all' Eni. «Se il consumo aumenta e vogliamo mantenere buoni livelli di sicurezza, dobbiamo accrescere le riserve. E' opportuno che anche il mercato degli stoccaggi venga aperto: o facendo offrire il servizio, oggi appannaggio della Stogit, in concorrenza da diversi soggetti, o con una progressiva riduzione della quota Eni in Stogit». Il rischio di ridimensionare troppo un campione nazionale, che sul mercato mondiale deve competere con aziende molto più grandi, secondo Ranci non esiste. Come non esiste l' utilità di una fusione o di un incrocio di partecipazioni fra Eni ed Enel, per accrescerne il peso specifico. «Per evitare che vengano scalate dall' estero non è necessario portare a un matrimonio così innaturale due società con interessi radicalmente diversi. Basta che crescano bene e siano ben amministrate: i loro azionisti le difenderanno dagli attacchi esterni».

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Municipalizzate ancora troppo piccole

La partita dell' energia ormai è una partita globale. Per Andrea Gilardoni, direttore del master in Economia e gestione dei servizi di pubblica utilità della Bocconi, il problema della dimensione d' impresa delle utilities va visto in una prospettiva europea. «Da un lato - dice - bisogna accelerare il processo d' internazionalizzazione delle imprese italiane dell' energia, dall' altro favorire l' aggregazione interna fra gruppi di utilities per consentire la formazione di quattro o cinque poli capaci di competere fra loro». Il che non esclude, naturalmente, l' apertura del mercato italiano a soggetti stranieri. «La presenza di operatori internazionali è una preziosa opportunità per arricchire il sistema nazionale da molti punti di vista, tecnologici, finanziari e di approvvigionamento - dice Gilardoni -. Anche se, data la strategicità della materia energetica, questa presenza non dovrebbe mai diventare ragione di eccessiva dipendenza e perdita di autonomia». L' internazionalizzazione, quindi, è in cima all' agenda: «Con tutto il rispetto per l' importanza del libero mercato - fa notare Gilardoni - il ruolo del governo non va sottovalutato in questo campo: in tema di approvvigionamento è stato nel passato, ed è ancora oggi, decisivo. Non bisogna dimenticare, infatti, che in molti Paesi sono le compagnie di Stato a gestire le risorse energetiche. E ciò impone delle considerazioni di carattere più generale sul ruolo fondamentale della diplomazia». Di conseguenza non è pensabile, secondo Gilardoni, una completa privatizzazione di Eni ed Enel, né un ulteriore smagrimento dei due «campioni nazionali»: tranne per quanto riguarda Snam Rete Gas, che andrebbe scorporata dall' Eni per renderla neutrale come Terna. «Basta guardare che cos' è successo in questi giorni con la questione Suez, o durante l' inverno con i problemi di approvvigionamento del gas dalla Russia, per capire che Enel ed Eni devono andare nel mondo con alle spalle un governo ben deciso a sostenerle». D' altra parte, il governo dovrebbe avviare una politica capace di facilitare la crescita della competizione interna, favorendo le aggregazioni. «Un processo in questo senso è già bene avviato, con le aggregazioni nel Nord, attorno ad Aem Milano e a Hera, ma bisognerebbe allargare il raggio d' azione, creare concentrazioni più vaste». La strada per accelerare il processo di aggregazione non passa tanto attraverso un sistema di incentivazione diretta - precisa Gilardoni - bensì attraverso la rimozione di circostanze che, di fatto, scoraggiano l' accorpamento. «Utilizzando, ad esempio, il sistema delle gare per l' affidamento della distribuzione locale, e rafforzando l' obbligo di condizioni minime di sicurezza e qualità del servizio, si porta automaticamente le società più piccole a unirsi per sfruttare le economie di scala. Nella pratica, per una piccola società è spesso difficile ottemperare in maniera rigorosa a tutti gli obblighi su sicurezza e qualità. Già oggi si vedono gli effetti dei controlli dell' Autorità: una costante pressione del regolatore in questo senso ha l' effetto di spingere le società ad aggregarsi e a diventare più efficienti».

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Sulle rinnovabili il modello è tedesco

Bene il gas, ma ci vogliono anche le fonti rinnovabili. Per Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club, associazione d' imprese ed enti impegnati sul fronte delle energie alternative, il mix italiano di generazione elettrica ha enormi potenzialità su questo fronte, che non vengono sfruttate. Ma fra neanche un anno e mezzo il nostro sistema energetico arriverà al dunque. Nel 2007, infatti, Kyoto presenta il conto e per l' industria italiana sarà un conto salato. Spiega Silvestrini: «Bruciando idrocarburi, il nostro sistema industriale - in primo luogo le imprese produttrici di energia elettrica - produce 120 milioni di tonnellate all' anno di anidride carbonica in più rispetto al limite che ci è stato assegnato. Se facciamo il conto complessivo sui primi 5 anni del protocollo, sono 600 milioni di tonnellate. Di questi, circa un terzo potrebbe essere ridotto con i provvedimenti già varati e noi riteniamo che un altro terzo si dovrebbe riuscire ad abbattere con ulteriori misure di efficienza energetica. Il resto andrà comprato sul mercato dei certificati di emissione: calcolando un prezzo medio di 15 euro a tonnellata, già molto ottimistico, la spesa si aggira sui 3 miliardi di euro. Ma perché non metterli in Italia - si chiede Silvestrini - invece che andare a spenderli all' estero?». Basterebbe un minimo di programmazione per far nascere anche qui, come in Germania o in Danimarca, una filiera delle fonti rinnovabili potenzialmente molto redditizia. «Sul fotovoltaico, dopo il decreto d' incentivazione in conto energia, qualcosa si sta già muovendo: ci sono aziende produttrici straniere che vengono a chiedermi informazioni per un possibile investimento in Italia. Ma l' obiettivo di raggiungere i 1000 MW fotovoltaici entro il 2015 è troppo basso. Per ora solo 340 MW sono stati autorizzati, a fronte di una valanga di richieste. Basterebbe alzare l' obiettivo, e magari ridimensionare un pò l' incentivazione per non sforare il budget, per creare i presupposti all' insediamento di produttori di pannelli sul nostro territorio, dando vita a un' industria di questo tipo, com' è già successo in Germania». Ma in Italia non c' è solo il sole. «Le resistenze all' eolico di alcune regioni, come Sardegna e Puglia, andrebbero corrette con un sistema di "burden sharing": ogni regione dovrebbe essere obbligata a dare il suo contributo alla costruzione di un sistema di fonti rinnovabili. Se non vuole l' eolico, scelga qualcos' altro, dal solare alle biomasse, ce n' è per tutti. Dire no e basta non dovrebbe essere consentito». Un sistema che potrebbe aiutare molto alcuni settori in crisi. «Guardiamo ad esempio alla conversione della produzione agricola dal food al non food che si è scatenata in Germania: con gli alti prezzi del petrolio, l' entrata in vigore del protocollo di Kyoto e la fine della Pac, la politica agricola comunitaria, le fonti rinnovabili sono state una manna per i contadini in cerca di nuove fonti di reddito: ospitare aerogeneratori o pannelli fotovoltaici, produrre biomasse o biocarburanti per la generazione elettrica o il trasporto sta salvando un settore in crisi».

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Aumentare l'offerta. E il prezzo scenderà

Sulla questione del sistema energetico si è perso troppo tempo e ora dobbiamo recuperare. Per Pippo Ranci, economista della Cattolica ed ex presidente dell' Authority per l' energia, il problema è duplice: d' infrastrutture e di regole. «In Italia negli ultimi anni è cresciuto moltissimo il consumo di gas, utilizzato per produrre la maggior parte dell' energia elettrica di questo Paese: per far funzionare il sistema bisogna quindi aumentare di molto gli approvvigionamenti, rafforzando le infrastrutture, sia i gasdotti che i terminali di rigassificazione, che garantiscono una pluralità di fornitori». Quando avremo più gas, anche il prezzo scenderà, influenzando quello dell' energia elettrica. Servono perciò nuovi investimenti, ma anche nuove regole. «Le nostre importazioni di gas continuano a essere mirate solo a soddisfare a malapena il fabbisogno interno: è un sistema derivato dalla politica tradizionale dell' Eni, che non ha interesse a costruire più infrastrutture di quelle strettamente necessarie. Ma questo non è più accettabile: come l' elettricità circola liberamente in un mercato integrato europeo, così dev' essere anche per il gas». Per ampliare il mercato, ci dev' essere concorrenza anche sul fronte delle importazioni. «Finché sarà solo l' Eni a controllare tutto l' import, l' Italia non riuscirà mai a diventare un hub del gas, così come sarebbe conveniente: non dimentichiamo che la sicurezza di un Paese di transito è molto maggiore di quella di un Paese solo consumatore». E l' Italia si presta a diventarlo per la sua collocazione geografica centrale nel Mediterraneo, ideale punto di raccordo fra i produttori del Nord Africa e i consumatori del Centro Europa. «Ma va modificata alla radice la struttura societaria delle reti, che non possono stare in mano agli operatori: Snam Rete Gas dev' essere separata dall' Eni e il governo deve garantirne la neutralità». Ma non si rischia, come ammonisce frequentemente Paolo Scaroni, di farla finire in mano ai russi? «A Gazprom interessano i clienti finali: non la rete di trasporto, ma semmai quella di distribuzione. E comunque, l' azionariato di Snam dev' essere neutrale e stabile, non soggetto a scalate». Anche gli stoccaggi, remunerati con tariffa amministrata, oggi sono ancora tutti in mano all' Eni. «Se il consumo aumenta e vogliamo mantenere buoni livelli di sicurezza, dobbiamo accrescere le riserve. E' opportuno che anche il mercato degli stoccaggi venga aperto: o facendo offrire il servizio, oggi appannaggio della Stogit, in concorrenza da diversi soggetti, o con una progressiva riduzione della quota Eni in Stogit». Il rischio di ridimensionare troppo un campione nazionale, che sul mercato mondiale deve competere con aziende molto più grandi, secondo Ranci non esiste. Come non esiste l' utilità di una fusione o di un incrocio di partecipazioni fra Eni ed Enel, per accrescerne il peso specifico. «Per evitare che vengano scalate dall' estero non è necessario portare a un matrimonio così innaturale due società con interessi radicalmente diversi. Basta che crescano bene e siano ben amministrate: i loro azionisti le difenderanno dagli attacchi esterni».

Senza gas l'Italia al freddo. E al buio

Un mix di produzione del tutto anomalo che porta il prezzo dell' energia in Italia fuori dalle medie europee. Per Davide Tabarelli, direttore dell' istituto bolognese Ricerche industriali ed energetiche (Rie), se vogliamo ridurre i prezzi dobbiamo seguire il modello degli altri Paesi industrializzati. «La regola generale è che almeno il 50% della produzione elettrica vada a nucleare e carbone, per liberarsi dalla schiavitù degli idrocarburi». Da questa regola non si scappa: nessun Paese al mondo produce metà della sua energia elettrica bruciando metano, come si avvia a fare l' Italia con l' inaugurazione delle prossime centrali a gas. E nessun Paese industrializzato ha solo il 14% di carbone e neanche una centrale atomica. «La corsa alla sostituzione dell' olio combustibile con il gas prescinde completamente da considerazioni di prezzo e di sicurezza degli approvvigionamenti - spiega Tabarelli - e comunque non rientra in nessuna strategia complessiva, che dovrebbe essere dettata dalla politica e invece manca totalmente». Non a caso, l' Italia è l' unico Paese d' Europa ad avere sofferto così tanto della crisi del gas quest' inverno, «perché senza gas gli altri restano al freddo, ma noi si resta anche al buio - fa notare Tabarelli -. Abbiamo avuto il più grosso blackout della storia elettrica - fa notare Tabarelli - ma non abbiamo ancora imparato che per evitare guai bisogna impostare una politica energetica di vasto respiro». «Siamo l' unico Paese al mondo - aggiunge - che, pur soffrendo di una grave dipendenza dal gas, su 8 mila chilometri di coste non ha neanche un rigassificatore, a parte quello vecchissimo di Panigaglia, quando ormai ne sorgono come funghi in tutta Europa: la Spagna ne ha già quattro». E non ci sono grandi prospettive di correggere il tiro: «È stato proprio l' attuale ministro dell' industria, Pier Luigi Bersani, a bloccare la costruzione del terminale di rigassificazione di Monfalcone nel ' 96, che ci sarebbe tornato utilissimo per diversificare gli approvvigionamenti ed evitare la crisi quando Mosca ha chiuso i rubinetti». Magari ora avrà cambiato idea. «Ma nel frattempo gli italiani hanno pagato un prezzo del gas e dell' energia del tutto sproporzionato», commenta Tabarelli. Lo stesso sta succedendo con la riconversione a carbone delle centrali Enel a olio. «Il carbone non piace a nessuno, ma inquina meno dell' olio combustibile, se la centrale è fatta bene, e costa poco: produrre un megawattora con una centrale a gas costa 75 euro, con il carbone solo 45». Allora che senso ha bloccarlo? «Fino a qualche mese fa dicevamo che sono le amministrazioni locali a opporsi, ma ora rischiamo di trovarci davanti a un paradosso: a Porto Tolle, ad esempio, l' assenso delle amministrazioni locali c' è già, ma si sta scontrando con le resistenze del nuovo ministro dell' Ambiente». Per l' Enel, che combatte da anni sulla centrale di Civitavecchia, è un grosso danno. «Ma alla fine dei conti chi paga siamo noi: se non vogliono il carbone, l' Enel può anche produrre energia bruciando Chanel N°5, tanto alla fine scarica tutto sui prezzi finali».

Sulle rinnovabili il modello è tedesco

Bene il gas, ma ci vogliono anche le fonti rinnovabili. Per Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club, associazione d' imprese ed enti impegnati sul fronte delle energie alternative, il mix italiano di generazione elettrica ha enormi potenzialità su questo fronte, che non vengono sfruttate. Ma fra neanche un anno e mezzo il nostro sistema energetico arriverà al dunque. Nel 2007, infatti, Kyoto presenta il conto e per l' industria italiana sarà un conto salato. Spiega Silvestrini: «Bruciando idrocarburi, il nostro sistema industriale - in primo luogo le imprese produttrici di energia elettrica - produce 120 milioni di tonnellate all' anno di anidride carbonica in più rispetto al limite che ci è stato assegnato. Se facciamo il conto complessivo sui primi 5 anni del protocollo, sono 600 milioni di tonnellate. Di questi, circa un terzo potrebbe essere ridotto con i provvedimenti già varati e noi riteniamo che un altro terzo si dovrebbe riuscire ad abbattere con ulteriori misure di efficienza energetica. Il resto andrà comprato sul mercato dei certificati di emissione: calcolando un prezzo medio di 15 euro a tonnellata, già molto ottimistico, la spesa si aggira sui 3 miliardi di euro. Ma perché non metterli in Italia - si chiede Silvestrini - invece che andare a spenderli all' estero?». Basterebbe un minimo di programmazione per far nascere anche qui, come in Germania o in Danimarca, una filiera delle fonti rinnovabili potenzialmente molto redditizia. «Sul fotovoltaico, dopo il decreto d' incentivazione in conto energia, qualcosa si sta già muovendo: ci sono aziende produttrici straniere che vengono a chiedermi informazioni per un possibile investimento in Italia. Ma l' obiettivo di raggiungere i 1000 MW fotovoltaici entro il 2015 è troppo basso. Per ora solo 340 MW sono stati autorizzati, a fronte di una valanga di richieste. Basterebbe alzare l' obiettivo, e magari ridimensionare un pò l' incentivazione per non sforare il budget, per creare i presupposti all' insediamento di produttori di pannelli sul nostro territorio, dando vita a un' industria di questo tipo, com' è già successo in Germania». Ma in Italia non c' è solo il sole. «Le resistenze all' eolico di alcune regioni, come Sardegna e Puglia, andrebbero corrette con un sistema di "burden sharing": ogni regione dovrebbe essere obbligata a dare il suo contributo alla costruzione di un sistema di fonti rinnovabili. Se non vuole l' eolico, scelga qualcos' altro, dal solare alle biomasse, ce n' è per tutti. Dire no e basta non dovrebbe essere consentito». Un sistema che potrebbe aiutare molto alcuni settori in crisi. «Guardiamo ad esempio alla conversione della produzione agricola dal food al non food che si è scatenata in Germania: con gli alti prezzi del petrolio, l' entrata in vigore del protocollo di Kyoto e la fine della Pac, la politica agricola comunitaria, le fonti rinnovabili sono state una manna per i contadini in cerca di nuove fonti di reddito: ospitare aerogeneratori o pannelli fotovoltaici, produrre biomasse o biocarburanti per la generazione elettrica o il trasporto sta salvando un settore in crisi».

Municipalizzate ancora troppo piccole

La partita dell' energia ormai è una partita globale. Per Andrea Gilardoni, direttore del master in Economia e gestione dei servizi di pubblica utilità della Bocconi, il problema della dimensione d' impresa delle utilities va visto in una prospettiva europea. «Da un lato - dice - bisogna accelerare il processo d' internazionalizzazione delle imprese italiane dell' energia, dall' altro favorire l' aggregazione interna fra gruppi di utilities per consentire la formazione di quattro o cinque poli capaci di competere fra loro». Il che non esclude, naturalmente, l' apertura del mercato italiano a soggetti stranieri. «La presenza di operatori internazionali è una preziosa opportunità per arricchire il sistema nazionale da molti punti di vista, tecnologici, finanziari e di approvvigionamento - dice Gilardoni -. Anche se, data la strategicità della materia energetica, questa presenza non dovrebbe mai diventare ragione di eccessiva dipendenza e perdita di autonomia». L' internazionalizzazione, quindi, è in cima all' agenda: «Con tutto il rispetto per l' importanza del libero mercato - fa notare Gilardoni - il ruolo del governo non va sottovalutato in questo campo: in tema di approvvigionamento è stato nel passato, ed è ancora oggi, decisivo. Non bisogna dimenticare, infatti, che in molti Paesi sono le compagnie di Stato a gestire le risorse energetiche. E ciò impone delle considerazioni di carattere più generale sul ruolo fondamentale della diplomazia». Di conseguenza non è pensabile, secondo Gilardoni, una completa privatizzazione di Eni ed Enel, né un ulteriore smagrimento dei due «campioni nazionali»: tranne per quanto riguarda Snam Rete Gas, che andrebbe scorporata dall' Eni per renderla neutrale come Terna. «Basta guardare che cos' è successo in questi giorni con la questione Suez, o durante l' inverno con i problemi di approvvigionamento del gas dalla Russia, per capire che Enel ed Eni devono andare nel mondo con alle spalle un governo ben deciso a sostenerle». D' altra parte, il governo dovrebbe avviare una politica capace di facilitare la crescita della competizione interna, favorendo le aggregazioni. «Un processo in questo senso è già bene avviato, con le aggregazioni nel Nord, attorno ad Aem Milano e a Hera, ma bisognerebbe allargare il raggio d' azione, creare concentrazioni più vaste». La strada per accelerare il processo di aggregazione non passa tanto attraverso un sistema di incentivazione diretta - precisa Gilardoni - bensì attraverso la rimozione di circostanze che, di fatto, scoraggiano l' accorpamento. «Utilizzando, ad esempio, il sistema delle gare per l' affidamento della distribuzione locale, e rafforzando l' obbligo di condizioni minime di sicurezza e qualità del servizio, si porta automaticamente le società più piccole a unirsi per sfruttare le economie di scala. Nella pratica, per una piccola società è spesso difficile ottemperare in maniera rigorosa a tutti gli obblighi su sicurezza e qualità. Già oggi si vedono gli effetti dei controlli dell' Autorità: una costante pressione del regolatore in questo senso ha l' effetto di spingere le società ad aggregarsi e a diventare più efficienti».

29 maggio 2006

Kyoto, Enel presenta il conto

Il mercato delle quote di anidride carbonica non è ancora partito in Italia, ma l' Enel già presenta il conto di Kyoto ai suoi grandi clienti, con una maggiorazione del 2% sul prezzo dell' elettricità. La richiesta di pagare un addizionale di 1,67 euro al megawattora colpisce tutte le imprese energivore che avevano firmato contratti diretti con l' ex monopolista, compreso l' Acquirente Unico che rifornisce di energia le famiglie italiane, già salassate da un prezzo dell' energia superiore di un terzo rispetto al resto d' Europa. «Nel 2005 - dice l' Enel - l' onere sopportato per l' acquisto di quote e già iscritto a bilancio è stato pari a circa 180 milioni di euro». La compagnia elettrica guidata da Fulvio Conti, infatti, ha sforato di ben 8,6 milioni di tonnellate le emissioni di anidride carbonica assegnate alle sue centrali dal Piano nazionale di allocazione, appena varato in applicazione del protocollo di Kyoto, contro gli 1-2 milioni previsti inizialmente. E se quest' anno è andata così, le prospettive per l' anno prossimo non sono certo rosee, calcolando la crisi del gas che nei primi mesi del 2006 ha costretto gli operatori elettrici italiani a far andare diverse centrali a olio combustibile invece che a metano, con un aggravio notevole sul bilancio dell' anidride carbonica. Le emissioni in eccesso vanno compensate, comprando una quantità corrispondente di permessi sul mercato, altrimenti si rischiano multe salatissime. Ed è quello che Enel ha fatto, come del resto era previsto: sin dal settembre 2004 il gruppo aveva avvertito gli operatori che i prezzi dell' energia elettrica avrebbero potuto inglobare i costi dell' acquisto dei permessi. Resta da chiedersi, come ha scritto Emma Marcegaglia in una lettera di protesta a Fulvio Conti, se è corretto scaricare in toto questi extra-costi sui clienti e quindi, in ultima analisi, sulle bollette. L' Enel non ha alcun dubbio: i costi di Kyoto vanno spalmati sulla comunità. E ci è andata pure bene: in Germania - precisa il gruppo - «l' incremento imputabile al costo della CO2 nel 2005 è stimato attorno ai 13 euro al megawattora». Ma i rincari lasciano lo stesso perplessi tutti quanti, anche perché altri operatori, come Edison, hanno presentato un conto più modesto o addirittura, come Electrabel, hanno deciso di non trasferire questi costi sui consumatori. Soltanto per le 520 mila imprese riunite in Confartigianato gli oneri aggiuntivi sono stati stimati in 20 milioni di euro. Un esborso particolarmente fastidioso se si considera che ogni anno i consumatori versano circa 2 miliardi di euro, attraverso le tariffe stabilite dall' Authority, per incentivare la produzione di energia pulita. «Che fine hanno fatto queste risorse - si chiede il presidente Giorgio Guerrini - dal momento che non hanno consentito di abbattere le quote di anidride carbonica?». La domanda è legittima, tanto più che le imprese italiane non brillano certo per la loro lungimiranza in tema di applicazione del protocollo. «A meno di un mese dalla definizione dei nuovi piani di assegnazione delle quote per il periodo 2008-2012 in Italia permane una situazione di caos: solo il 20% degli impianti ha provveduto alla restituzione delle emissioni nei tempi previsti (in buona parte per colpa del malfunzionamento del registro nazionale) e il 5% non ha ancora attuato la verifica, con il risultato che il deficit di emissioni salirà ancora», spiega Michele Villa, partner del gruppo Environmental Resources Management ed esperto del protocollo di Kyoto. «Tra i grandi produttori - fa notare Villa - pochi sembrano guadagnare dal sistema, alcuni registrano un forte bilancio negativo tra emissioni effettive e quote assegnate. È il segnale di una capacità ancora ridotta di valutare il proprio contributo alle emissioni e quindi di definire strategie vincenti sui mercati di scambio». Mentre la macchina europea dell' Emissions Trading esce in questi giorni dalla fase di rodaggio, infatti, il sistema italiano non ha ancora nemmeno gettato le basi per negoziare gli scambi. Con la prospettiva di forti squilibri competitivi per le imprese italiane sul mercato europeo.

Eric von Hippel

Chi è che ne sa di più su un prodotto? Una volta si sarebbe detto la persona che lo ha progettato. Ma oggi non è più cosi. Ci sono molti utenti che davvero ne sanno di più su alcuni prodotti rispetto alle stesse aziende produttrici. E' per questo che Eric Von Hippel, autore di “Democratizing Innovation”, dalla sua cattedra della Sloan School of Management al Mit teorizza da tempo l'idea che il prossimo passo sarà la trasformazione della produzione di massa di stampo fordista e post-fordista in qualcosa di completamente diverso, su misura, creato e gestito dagli utenti stessi attraverso il web. E' il trasferimento del concetto di open source alla più ampia produzione industriale di beni di consumo.
Come vede dunque il futuro della produzione industriale?
“Vedo una produzione di massa in cui attraverso il web le persone abbiano la possibilità di customizzare al massimo il prodotto, riducendolo a una miriade di micro scambi in cui si salti l'attuale filiera degli intermediari e il processo produttivo si trasformi, dando spazio a una nuova modalità di produzione su misura mirata direttamente al consumatore”.
Sembra fantascienza...
“Non direi. L’Ibm è famosa per il suo ricco magazzino di invenzioni brevettate. L'anno scorso, ancora una volta è arrivata prima nelle classifiche della ricerca per gli Stati Uniti, mettendo insieme 3.248 brevetti, più di qualsiasi altra società. E ha guadagnato circa 800 milioni di euro vendendo e distribuendo licenze delle sue idee. Perché, allora, ha cambiato corso, regalando alcuni dei risultati della sua ricerca, invece di far pagare gli altri per utilizzarli? Perché ha interesse a farlo”.
In che cosa consiste questo interesse?
“Controcorrente rispetto all’opinione diffusa, l’azienda ha calcolato che a volte condividere la tecnologia può essere più redditizio che non difendere gelosamente i propri diritti su brevetti, copyright e segreti commerciali. E le sue mosse vengono osservate attentamente nel mondo degli affari. Recentemente, Ibm ha fatto un gesto significativo in direzione di quella che ha definito una nuova era nei metodi per mantenere il controllo delle sue proprietà intellettuali, annunciando di voler mettere gratuitamente a disposizione 500 brevetti, per la maggior parte codici di programmazione per la gestione di programmi di commercio elettronico, immagazzinamento dati, elaborazione di immagini e comunicazioni Internet. Big Blue ha dichiarato che tutti i suoi futuri contributi alla più importante associazione per la standardizzazione del commercio elettronico, l’Organization for the Advancement of Structured Information Standards, saranno gratuiti”.
L’Ibm è all’avanguardia da questo punto di vista, ma anche altre aziende,in tutti i settori, stanno riconsiderando la loro strategia sulla proprietà intellettuale. Cosa mettere in comune con gli altri? Cosa tenere per sé, facendo pagare chi vuole utilizzarlo?
“Internet, la globalizzazione, e la pressione dei costi stanno spingendo le aziende a collaborare alla ricerca di un innalzamento di produttività e ad accelerare il ritmo dello sviluppo dei prodotti. Questa collaborazione impone alle aziende di condividere una maggior quantità di informazioni tecniche con i clienti, i fornitori e i partner di settore. Il risultato è che le linee di confine e i termini di scambio, nel campo della proprietà intellettuale si stanno spostando. Il mondo degli affari oggi è impegnato in un gigantesco esperimento per cercare di capire quali settori della proprietà intellettuale aprire e quali mantenere chiusi. Il destino di molte aziende,e la forza delle economie nazionali, dipenderanno dagli esiti di questo esperimento".
Questo cambiamento dev'essere attentamente calibrato...
“Guardiamo di nuovo all'Ibm: Big Blue non sta rinunciando alla sua lucrativa attività di concessione dei diritti di utilizzazione, né sta rinunciando a registrare nuovi brevetti. E non intende neanche dare via gratis la tecnologia per i suoi computer mainframe, i suoi software di archiviazione brevettati e altri prodotti completi. Caso mai mette a disposizione gratuitamente i tasselli tecnologici che consentono di estendere la comunicazione all’interno delle reti di settore.
Queste iniziative comportano dei rischi...
"Quando metti a disposizione parte della tua tecnologia, sei costretto a salire ancora più in alto nella catena alimentare economica del tuo settore. Attraverso le reti di cooperazione informativa si realizza un’innovazione sempre maggiore nel settore e per questo sono necessari standard tecnici aperti”.
Anche in altri settori le aziende stanno lavorando su standard per la condivisione di una quota maggiore d'informazioni...
“Per creare standard robusti e largamente usati, le aziende devono rendere disponibili i propri brevetti a tariffe contenute o gratuiti. Il ritorno potenziale sta nel fatto che aprire gli standard aiuterà tutto il settore a crescere più velocemente. Se apri agli altri la tua tecnologia e lo fai rapidamente, gli altri ci costruiranno su qualcosa. Così essere aperti diventa più efficiente economicamente".
Nel suo libro “Demcratizing Innovation” lei sostiene che l'innovazione originata dagli utenti può diventare più competitiva di quella originata dalle aziende. Può fare qualche esempio?
“La storia del kite surfing è un buon esempio. Il kite surfing è uno sport acquatico in cui si utilizza una tavola simile alla tavola da surf ma invece che alle onde ci si affida alla spinta del vento, aggrappandosi a un grande aquilone comandabile che consente di fare grandi salti e acrobazie molto suggestive. Nel corso degli anni le vendite di equipaggiamento dedicato a questo sport sono cresciuto fino a raggiungere un giro d'affari da oltre 100 milioni di dollari, spartito fra diverse aziende di attrezzature sportive. Ma nel 2001 Saul Griffith, dottorando al Mit e molto interessato a questo sport, decise di creare un sito Internet dove la comunità del kite surfing potesse scambiarsi dei consigli e mettere in comune le innovazioni utili a migliorare la funzionalità delle attrezzature. Il sito ebbe subito molto successo e diversi surfer cominciarono a mettere in rete i loro disegni. Alcuni misero a disposizione della comunità dei software capaci di creare nuovi modelli aerodinamici e trasformarli rapidamente in prototipi. Molti partecipanti si rivelarono ben presto tecnici sofisticati, addirittura dipendenti di società aerospaziali. La qualità dello sforzo collettivo finì per superare le capacità innovative delle aziende produttrici, che cominciarono ad attingere direttamente al sito per scaricare i disegni migliori. In altre parole, l'innovazione prodotta dagli utenti diventò trainante rispetto a quella delle aziende produttrici”.
Si tratta però di un mercato di nicchia...
“Sì, ma non è l'unico settore. Ad esempio tutto il mercato della strumentazione medica, un settore dal giro d'affari gigantesco, sta subendo una metamorfosi di questo tipo. Perfino nel mondo dell'automotive si riscontrano fenomeni analoghi. In pratica, si tratta di un trend molto più diffuso di quanto si creda. Con gli struemtni presenti in rete, gli utenti sono sempre più capaci d'innovare da soli e di mettersi in contatto con altre persone interessate agli stessi argomenti, scovandole anche all'altro capo del mondo. Lo sviluppo di strumenti informatici di progettazione sempre più sofisticati e la crescente estensione delle reti di utenti connessi, consentono agli utenti che non trovano in commercio quello che vogliono di svilupparselo da soli”.
In pratica, si torna all'abito tagliato su misura?
“Sì, c'è un marcato trend in questa direzione. Dai dati che abbiamo risulta chiaramente che i consumatori sono sempre più eterogenei ed esigenti. Questo porta automaticamente ad un livello sempre più elevato di innovazione dal basso. In base alle ricerche empiriche che abbiamo condotto nell'ultimo anno, dal 10 al 40% dei consumatori hanno apportato in proprio delle modifiche a un prodotto industriale in molti settori diversi. Ed è chiaramente una tendenza in crescita”.