18 dicembre 2006
La battaglia delle tariffe elettriche
11 dicembre 2006
Bruciamo più gas, ne arriva sempre meno
13 novembre 2006
Il triangolo della morte di Acerra
6 novembre 2006
La concorrenza vola con il vento
30 ottobre 2006
Per l'Eni Capo Nord si fa rovente
25 ottobre 2006
Blog aziendali, dal marketing al knowledge management
23 ottobre 2006
Solare? In Italia incentivati solo i furbi
25 settembre 2006
Offshoring fino all'ultimo respiro
18 settembre 2006
Snam: nessuna fusione con Terna
11 settembre 2006
Vendola: rigassificatori a Brindisi mai
Illy: un rigassificatore va bene, anzi due
4 settembre 2006
British Gas: "Vi bruciate la reputazione"
20 agosto 2006
Eli Noam
Quali sono le differenze più importanti? “Per entrambi il collegamento di base è la banda larga, che consente di connettersi a internet ad alta velocità. Man mano che la banda larga diventa più potente e diffusa, viene vista dai consumatori come lo standard di trasmissione per video, musica, giochi, notizie o altri servizi, dalla telemedicina al telelavoro. Ma in Europa e in Nord America si vanno imponendo due tipi di banda larga molto diversi fra di loro”.
Faccia un esempio… “In generale in Europa la banda larga arriva nelle case della gente attraverso il doppino di rame delle compagnie telefoniche, utilizzando una tecnologia nota come DSL. Questa è la via più economica e non richiede molti investimenti. Ma offre una capacità di trasmissione e una portata relativamente limitate. Al contrario negli Stati Uniti la banda larga è fornita principalmente attraverso i cavi – molto più potenti - delle compagnie televisive”.
Perché succede questo? “I motivi sono svariati, ma il più importante è la prevalenza della tv via cavo in Nord America, mentre nei principali Paesi europei la tv tende a essere trasmessa via satellite. C’è pochissima tv via cavo in Francia, Italia, Spagna e Polonia, un po’ di più in Germania e nel Regno Unito, ma anche qui stenta ad attecchire”.
E quindi? “Negli Stati Uniti, le compagnie televisive hanno spinto molto aggressivamente la diffusione della banda larga attraverso i loro potenti cavi coassiali e si sono accaparrate i due terzi del mercato. Gli operatori telefonici, soprattutto Verizon, hanno dovuto darsi una mossa per riconquistare posizioni e dopo aver tentato di sfondare con la tecnologia DSL come gli operatori europei, si sono imbarcati in una serie di costosi programmi per passare alla fibra ottica. Verizon, ad esempio, ha molto inquietato i suoi investitori lanciando un programma di upgrade da 20 miliardi, nella convinzione che sia l’unico mezzo per non rischiare di restare fuori da questo business”.
E questo che cosa comporta? “Comeporta una notevole sfasatura fra i due sistemi. Da un lato il Nord America e la Corea (leader mondiale nel tasso di penetrazione della banda larga) si stanno muovendo verso un sistema basato su una ‘piattaforma 2,5’ con due potenti reti – quella della tv via cavo e quella a fibre ottiche degli operatori telefonici – più altre infrastrutture più piccole per applicazioni di nicchia come reti e wi-fi municipali, linee elettriche e satelliti. Dall’altro lato i principali Paesi europei vanno invece verso un sistema basato su una ‘piattaforma 1,5’ incentrata sulla tecnologia DSL diffusa attraverso il doppino di rame o talvolta la fibra ottica dalle compagnie telefoniche, più altre opzioni secondarie. Il traffico dati via cellulare è destinato a restare un’alternativa circoscritta, a meno che non gli venga allocata una vasta porzione dello spettro o si ricopra ogni altura con una folla di ripetitori”.
Dunque si va verso due mercati molto diversi fra di loro… “Certamente. La struttura dei due mercati è sempre più diversa, il che a sua volta ha un impatto sui contenuti, i prezzi, gli investimenti e la politica regolatoria. Un sistema 1,5 è basato essenzialmente su un monopolio delle compagnie telefoniche, mentre un sistema 2,5 tende a diventare un oligopolio. Nei Paesi con un sistema 2,5 c’è più competizione, prezzi più bassi, maggiore dinamismo ma anche maggiore volatilità. I sistemi 1,5 sono più remunerativi, quindi più sicuri per gli investitori, ma danno maggiore potere di mercato agli operatori dominanti nei confronti dei fornitori di contenuti e anche dei consumatori, che spesso devono pagare tariffe più alte. Per questo un sistema 1,5 ha bisogno di politiche regolatorie più restrittive sulle tariffe e sull’accesso al mercato. Un sistema 2,5 è più rischioso per gli investitori, anche se la competizione sui prezzi può essere tenuta sotto controllo dalla sua struttura oligopolistica”.
Altre implicazioni? “Un sistema 1,5 assomiglierà più probabilmente a un sistema telefonico, aperto a tutti ma lento nell’innovare. All’opposto un sistema 2,5 assomiglierà di più a un sistema televisivo, con maggiore partecipazione del provider alla creazione dei contenuti”.
E questo che cosa comporta per il tipo di mezzi di comunicazione in via di sviluppo sulle due sponde dell’Atlantico? “Il sistema 2,5 - più potente e meno regolamentato – produrrà nuovi stili tecnologici e contenuti innovativi più rapidamente dell’altro. Sarà un sistema che favorisce l’imprenditorialità commerciale, sia da parte dei media già consolidati che da parte di nuove startup. Il sistema 1,5 – più limitato – sarà mantenuto più aperto dalle politiche regolatorie e perciò sarà più accessibile ai contenuti alternativi, non profit. Il primo sarà più dinamico, il secondo più trasversale. Il primo più commerciale, l’altro più partecipativo. E se è vero che il mezzo è il messaggio, queste caratteristiche avranno un impatto di lungo termine sulla società, la cultura, la crescita economica e la politica sulle due sponde dell’Atlantico”.
3 luglio 2006
Serve un campione o gli asiatici ci mangeranno
12 giugno 2006
Aumentare l'offerta. E il prezzo scenderà
Sulla questione del sistema energetico si è perso troppo tempo e ora dobbiamo recuperare. Per Pippo Ranci, economista della Cattolica ed ex presidente dell' Authority per l' energia, il problema è duplice: d' infrastrutture e di regole. «In Italia negli ultimi anni è cresciuto moltissimo il consumo di gas, utilizzato per produrre la maggior parte dell' energia elettrica di questo Paese: per far funzionare il sistema bisogna quindi aumentare di molto gli approvvigionamenti, rafforzando le infrastrutture, sia i gasdotti che i terminali di rigassificazione, che garantiscono una pluralità di fornitori». Quando avremo più gas, anche il prezzo scenderà, influenzando quello dell' energia elettrica. Servono perciò nuovi investimenti, ma anche nuove regole. «Le nostre importazioni di gas continuano a essere mirate solo a soddisfare a malapena il fabbisogno interno: è un sistema derivato dalla politica tradizionale dell' Eni, che non ha interesse a costruire più infrastrutture di quelle strettamente necessarie. Ma questo non è più accettabile: come l' elettricità circola liberamente in un mercato integrato europeo, così dev' essere anche per il gas». Per ampliare il mercato, ci dev' essere concorrenza anche sul fronte delle importazioni. «Finché sarà solo l' Eni a controllare tutto l' import, l' Italia non riuscirà mai a diventare un hub del gas, così come sarebbe conveniente: non dimentichiamo che la sicurezza di un Paese di transito è molto maggiore di quella di un Paese solo consumatore». E l' Italia si presta a diventarlo per la sua collocazione geografica centrale nel Mediterraneo, ideale punto di raccordo fra i produttori del Nord Africa e i consumatori del Centro Europa. «Ma va modificata alla radice la struttura societaria delle reti, che non possono stare in mano agli operatori: Snam Rete Gas dev' essere separata dall' Eni e il governo deve garantirne la neutralità». Ma non si rischia, come ammonisce frequentemente Paolo Scaroni, di farla finire in mano ai russi? «A Gazprom interessano i clienti finali: non la rete di trasporto, ma semmai quella di distribuzione. E comunque, l' azionariato di Snam dev' essere neutrale e stabile, non soggetto a scalate». Anche gli stoccaggi, remunerati con tariffa amministrata, oggi sono ancora tutti in mano all' Eni. «Se il consumo aumenta e vogliamo mantenere buoni livelli di sicurezza, dobbiamo accrescere le riserve. E' opportuno che anche il mercato degli stoccaggi venga aperto: o facendo offrire il servizio, oggi appannaggio della Stogit, in concorrenza da diversi soggetti, o con una progressiva riduzione della quota Eni in Stogit». Il rischio di ridimensionare troppo un campione nazionale, che sul mercato mondiale deve competere con aziende molto più grandi, secondo Ranci non esiste. Come non esiste l' utilità di una fusione o di un incrocio di partecipazioni fra Eni ed Enel, per accrescerne il peso specifico. «Per evitare che vengano scalate dall' estero non è necessario portare a un matrimonio così innaturale due società con interessi radicalmente diversi. Basta che crescano bene e siano ben amministrate: i loro azionisti le difenderanno dagli attacchi esterni».
Etichette: gas
Municipalizzate ancora troppo piccole
La partita dell' energia ormai è una partita globale. Per Andrea Gilardoni, direttore del master in Economia e gestione dei servizi di pubblica utilità della Bocconi, il problema della dimensione d' impresa delle utilities va visto in una prospettiva europea. «Da un lato - dice - bisogna accelerare il processo d' internazionalizzazione delle imprese italiane dell' energia, dall' altro favorire l' aggregazione interna fra gruppi di utilities per consentire la formazione di quattro o cinque poli capaci di competere fra loro». Il che non esclude, naturalmente, l' apertura del mercato italiano a soggetti stranieri. «La presenza di operatori internazionali è una preziosa opportunità per arricchire il sistema nazionale da molti punti di vista, tecnologici, finanziari e di approvvigionamento - dice Gilardoni -. Anche se, data la strategicità della materia energetica, questa presenza non dovrebbe mai diventare ragione di eccessiva dipendenza e perdita di autonomia». L' internazionalizzazione, quindi, è in cima all' agenda: «Con tutto il rispetto per l' importanza del libero mercato - fa notare Gilardoni - il ruolo del governo non va sottovalutato in questo campo: in tema di approvvigionamento è stato nel passato, ed è ancora oggi, decisivo. Non bisogna dimenticare, infatti, che in molti Paesi sono le compagnie di Stato a gestire le risorse energetiche. E ciò impone delle considerazioni di carattere più generale sul ruolo fondamentale della diplomazia». Di conseguenza non è pensabile, secondo Gilardoni, una completa privatizzazione di Eni ed Enel, né un ulteriore smagrimento dei due «campioni nazionali»: tranne per quanto riguarda Snam Rete Gas, che andrebbe scorporata dall' Eni per renderla neutrale come Terna. «Basta guardare che cos' è successo in questi giorni con la questione Suez, o durante l' inverno con i problemi di approvvigionamento del gas dalla Russia, per capire che Enel ed Eni devono andare nel mondo con alle spalle un governo ben deciso a sostenerle». D' altra parte, il governo dovrebbe avviare una politica capace di facilitare la crescita della competizione interna, favorendo le aggregazioni. «Un processo in questo senso è già bene avviato, con le aggregazioni nel Nord, attorno ad Aem Milano e a Hera, ma bisognerebbe allargare il raggio d' azione, creare concentrazioni più vaste». La strada per accelerare il processo di aggregazione non passa tanto attraverso un sistema di incentivazione diretta - precisa Gilardoni - bensì attraverso la rimozione di circostanze che, di fatto, scoraggiano l' accorpamento. «Utilizzando, ad esempio, il sistema delle gare per l' affidamento della distribuzione locale, e rafforzando l' obbligo di condizioni minime di sicurezza e qualità del servizio, si porta automaticamente le società più piccole a unirsi per sfruttare le economie di scala. Nella pratica, per una piccola società è spesso difficile ottemperare in maniera rigorosa a tutti gli obblighi su sicurezza e qualità. Già oggi si vedono gli effetti dei controlli dell' Autorità: una costante pressione del regolatore in questo senso ha l' effetto di spingere le società ad aggregarsi e a diventare più efficienti».
Etichette: utilities
Sulle rinnovabili il modello è tedesco
Bene il gas, ma ci vogliono anche le fonti rinnovabili. Per Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club, associazione d' imprese ed enti impegnati sul fronte delle energie alternative, il mix italiano di generazione elettrica ha enormi potenzialità su questo fronte, che non vengono sfruttate. Ma fra neanche un anno e mezzo il nostro sistema energetico arriverà al dunque. Nel 2007, infatti, Kyoto presenta il conto e per l' industria italiana sarà un conto salato. Spiega Silvestrini: «Bruciando idrocarburi, il nostro sistema industriale - in primo luogo le imprese produttrici di energia elettrica - produce 120 milioni di tonnellate all' anno di anidride carbonica in più rispetto al limite che ci è stato assegnato. Se facciamo il conto complessivo sui primi 5 anni del protocollo, sono 600 milioni di tonnellate. Di questi, circa un terzo potrebbe essere ridotto con i provvedimenti già varati e noi riteniamo che un altro terzo si dovrebbe riuscire ad abbattere con ulteriori misure di efficienza energetica. Il resto andrà comprato sul mercato dei certificati di emissione: calcolando un prezzo medio di 15 euro a tonnellata, già molto ottimistico, la spesa si aggira sui 3 miliardi di euro. Ma perché non metterli in Italia - si chiede Silvestrini - invece che andare a spenderli all' estero?». Basterebbe un minimo di programmazione per far nascere anche qui, come in Germania o in Danimarca, una filiera delle fonti rinnovabili potenzialmente molto redditizia. «Sul fotovoltaico, dopo il decreto d' incentivazione in conto energia, qualcosa si sta già muovendo: ci sono aziende produttrici straniere che vengono a chiedermi informazioni per un possibile investimento in Italia. Ma l' obiettivo di raggiungere i 1000 MW fotovoltaici entro il 2015 è troppo basso. Per ora solo 340 MW sono stati autorizzati, a fronte di una valanga di richieste. Basterebbe alzare l' obiettivo, e magari ridimensionare un pò l' incentivazione per non sforare il budget, per creare i presupposti all' insediamento di produttori di pannelli sul nostro territorio, dando vita a un' industria di questo tipo, com' è già successo in Germania». Ma in Italia non c' è solo il sole. «Le resistenze all' eolico di alcune regioni, come Sardegna e Puglia, andrebbero corrette con un sistema di "burden sharing": ogni regione dovrebbe essere obbligata a dare il suo contributo alla costruzione di un sistema di fonti rinnovabili. Se non vuole l' eolico, scelga qualcos' altro, dal solare alle biomasse, ce n' è per tutti. Dire no e basta non dovrebbe essere consentito». Un sistema che potrebbe aiutare molto alcuni settori in crisi. «Guardiamo ad esempio alla conversione della produzione agricola dal food al non food che si è scatenata in Germania: con gli alti prezzi del petrolio, l' entrata in vigore del protocollo di Kyoto e la fine della Pac, la politica agricola comunitaria, le fonti rinnovabili sono state una manna per i contadini in cerca di nuove fonti di reddito: ospitare aerogeneratori o pannelli fotovoltaici, produrre biomasse o biocarburanti per la generazione elettrica o il trasporto sta salvando un settore in crisi».
Etichette: fonti rinnovabili
Aumentare l'offerta. E il prezzo scenderà
Senza gas l'Italia al freddo. E al buio
Sulle rinnovabili il modello è tedesco
Municipalizzate ancora troppo piccole
29 maggio 2006
Kyoto, Enel presenta il conto
Eric von Hippel
Come vede dunque il futuro della produzione industriale? “Vedo una produzione di massa in cui attraverso il web le persone abbiano la possibilità di customizzare al massimo il prodotto, riducendolo a una miriade di micro scambi in cui si salti l'attuale filiera degli intermediari e il processo produttivo si trasformi, dando spazio a una nuova modalità di produzione su misura mirata direttamente al consumatore”.
Sembra fantascienza... “Non direi. L’Ibm è famosa per il suo ricco magazzino di invenzioni brevettate. L'anno scorso, ancora una volta è arrivata prima nelle classifiche della ricerca per gli Stati Uniti, mettendo insieme 3.248 brevetti, più di qualsiasi altra società. E ha guadagnato circa 800 milioni di euro vendendo e distribuendo licenze delle sue idee. Perché, allora, ha cambiato corso, regalando alcuni dei risultati della sua ricerca, invece di far pagare gli altri per utilizzarli? Perché ha interesse a farlo”.
In che cosa consiste questo interesse? “Controcorrente rispetto all’opinione diffusa, l’azienda ha calcolato che a volte condividere la tecnologia può essere più redditizio che non difendere gelosamente i propri diritti su brevetti, copyright e segreti commerciali. E le sue mosse vengono osservate attentamente nel mondo degli affari. Recentemente, Ibm ha fatto un gesto significativo in direzione di quella che ha definito una nuova era nei metodi per mantenere il controllo delle sue proprietà intellettuali, annunciando di voler mettere gratuitamente a disposizione 500 brevetti, per la maggior parte codici di programmazione per la gestione di programmi di commercio elettronico, immagazzinamento dati, elaborazione di immagini e comunicazioni Internet. Big Blue ha dichiarato che tutti i suoi futuri contributi alla più importante associazione per la standardizzazione del commercio elettronico, l’Organization for the Advancement of Structured Information Standards, saranno gratuiti”.
L’Ibm è all’avanguardia da questo punto di vista, ma anche altre aziende,in tutti i settori, stanno riconsiderando la loro strategia sulla proprietà intellettuale. Cosa mettere in comune con gli altri? Cosa tenere per sé, facendo pagare chi vuole utilizzarlo? “Internet, la globalizzazione, e la pressione dei costi stanno spingendo le aziende a collaborare alla ricerca di un innalzamento di produttività e ad accelerare il ritmo dello sviluppo dei prodotti. Questa collaborazione impone alle aziende di condividere una maggior quantità di informazioni tecniche con i clienti, i fornitori e i partner di settore. Il risultato è che le linee di confine e i termini di scambio, nel campo della proprietà intellettuale si stanno spostando. Il mondo degli affari oggi è impegnato in un gigantesco esperimento per cercare di capire quali settori della proprietà intellettuale aprire e quali mantenere chiusi. Il destino di molte aziende,e la forza delle economie nazionali, dipenderanno dagli esiti di questo esperimento".
Questo cambiamento dev'essere attentamente calibrato... “Guardiamo di nuovo all'Ibm: Big Blue non sta rinunciando alla sua lucrativa attività di concessione dei diritti di utilizzazione, né sta rinunciando a registrare nuovi brevetti. E non intende neanche dare via gratis la tecnologia per i suoi computer mainframe, i suoi software di archiviazione brevettati e altri prodotti completi. Caso mai mette a disposizione gratuitamente i tasselli tecnologici che consentono di estendere la comunicazione all’interno delle reti di settore.
Queste iniziative comportano dei rischi... "Quando metti a disposizione parte della tua tecnologia, sei costretto a salire ancora più in alto nella catena alimentare economica del tuo settore. Attraverso le reti di cooperazione informativa si realizza un’innovazione sempre maggiore nel settore e per questo sono necessari standard tecnici aperti”.
Anche in altri settori le aziende stanno lavorando su standard per la condivisione di una quota maggiore d'informazioni... “Per creare standard robusti e largamente usati, le aziende devono rendere disponibili i propri brevetti a tariffe contenute o gratuiti. Il ritorno potenziale sta nel fatto che aprire gli standard aiuterà tutto il settore a crescere più velocemente. Se apri agli altri la tua tecnologia e lo fai rapidamente, gli altri ci costruiranno su qualcosa. Così essere aperti diventa più efficiente economicamente".
Nel suo libro “Demcratizing Innovation” lei sostiene che l'innovazione originata dagli utenti può diventare più competitiva di quella originata dalle aziende. Può fare qualche esempio? “La storia del kite surfing è un buon esempio. Il kite surfing è uno sport acquatico in cui si utilizza una tavola simile alla tavola da surf ma invece che alle onde ci si affida alla spinta del vento, aggrappandosi a un grande aquilone comandabile che consente di fare grandi salti e acrobazie molto suggestive. Nel corso degli anni le vendite di equipaggiamento dedicato a questo sport sono cresciuto fino a raggiungere un giro d'affari da oltre 100 milioni di dollari, spartito fra diverse aziende di attrezzature sportive. Ma nel 2001 Saul Griffith, dottorando al Mit e molto interessato a questo sport, decise di creare un sito Internet dove la comunità del kite surfing potesse scambiarsi dei consigli e mettere in comune le innovazioni utili a migliorare la funzionalità delle attrezzature. Il sito ebbe subito molto successo e diversi surfer cominciarono a mettere in rete i loro disegni. Alcuni misero a disposizione della comunità dei software capaci di creare nuovi modelli aerodinamici e trasformarli rapidamente in prototipi. Molti partecipanti si rivelarono ben presto tecnici sofisticati, addirittura dipendenti di società aerospaziali. La qualità dello sforzo collettivo finì per superare le capacità innovative delle aziende produttrici, che cominciarono ad attingere direttamente al sito per scaricare i disegni migliori. In altre parole, l'innovazione prodotta dagli utenti diventò trainante rispetto a quella delle aziende produttrici”.
Si tratta però di un mercato di nicchia... “Sì, ma non è l'unico settore. Ad esempio tutto il mercato della strumentazione medica, un settore dal giro d'affari gigantesco, sta subendo una metamorfosi di questo tipo. Perfino nel mondo dell'automotive si riscontrano fenomeni analoghi. In pratica, si tratta di un trend molto più diffuso di quanto si creda. Con gli struemtni presenti in rete, gli utenti sono sempre più capaci d'innovare da soli e di mettersi in contatto con altre persone interessate agli stessi argomenti, scovandole anche all'altro capo del mondo. Lo sviluppo di strumenti informatici di progettazione sempre più sofisticati e la crescente estensione delle reti di utenti connessi, consentono agli utenti che non trovano in commercio quello che vogliono di svilupparselo da soli”.
In pratica, si torna all'abito tagliato su misura? “Sì, c'è un marcato trend in questa direzione. Dai dati che abbiamo risulta chiaramente che i consumatori sono sempre più eterogenei ed esigenti. Questo porta automaticamente ad un livello sempre più elevato di innovazione dal basso. In base alle ricerche empiriche che abbiamo condotto nell'ultimo anno, dal 10 al 40% dei consumatori hanno apportato in proprio delle modifiche a un prodotto industriale in molti settori diversi. Ed è chiaramente una tendenza in crescita”.