9 gennaio 2006
Emergenza gas, rigassificatori fermi
L' emergenza gas ce l' ha fatto toccare con mano: per emanciparsi dalla schiavitù del tubo l' unica soluzione sono i rigassificatori, che consentono di ricevere il metano via mare e quindi di eliminare la dipendenza da un solo produttore dominante, come la Russia. Lo dice Sandro Ortis, presidente dell' Authority per l' energia: «L' attivazione, più rapida possibile, di terminali di rigassificazione per gas liquido, importabile via nave da nuovi, promettenti mercati (africani, mediorientali e asiatici), rappresenta un contributo essenziale per la diversificazione e l' economicità delle fonti di approvvigionamento, per la concorrenza e per una maggiore flessibilità». L' Autorità insiste da anni su questo punto, oltre che sulla sottrazione della rete e degli stoccaggi al controllo dell' ex monopolista, e ha appena varato una regolazione incentivante per i nuovi investimenti nelle infrastrutture di trasporto e rigassificazione, che potranno beneficiare di una maggiore remunerazione. Ma per ora impiantare un rigassificatore in Italia resta un' odissea. La politica energetica italiana, infatti, è strettamente dipendente dalle strategie dell' Eni, che con i suoi gasdotti ha tenuto saldamente in mano per quarant' anni tutta la capacità d' importazione di metano. I rigassificatori, portatori di libera concorrenza, ovviamente non erano graditi. Sul territorio nazionale ne esiste solo uno, costruito nei lontani anni Sessanta a Panigaglia in Liguria. E di chi è? Di Snam, cioè dell' Eni. Per frenare la costruzione di nuovi impianti, la major guidata da Paolo Scaroni ha agitato fino a poco tempo fa lo spettro della «bolla di gas»: secondo le valutazioni del Cane a sei zampe, in sostanza, i suoi metanodotti che ci collegano con la Russia, l' Algeria e la Libia dovevano bastare e avanzare per soddisfare il fabbisogno nazionale. Ulteriore capacità d' importazione avrebbe creato un eccesso d' offerta, rischiando di far crollare i prezzi. Questo orientamento strategico, innestandosi sui naturali fenomeni di rifiuto del progresso tecnologico che dominano il Paese, ha impedito l' apertura del mercato a fonti di approvvigionamento alternative. In realtà, al contrario di quel che diceva l' Eni, con il rapido aumento della domanda di metano per la generazione elettrica, il mercato italiano è sempre stato «corto», tant' è vero che i prezzi sono ben più alti che all' estero. Ora che cresce la pressione dell' Authority per una maggiore liberalizzazione del mercato, l' Eni ha cambiato idea: da qualche mese non parla più del pericolo di un «eccesso di offerta» e nelle ultime settimane Scaroni ha ripetuto più volte la necessità di costruire nuovi rigassificatori. Le sue sollecitazioni, però, arrivano tardi. Il danno è già fatto e il Paese è in preda all' emergenza. Per sbloccare la situazione, in teoria, basterebbe darsi una mossa. Ma rimettere in moto una macchina che procede con il freno tirato da quarant' anni non è facile. «Dal punto di vista ingegneristico - spiega Roberto Potì, responsabile dei nuovi progetti di Edison - un impianto di rigassificazione si costruisce in meno di due anni, se è offshore in poco più di due anni». In Italia bisogna aggiungerne oltre sette di carte bollate. Ammesso che si riesca a concludere l' iter. Provare per credere: i primi studi per il terminale dell' Exxon Mobil con Edison e Qatar Petroleum, al largo di Rovigo, sono stati avviati nel ' 97, la valutazione d' impatto ambientale è stata ripetuta tre volte e nel maggio 2005 finalmente sono partiti i lavori, che termineranno a fine 2007. Dieci anni. E questo è l' unico progetto già cantierizzato: gli altri dieci sono tutti arenati, guarda caso, in svariati bracci di ferro con le autorità locali. Per non parlare dei progetti tramontati, come quelli dell' Enel a Montalto e a Monfalcone, dove l' iter è stato interrotto in stadio così avanzato che la compagnia elettrica aveva già firmato i contratti d' acquisto del gas liquido dalla Nigeria. «In mancanza di sbocchi in Italia - precisano all' Enel - ora quel metano dev' essere rigassificato in Francia da Gaz de France e importato via tubo». Nel frattempo, il resto del mondo cammina: ci sono 46 terminali di questo tipo attivi sui cinque continenti, di cui buona parte in Europa, da Sines in Portogallo a Zeebrugge in Belgio, da Barcellona a Marsiglia. Collocata in una posizione geografica ideale per trasformare la penisola in un hub del gas a livello europeo, l' Italia rischia invece di perdere il treno. «Gli attuali limiti di capacità - commenta Ortis - sommati alla scarsa flessibilità dei gasdotti internazionali, hanno un duplice effetto: da un lato, costituiscono una barriera all' entrata nel sistema dei nuovi operatori e ostacolano prospettive di sviluppo per il settore nazionale, anche favorendo progetti concorrenti in altri Paesi (dai Balcani alla penisola iberica), dall' altro lato non consentono agli operatori di soddisfare le richieste di una domanda crescente». In pratica, affidandosi soltanto ai tubi dell' Eni, non solo non si riesce a trasformare la Penisola in un centro d' esportazione del gas verso l' Europa - disegno più volte caldeggiato dall' Autorithy e anche da politici lungimiranti come Bruno Tabacci - ma non si copre nemmeno il fabbisogno nazionale: «Le forti opposizioni locali che ostacolano la costruzione di nuovi terminali di rigassificazione - precisa Ortis - vanno di pari passo con la crescita sostenuta della domanda, registrata nel corso di questi ultimi tre anni, e con la scarsità di stoccaggio, che lo scorso inverno ha contribuito a determinare l' interruzione della fornitura per alcuni clienti e il ricorso alle riserve strategiche». In questo freddo inverno 2006, abbiamo già sfiorato l' emergenza una volta. Ma il peggio deve ancora venire: l' anno scorso la crisi è scoppiata in marzo. Da qui a marzo, con un altro paio di centrali elettriche a gas in via di completamento e la crescente instabilità dei tre unici fornitori, l' Italia rischia di restare al palo.
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