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30 gennaio 2006

Con il petrolio in orbita, si scava sotto il mare

Una torta da 240 miliardi di dollari: è questa la cifra che verrà destinata nel 2006 all' esplorazione e produzione, finalmente in crescita dopo anni di stasi. Il caro-greggio, così sgradito quando pesca nei nostri portafogli, ha almeno questa ricaduta positiva: le compagnie si stanno muovendo di nuovo. Da qualche anno, ormai, per ogni due barili di petrolio consumati se ne rimpiazza solo uno con le nuove scoperte. Era ora, quindi, che le major si dessero una mossa. Ma attenzione: se è vero che il budget complessivo dedicato all' esplorazione ha ripreso a crescere, è anche vero che la natura degli investimenti è completamente cambiata. «I forzieri delle compagnie si sono aperti e la cifra dedicata all' esplorazione è destinata a raddoppiare ancora se si vuole tener dietro alla domanda, ma già nel giro di un quinquennio ben 50 miliardi di dollari di quel budget saranno riversati nell' esplorazione in acque profonde, un campo finora molto limitato», spiega Zeno Soave, fondatore di Socotherm, azienda leader nel rivestimento e isolamento dei tubi per petrolio e gas, che ha le mani in pasta dovunque si trivelli oltre i mille metri di profondità. «Nel deepwater - osserva Soave - l' estrazione avviene a 50-100 chilometri dalla costa, oltre il bordo della piattaforma continentale: il fondo da perforare sta sotto di due-tre chilometri e ci vuole ancora qualche chilometro per arrivare alle sacche petrolifere. I costi, come si può immaginare, sono molto più elevati rispetto ai sistemi tradizionali: per estrarre un barile di greggio in queste condizioni si spendono circa 15 dollari, rispetto ai 2-3 dollari delle zone più facili, come il deserto arabico. Una spesa, peraltro, che le compagnie possono ampiamente permettersi». L' International Energy Agency calcola che il costo medio di perforazione sia più che raddoppiato, in termini reali, dall' inizio degli anni ' 90. Ma con un prezzo del petrolio ampiamente triplicato, si può fare. Chevron prevede per quest' anno un incremento del 30% degli investimenti in esplorazione e anche Lukoil punta in alto (+28%), mentre Petrobras batte tutti i record con un balzo che sfiora il 70%. L' Eni si difende, alzando la posta del 10%. Del resto, non c' è altra scelta. La domanda cresce costante dal 3 al 5% all' anno e l' oro nero non si trova più nel cortile di casa. Come dimostra la difficile perforazione offshore dell' Eni a Kashagan o il gigantesco progetto Shell a Sakhalin, le major devono abituarsi ad andarlo a cercare in condizioni sempre più estreme. E la nuova frontiera della ricerca è il deepwater: «Le major - commenta Soave - fanno a gara per accaparrarsi i lotti migliori. I giacimenti del Mare del Nord ormai non coprono che il 10% del mercato. Il Golfo del Messico conta per il 15-20%. Ma i pozzi più ricchi, quelli dove c' è greggio da estrarre ancora per molti anni, sono al largo dell' East Africa e del Brasile». La produzione mondiale nel deepwater è balzata dal milione di barili al giorno del ' 98 ai 4 milioni dell' anno scorso ed è destinata a raddoppiare entro la fine del decennio. A tutto vantaggio delle aziende come Socotherm, che domina sul mercato dei tubi per le estrazioni in acque profonde con una quota del 60%. «Una volta trovata la vena giusta - dice Soave - per far risalire il petrolio in superficie da quelle profondità bisogna attraversare strati di acqua talmente fredda che il greggio tende a congelarsi nei tubi. I nostri rivestimenti termici sono essenziali per portare a buon fine l' estrazione». Tanto che ormai l' azienda di Adria è presente in tutte le zone calde: dal Brasile con Petrobras al largo della Nigeria con ExxonMobil e Shell, passando per l' Angola con Bp e Chevron.

26 gennaio 2006

Joi Ito

Non sono in molti a potersi vantare di aver buttato i libri alle ortiche per ben due volte. Joi Ito, venture capitalist fra i più arditi della New Economy, è uno di loro: ha abbandonato prima la Tufts University e poi l'università di Chicago per fare il dj a Tokio. Definito dal World Economic Forum come uno dei 100 leader del futuro, Joi è un consulente, manager e attivista fra i più interessanti della cultura digitale. Nato a Kyoto 39 anni fa ma educato negli Stati Uniti, Joi è tornato in patria da adolescente e ha costruito il suo successo agli albori di Internet in Giappone, dove ha fondato Neoteny, società di venture capital con cui ha raccolto finanziamenti per 20 milioni di dollari. E' stato fra i primi a investire nei blog e nei wiki, creando Six Apart, una software house specializzata che presiede tuttora, Technocrati, il principale indice di weblog con 7 milioni di utenti, e SocialText, un'impresa dedicata a integrare l'idea dei wiki nei software aziendali. E' consulente del governo giapponese e membro del board di Icann, la più importante autorità regolatrice del web. Ma soprattutto è impegnato nel sostegno della conoscenza condivisa attraverso il suo blog ed è stato uno dei fondatori di Creative Commons (www.creativecommons.it), l'organizzazione inventata dal giurista di Stanford Lawrence Lessig, per ridefinire la concezione di proprietà intellettuale nell'era digitale.
In che cosa consiste la sharing economy? Quale modello di business si può creare con la condivisione delle risorse in rete?
“La sharing economy non vuole distruggere i modelli di business dell'economia tradizionale, ma trovare un suo spazio al suo fianco. Nella fotografia amatoriale, per esempio, chiunque può scattare una fotografia e se è vero che le gallerie non guadagnano nulla, è comunque un settore che ha alle spalle un grande business, decisamente maggiore di quello della fotografia professionale. Allo stesso modo, ci sono diversi soggetti economici nella sharing economy: i produttori di software e di hardware e chi fornisce l’infrastruttura. Quindi non si guadagna più sul copyright, ma sugli strumenti che permettono alle persone di creare contenuti e di condividerli. L’industria che produce contenuti protetti da copyright non scomparirà, così come non è scomparso il segmento della fotografia professionale, ma si stabiliranno nuovi rapporti e nuovi equilibri. Io non credo che bisognerebbe permettere la condivisione di materiale sotto copyright, ma sono convinto che occorra consentire alle persone di condividere i contenuti prodotti da loro stessi”.
Ma i blog dei singoli, ad esempio, non hanno un marchio consolidato che permetta ai lettori di valutarli, nel bene e nel male. Come si risolvono questi problemi di valutazione?
“La questione si sta evolvendo, ma ci sono essenzialmente due meccanismi che determinano la valutazione dei blog. Il primo è la reputazione e già oggi un blogger ben conosciuto probabilmente ha una reputazione pari a quella di un redattore di un quotidiano. Ma esiste anche un secondo modello di autorevolezza online, incarnato tipicamente da Wikipedia, dato dal fatto che gli articoli, anonimi, devono riuscire a sopravvivere alla lettura di centinaia di migliaia di persone, con un meccanismo molto democratico. Quindi dei metodi alternativi esistono, oggi non conta più solo il marchio di una testata con un centinaio di anni di storia alle spalle e io credo che il pubblico si abituerà a sfruttare sia il modello della reputazione tipico dei blog, sia il modello anonimo e democratico di Wikipedia”.
Lei parla di una classe creativa universale che incarna questa nuovo modello di economia condivisa. Da come la descrive lei sembrerebbe un gruppo molto omogeneo, ma ci saranno pure differenze culturali fra queste persone a seconda della provenienza...
"Naturalmente le differenze ci sono. Ad esempio Internet e i blog sono molto di moda negli Stati Uniti, in Cina, in Iran e in Polonia. Oltre 200 milioni di americani hanno un indirizzo di posta elettronica e una ventina di milioni hanno un blog, mentre in Germania o in Italia molta gente non sa nemmeno che cosa sono. In alcuni Paesi asiatici e in Israele ci sono ormai più telefonini che persone. In Europa, invece, la televisione digitale è a uno stadio molto più avanzato che altrove. Ma la convergenza fra queste varie piattaforme è ormai talmente sviluppata che le diverse categorie cominciano a sovrapporsi e i consumatori di punta dei vari generi rientrano nello stesso calderone comune. Si forma così una classe sovranazionale, che secondo le stime più attendibili in Europa arriva a circa 35 milioni di persone mentre negli Stati Uniti sfiora i 40 milioni, con molte caratteristiche comuni. Ci sono più similitudini, ad esempio, fra i bloggers americani e iraniani che non tra gli abitanti dello stesso Paese che usano o non usano Internet".
Qual'è la funzione di questa classe creativa?
"Di fare da apripista ai consumi culturali e tecnologici del futuro. In generale si tratta di opinion leader, molto interessati alle novità ma con una spiccata tendenza al pensiero autonomo, alla creazione e allo scambio di contenuti piuttosto che alla fruizione passiva. Quindi con loro non funziona il normale ciclo di produzione: sviluppare nuove idee e nuovi prodotti per poi calarli dall'alto sul mercato con forti investimenti pubblicitari per diffonderli. Con questo target invece funziona meglio il procedimento contrario: bisogna indagare le mode e le necessità di questa gente e sviluppare prodotti che le soddisfino. In questo modo non serve investire cifre colossali in pubblicità: basta il passaparola, con cui si ottiene una diffusione molto più efficace spendendo poco".
Procedimento molto complesso. Proviamo a fare un esempio...
"La nascita dell'I-Mode è un buon esempio. La madre di questo sistema che ha rivoluzionato il mondo della telefonia cellulare si chiama Mari Matsunaga ed è una top manager di Ntt DoCoMo. Nei primi anni Novanta, Mari ha osservato come i ragazzini giapponesi si scambiassero messaggi usando i codici numerici dei cercapersone, gli antenati dei telefonini. Il primo pensiero è stato di creare uno strumento che rispondesse meglio alle loro esigenze e così è nato un sistema di messaggistica con le lettere dell'alfabeto, che facilitava molto le comunicazioni e ha avuto un successo istantaneo. Oggi Ntt fattura 8 miliardi di euro solo sul traffico I-Mode".
Dunque partire dal basso e far circolare le idee. Ma come la mettiamo con il copyright?
"Il problema della proprietà intellettuale è la questione fondamentale da risolvere: è la ragione principale per cui i media tradizionali non riescono a comunicare con questa classe creativa. Per cogliere lo spirito del tempo c'è bisogno di grande flessibilità e di grande libertà, altrimenti si rischia di soffocare la creatività dei singoli. Le normative vigenti in materia di copyright e i regolamenti fissi sulle architetture dei diversi sistemi di comunicazione non tengono conto di questi nuovi modelli di fruizione e finiscono per ostacolare l'emergere di killer application per i dispositivi mobili di nuova generazione, per la televisione interattiva e per tutti gli altri sistemi di comunicazione digitale".
Quindi?
"Quindi le media companies tradizionali devono convincersi che conviene anche a loro mettere in circolazione liberamente almeno una parte dei contenuti proprietari".

16 gennaio 2006

La via del Qatar parte da Firenze

Ras Laffan è un vasto agglomerato industriale affacciato sul Golfo Persico, che si estende per più di cento chilometri quadrati sul deserto piatto del Qatar: da qui viene convogliata verso l' Occidente affamato di metano tutta la produzione del gigantesco North Gas Field, un giacimento che contiene il 20% delle riserve mondiali non associate a campi petroliferi. Ed è qui che si gioca il futuro di un gioiello dell' industria italiana, l' ex Nuovo Pignone, oggi diventato la testa della divisione Oil & Gas di General Electric. «Abbiamo appena firmato un contratto da 200 milioni di dollari con Ras Gas, joint venture tra Exxon Mobil e Qatar Petroleum, per partecipare alla realizzazione del più grande impianto esistente al mondo di liquefazione del gas» spiega il catalano Claudi Santiago, vicepresidente di GE e capo della divisione Oil & Gas del colosso americano, basato a Firenze. Il progetto, che comporta la fornitura di 22 mega-turbine e consacra la leadership mondiale dell' ex Nuovo Pignone nel campo del gas naturale liquefatto, «rappresenta una pietra miliare nella storia di questo settore, fissando nuovi standard per le economie di scala possibili». In un comparto che cresce già di per sé a ritmi esponenziali, battere dei record non è facile. Gli analisti si attendono un raddoppio abbondante del settore nel giro dei prossimi dieci anni, dalla produzione attuale di 145 milioni di tonnellate annue a oltre 370 milioni. Solo a Ras Laffan, le esportazioni raggiungeranno i 77 milioni di tonnellate all' anno nel 2009, secondo le previsioni, dalle 10 tonnellate attuali. «Il boom del gas naturale liquefatto deriva dai prezzi esorbitanti del petrolio e dall' esigenza di diversificare gli approvvigionamenti. L' utilizzo del metano liquido consente di emancipare il mercato del gas dalla schiavitù dei gasdotti. Per questo la produzione liquefatta cresce molto di più della produzione trasmessa per gasdotto. Nel contempo, i costi di liquefazione e rigassificazione si riducono rapidamente, grazie allo sviluppo di tecnologie sempre più raffinate, come le nostre» spiega Santiago. Dal quartier generale di Firenze i tecnici dell' ex Nuovo Pignone controllano via satellite e assicurano il corretto funzionamento di un terzo del mercato internazionale dell' energia collegato all' estrazione di idrocarburi. In dieci anni di privatizzazione, da quando l' Eni l' ha venduta agli americani, il fatturato dell' azienda è quadruplicato, superando i 4 miliardi di dollari. «Il segreto del successo? Investire negli uomini e nelle tecnologie, senza mai smettere di cavalcare la globalizzazione - commenta Santiago -. I 5.600 dipendenti - precisa Santiago, nato e cresciuto a Barcellona, entrato nei servizi informatici di GE fresco di laurea nell' 80 per arrivare a guidare il marketing globale nella sede di Rockville, in Maryland, prima di trasferirsi in Italia a occuparsi di energia - sono basati per la maggior parte in Italia, ma vengono da 80 Paesi diversi: in questo modo, possiamo sempre parlare il linguaggio dei nostri clienti. Una premessa molto importante per un' azienda che esporta il 90% della propria produzione». E poi c' è la leadership tecnologica: nel triennio appena trascorso, GE ha investito 250 milioni di dollari per la ricerca nella divisione Oil & Gas, di cui 85 solo nel 2005. «Il Nuovo Pignone - conclude Santiago - ha saputo conquistare la leadership internazionale nella tecnologia di liquefazione del metano a basse temperature e poi di rigassificazione nei porti di destinazione. Questo ci ha consentito di abbattere i costi di lavorazione in maniera importante, rivoluzionando il mercato a tutto vantaggio degli utenti finali». Da qui, la commessa in Qatar. E, se l' Eni si butterà come dice nel business del gas liquido, anche i vecchi padroni dovranno rivolgersi agli ingegneri di Firenze.

9 gennaio 2006

British Gas: "Vi bruciate la reputazione"

Armando Henriques, capo di British Gas per l' area del Mediterraneo, è un manager navigato, si occupa da vent' anni di petrolio e di gas, ma una situazione come questa non l' aveva mai vista. «Abbiamo il gas che serve all' Italia - dice -, ma non sappiamo dove farlo arrivare, perché il nostro terminale di Brindisi, che doveva essere già pronto nel 2007, subisce un intralcio dietro l' altro dalle autorità locali». E prosegue: «Il rigassificatore che stiamo costruendo, dopo avere ottenuto già da anni tutte le autorizzazioni, è il più importante investimento mai fatto da un' impresa britannica in Italia: 400 milioni di euro complessivi, di cui 150 già spesi. Se i nostri sforzi venissero frustrati adesso, questo solleverebbe gravi dubbi sull' attrattività dell' Italia per gli investimenti esteri». Proprio mentre il ministro dello Sviluppo economico, Pierluigi Bersani, si fa in quattro per dare una soluzione alla crisi del gas prossima ventura, accelerando il processo autorizzativo per gli altri rigassificatori in progetto, l' unico impianto che potrebbe essere già quasi pronto sembra definitivamente incagliato nel limbo delle resistenze locali. «Dragon, il terminale gemello che stiamo costruendo nel Galles, sarà operativo nel 2007 come previsto - dice Henriques - e comincerà subito a ricevere il gas dai nostri pozzi egiziani». Il gruppo Bg, infatti è uno dei giganti mondiali del gas, attivo anche nell' estrazione, e il rigassificatore di Brindisi è uno dei pochi progetti in Italia con i contratti di approvvigionamento già in essere: un vantaggio non indifferente in un mercato dove la materia prima comincia a scarseggiare. «Gli impianti di rigassificazione costruiti oggi senza la certezza dell' approvvigionamento - spiega Henriques - rischiano di diventare cattedrali nel deserto». È per questo che Bg ha messo in cantiere contemporaneamente a Brindisi anche un impianto di liquefazione a Idku, in Egitto, con un investimento da un miliardo e mezzo. Ma il gas liquefatto destinato a Brindisi ora sta prendendo altre destinazioni: verso gli Usa, dove Bg gestisce il più grande rigassificatore americano in Louisiana, o verso altri Paesi europei. «Peccato, perché da Brindisi potremmo fornire 8 miliardi di metri cubi di gas all' anno, quasi un decimo del fabbisogno italiano, colmando le carenze che si sono evidenziate lo scorso inverno», fa notare Henriques, intervenuto al culmine della crisi con due navi gasiere mandate in aiuto all' Eni nel suo impianto di Panigaglia. «La richiesta globale di Gnl ormai supera la domanda - commenta Henriques -, perché si costruiscono sempre più rigassificatori, che sono il modo migliore di ricevere gas da Paesi lontani senza la schiavitù del tubo». In Spagna, negli ultimi anni, ne sono sorti quattro. Nel frattempo, in Italia, Brindisi ha subito continui slittamenti: «Abbiamo passato tutta la trafila, abbiamo raccolto l' unanimità dei consensi alla conferenza servizi da 23 enti locali e nazionali, compresi Comune, Provincia e Regione, oltre ai sei ministeri competenti, che già nel 2003 ci hanno dato il via con un decreto. Ma quando siamo partiti con i lavori le autorità locali hanno subito cominciato a chiedere altre verifiche, rallentando il progetto di anni». Il fatto è che, nel frattempo, c' erano state le elezioni e le amministrazioni locali avevano cambiato colore. Nel 2004 il nuovo sindaco di centro-destra Domenico Mennitti è subentrato a Giovanni Antonino, mentre alla Provincia il diessino Michele Errico ha sostituito il forzista Nicola Frugis. Nel 2005 Nichi Vendola si è seduto sulla poltrona di Raffaele Fitto. E ognuno di loro ha voluto distruggere il lavoro del predecessore. Il gruppo britannico non si spiega le loro motivazioni. «Abbiamo cercato il dialogo - sostiene Henriques -. Abbiamo tenuto il cantiere fermo in attesa di una nuova valutazione del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, che è stata positiva. Abbiamo subito persino una verifica archeologica dell' area su cui stavamo costruendo, che non ha scoperto nulla di nuovo. Ci hanno chiesto di cambiare localizzazione, ma siamo quasi a metà dei lavori e qualsiasi spostamento ci farebbe ripartire daccapo con le autorizzazioni. Il Consiglio di Stato ci ha dato ragione. E comunque localizzazioni migliori non ci sono: siamo in una zona già destinata a usi industriali e non diamo fastidio né agli abitanti, che sono lontani, né al porto. Riceveremo due navi alla settimana, che non impiegano più di 40 minuti per fare la manovra. E daremo lavoro e prospettive di sviluppo a un' area in crisi». What' s the problem?
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Emergenza gas, rigassificatori fermi

L' emergenza gas ce l' ha fatto toccare con mano: per emanciparsi dalla schiavitù del tubo l' unica soluzione sono i rigassificatori, che consentono di ricevere il metano via mare e quindi di eliminare la dipendenza da un solo produttore dominante, come la Russia. Lo dice Sandro Ortis, presidente dell' Authority per l' energia: «L' attivazione, più rapida possibile, di terminali di rigassificazione per gas liquido, importabile via nave da nuovi, promettenti mercati (africani, mediorientali e asiatici), rappresenta un contributo essenziale per la diversificazione e l' economicità delle fonti di approvvigionamento, per la concorrenza e per una maggiore flessibilità». L' Autorità insiste da anni su questo punto, oltre che sulla sottrazione della rete e degli stoccaggi al controllo dell' ex monopolista, e ha appena varato una regolazione incentivante per i nuovi investimenti nelle infrastrutture di trasporto e rigassificazione, che potranno beneficiare di una maggiore remunerazione. Ma per ora impiantare un rigassificatore in Italia resta un' odissea. La politica energetica italiana, infatti, è strettamente dipendente dalle strategie dell' Eni, che con i suoi gasdotti ha tenuto saldamente in mano per quarant' anni tutta la capacità d' importazione di metano. I rigassificatori, portatori di libera concorrenza, ovviamente non erano graditi. Sul territorio nazionale ne esiste solo uno, costruito nei lontani anni Sessanta a Panigaglia in Liguria. E di chi è? Di Snam, cioè dell' Eni. Per frenare la costruzione di nuovi impianti, la major guidata da Paolo Scaroni ha agitato fino a poco tempo fa lo spettro della «bolla di gas»: secondo le valutazioni del Cane a sei zampe, in sostanza, i suoi metanodotti che ci collegano con la Russia, l' Algeria e la Libia dovevano bastare e avanzare per soddisfare il fabbisogno nazionale. Ulteriore capacità d' importazione avrebbe creato un eccesso d' offerta, rischiando di far crollare i prezzi. Questo orientamento strategico, innestandosi sui naturali fenomeni di rifiuto del progresso tecnologico che dominano il Paese, ha impedito l' apertura del mercato a fonti di approvvigionamento alternative. In realtà, al contrario di quel che diceva l' Eni, con il rapido aumento della domanda di metano per la generazione elettrica, il mercato italiano è sempre stato «corto», tant' è vero che i prezzi sono ben più alti che all' estero. Ora che cresce la pressione dell' Authority per una maggiore liberalizzazione del mercato, l' Eni ha cambiato idea: da qualche mese non parla più del pericolo di un «eccesso di offerta» e nelle ultime settimane Scaroni ha ripetuto più volte la necessità di costruire nuovi rigassificatori. Le sue sollecitazioni, però, arrivano tardi. Il danno è già fatto e il Paese è in preda all' emergenza. Per sbloccare la situazione, in teoria, basterebbe darsi una mossa. Ma rimettere in moto una macchina che procede con il freno tirato da quarant' anni non è facile. «Dal punto di vista ingegneristico - spiega Roberto Potì, responsabile dei nuovi progetti di Edison - un impianto di rigassificazione si costruisce in meno di due anni, se è offshore in poco più di due anni». In Italia bisogna aggiungerne oltre sette di carte bollate. Ammesso che si riesca a concludere l' iter. Provare per credere: i primi studi per il terminale dell' Exxon Mobil con Edison e Qatar Petroleum, al largo di Rovigo, sono stati avviati nel ' 97, la valutazione d' impatto ambientale è stata ripetuta tre volte e nel maggio 2005 finalmente sono partiti i lavori, che termineranno a fine 2007. Dieci anni. E questo è l' unico progetto già cantierizzato: gli altri dieci sono tutti arenati, guarda caso, in svariati bracci di ferro con le autorità locali. Per non parlare dei progetti tramontati, come quelli dell' Enel a Montalto e a Monfalcone, dove l' iter è stato interrotto in stadio così avanzato che la compagnia elettrica aveva già firmato i contratti d' acquisto del gas liquido dalla Nigeria. «In mancanza di sbocchi in Italia - precisano all' Enel - ora quel metano dev' essere rigassificato in Francia da Gaz de France e importato via tubo». Nel frattempo, il resto del mondo cammina: ci sono 46 terminali di questo tipo attivi sui cinque continenti, di cui buona parte in Europa, da Sines in Portogallo a Zeebrugge in Belgio, da Barcellona a Marsiglia. Collocata in una posizione geografica ideale per trasformare la penisola in un hub del gas a livello europeo, l' Italia rischia invece di perdere il treno. «Gli attuali limiti di capacità - commenta Ortis - sommati alla scarsa flessibilità dei gasdotti internazionali, hanno un duplice effetto: da un lato, costituiscono una barriera all' entrata nel sistema dei nuovi operatori e ostacolano prospettive di sviluppo per il settore nazionale, anche favorendo progetti concorrenti in altri Paesi (dai Balcani alla penisola iberica), dall' altro lato non consentono agli operatori di soddisfare le richieste di una domanda crescente». In pratica, affidandosi soltanto ai tubi dell' Eni, non solo non si riesce a trasformare la Penisola in un centro d' esportazione del gas verso l' Europa - disegno più volte caldeggiato dall' Autorithy e anche da politici lungimiranti come Bruno Tabacci - ma non si copre nemmeno il fabbisogno nazionale: «Le forti opposizioni locali che ostacolano la costruzione di nuovi terminali di rigassificazione - precisa Ortis - vanno di pari passo con la crescita sostenuta della domanda, registrata nel corso di questi ultimi tre anni, e con la scarsità di stoccaggio, che lo scorso inverno ha contribuito a determinare l' interruzione della fornitura per alcuni clienti e il ricorso alle riserve strategiche». In questo freddo inverno 2006, abbiamo già sfiorato l' emergenza una volta. Ma il peggio deve ancora venire: l' anno scorso la crisi è scoppiata in marzo. Da qui a marzo, con un altro paio di centrali elettriche a gas in via di completamento e la crescente instabilità dei tre unici fornitori, l' Italia rischia di restare al palo.

Britsh Gas: fateci lavorare o ce ne andiamo

Abbiamo «scelto Brindisi per la sua posizione favorevole nel centro del Mediterraneo e per la presenza sulla costa di un sito già destinato all' energia, tra la centrale Edipower e il Petrolchimico. Un impianto di rigassificazione collocato in quella posizione è il modo migliore per collegare in maniera flessibile i giacimenti del Nord Africa con l' Europa, senza le rigidità tipiche dei metanodotti. British Gas costruisce impianti di questo tipo in tutto il mondo. Per Brindisi e per il mercato italiano del gas sarebbe un gran peccato se decidessimo di andarlo a fare altrove, magari in Spagna». Armando Henriques, amministratore delegato di British Gas Italia, è strabiliato, più che arrabbiato. La costruzione del vostro impianto è bloccata da due anni. Perché? «Intralci burocratici di tutti i tipi: in due anni l' impianto avrebbe potuto già essere pronto, invece siamo appena riusciti a cominciare i lavori di colmata». Ma le autorizzazioni le avete? «Il processo autorizzativo è finito nel 2003, con un decreto ministeriale emesso in accordo con la Regione, dopo una Conferenza servizi che ha coinvolto oltre venti istituzioni locali e nazionali. Nel decreto è scritto che possiamo costruire qui un rigassificatore da 8 miliardi di metri cubi l' anno, un decimo del fabbisogno italiano. Con quel documento in mano, abbiamo avviato le gare d' appalto in Italia e siamo andati a costruire sulla costa egiziana, a Idku, il terminale di liquefazione del gas destinato ad alimentare Brindisi con il metano che estraiamo dai nostri giacimenti egiziani. Quell' impianto di liquefazione è già pronto da tempo. Ma manca ancora il terminale gemello, in Puglia». Che cos' è successo nel frattempo? «Niente. Non è successo niente. Nessun grave incidente a qualche rigassificatore, che del resto sarebbe difficile, visto che il gas viene conservato in serbatoi sicurissimi a pressione ambiente, escludendo rischi di esplosione. Nessuna nube tossica, poiché il metano non inquina. Nessun caso di marea nera: eventuali versamenti di gas liquefatto in mare darebbero luogo solo a evaporazione, senza lasciare residui». Dev' essere pur successo qualcosa per ritardare di due anni «Le elezioni. I nuovi eletti in Comune, Provincia e Regione, Domenico Minnitti, Michele Errico e Nichi Vendola, vogliono spazzare via il lavoro dei predecessori. Ci hanno messo i bastoni fra le ruote in tutti i modi, con ricorsi al Tar e alla magistratura, ispezioni, blocchi, manifestazioni. Abbiamo dovuto muovere perfino l' ambasciatore britannico, sir Ivor Roberts, che è sceso a Brindisi prima di Natale per cercare un accordo. Non so perché vogliano ritirare la parola data, ma se il governo lo consentisse non sarebbe un grande esempio di credibilità». E voi? «Andiamo avanti. La pressione degli enti locali non può annullare il decreto di autorizzazione e il blocco del Tar è stato eliminato in ottobre da una sentenza del Consiglio di Stato, con cui si faceva notare che tutti questi ostacoli burocratici sono strumentali e stanno causando danni rilevanti alla società. Se ci lasciano lavorare, l' impianto sarà pronto nel 2008». Gli enti locali dicono che Brindisi aspira a rilanciare la propria vocazione turistica e vorrebbero spostare il terminale in qualche località dei dintorni. «Impossibile, dovremmo ricominciare daccapo con le autorizzazioni. Del resto ai fini turistici la localizzazione del terminale è ottima: nella zona industriale del porto esterno, a oltre tre chilometri dal porto interno, dove la città si affaccia sul mare. Il traffico di navi metaniere, 100 all' anno, interesserà solo la zona esterna per 70-80 minuti alla settimana. A Barcellona, nel centro del porto, c' è un terminale che accoglie 230 navi metaniere l' anno. E il turismo prospera. Questo impianto, un investimento da 390 milioni, è una grande opportunità di sviluppo per il territorio: dalla creazione di posti di lavoro alla formazione di competenze distintive, dagli investimenti indiretti ai servizi portuali e industriali connessi. Non c' è motivo di spostarlo».

5 gennaio 2006

Conad, il pieno di burocrazia

Le questioni di viabilità vanno affrontate con Comune e Provincia, i problemi urbanistici con la Regione. Poi si deve passare attraverso l' Asl, i Vigili del fuoco, l' Agenzia regionale per la protezione dell' ambiente, l' Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro, l' Ufficio metrico della camera di commercio, l' Agenzia dogane e l' Agenzia nazionale delle scorte. A ogni passaggio si rischia il veto di un funzionario. Nel frattempo, cambiano le leggi. «Da quando abbiamo istruito la prima pratica fino all' inaugurazione dell' impianto, le normative regionali che regolano la materia sono cambiate tre volte: oggi la Toscana proibisce tout-court di aprire una pompa di benzina in un centro commerciale come quello di Gallicano, perciò, se avessimo dovuto cominciare adesso, non avremmo nemmeno avviato la trafila» spiega Roberto Dessì, segretario generale di Conad, l' insegna della grande distribuzione che ha inaugurato la settimana scorsa il suo primo discount della benzina in Garfagnana. «La smettano di dire che è impossibile aprire un nuovo benzinaio» sbotta da parte sua Luca Squeri, presidente Figisc, l' organizzazione dei distributori aderenti a Confcommercio. Ma, se in teoria tutto è possibile, nella pratica le barriere all' ingresso di nuovi entranti nel business dei carburanti sono davvero altissime. Pur avendo a che fare con un' amministrazione comunale molto efficiente, Conad Tirreno ci ha messo quattro anni e dieci diversi pareri legali per sfondare il muro delle resistenze. E non è finita qui: «Dopo tutto questo lavoro, ora ci attendiamo le cause, anche se abbiamo fatto il massimo per ottemperare a ogni cavillo normativo», commenta Dessì. I gestori, in effetti, già minacciano un esposto all' Antitrust. Non a caso benzina e gasolio in Italia restano i più cari d' Europa. «Gli ostacoli principali sono il problema delle distanze minime dagli altri distributori, la questione del formato dell' impianto e le limitazioni di orario», precisa Dessì. Per la grande distribuzione l' imperativo categorico è l' efficenza: solo così è possibile offrire prezzi bassi. Ecco perché è stato scelto il formato self service post pay, che consente di pagare all' uscita dal piazzale, sul modello di quanto avviene in qualunque casello autostradale. Proprio questo, guarda caso, è il formato più penalizzato dalle normative, che impongono distanze ancora maggiori dagli altri distributori. «Ma, se avessimo dovuto tenere una distanza minima da ogni negozietto, nelle città italiane non ci sarebbero supermercati» obietta Dessì. Problemi anche per il posizionamento in prossimità di due elettrodotti: «Su ricorso del sindacato gestori, ci hanno mandato gli ispettori per controllare che non ci fossero dispersioni di corrente» racconta Dessì. Per fortuna era tutto a posto, altrimenti la pompa, già costruita, avrebbe dovuto essere smantellata. «E come si fa a tagliare i costi se siamo costretti ad avere orari sfalsati rispetto all' ipermercato?» si chiede Dessì. A Gallicano, il distributore è obbligato a chiudere all' ora di pranzo, mentre l' ipermercato ovviamente è aperto. Per trovare un fornitore, poi, è stato un incubo. «Le compagnie petrolifere ci hanno fatto delle offerte vergognose - rileva Dessì - e quindi siamo andati a cercarci la benzina in Francia». Malgrado i costi aggiuntivi di trasporto, la benzina comprata da Siplec, compagnia di distribuzione di Leclerc, è molto più competitiva di quella italiana. Ma importare carburante dalla Francia non è roba da tutti i giorni: ci vuole la licenza. E giù carte bollate...

3 gennaio 2006

Lubiana minaccia di chiudere il rubinetto

Allarme sulle importazioni di energia elettrica dall' estero: da un lato gli sloveni minacciano l' interruzione del flusso sul confine orientale, dall' altro Edf mette in discussione i contratti con Enel sulla frontiera occidentale, il che causerebbe all' Italia un danno da 150 milioni di euro. Parigi avrebbe deciso infatti di mettere all' asta questa energia, a prezzi sicuramente crescenti rispetto agli attuali, per uniformarsi a una direttiva europea. Ma la protesta ufficiale di Lubiana per la disparità di trattamento riservata dall' Italia agli operatori sloveni rispetto a quelli francesi e svizzeri, potrebbe causarci un danno ancora maggiore: «Vi chiediamo di rivedere i criteri di attribuzione delle capacità garantite sulle singole frontiere elettriche italiane per l' anno 2006, portando quella sul confine sloveno a 800MW», scrive Djordje Zebeljan, direttore generale del ministero sloveno dell' Industria, al suo omologo italiano Sergio Garribba. E tra le righe si capisce l' intenzione di puntare i piedi senza complimenti, anche interrompendo i flussi con misure strumentali, come la manutenzione «mirata» degli impianti. Il fatto è che il gestore della rete (ora Terna) tiene ferma da anni una delle due linee di collegamento con la Slovenia, perché sulle 18 interconnessioni tra la rete italiana e i Paesi limitrofi, una dev' essere sempre sgombra per fronteggiare le emergenze. In questo modo gli operatori sloveni possono usare solo una terna da 400MW per esportare in Italia, pur avendo a disposizione una capacità di carico ben superiore. Per di più la seconda terna, lungi dal restare sgombra, finisce per ospitare tutti i flussi in eccesso provenienti dagli operatori francesi e svizzeri che non riescono a passare sulle altre. Zebeljan suggerisce di riequilibrare i flussi, mettendo in riserva la nuova linea d' interconnessione con la Svizzera, appena inaugurata. «Favorendo il sovraccarico elettrico sulle altre frontiere - spiega Boris Peric di Kb, la società che rappresenta gli interessi degli operatori sloveni danneggiati - si determina di fatto una posizione dominante degli operatori elettrici francesi e svizzeri a discapito di quelli austriaci e sloveni, proprio nel momento in cui Enel sta estendendo la propria capacità produttiva nell' Europa dell' Est». Data la rilevanza dell' import di energia, che alimenta quasi un quinto del fabbisogno italiano, l' interruzione dei flussi dal confine orientale sarebbe una catastrofe per il sistema.