29 maggio 2006
Kyoto, Enel presenta il conto
Il mercato delle quote di anidride carbonica non è ancora partito in Italia, ma l' Enel già presenta il conto di Kyoto ai suoi grandi clienti, con una maggiorazione del 2% sul prezzo dell' elettricità. La richiesta di pagare un addizionale di 1,67 euro al megawattora colpisce tutte le imprese energivore che avevano firmato contratti diretti con l' ex monopolista, compreso l' Acquirente Unico che rifornisce di energia le famiglie italiane, già salassate da un prezzo dell' energia superiore di un terzo rispetto al resto d' Europa. «Nel 2005 - dice l' Enel - l' onere sopportato per l' acquisto di quote e già iscritto a bilancio è stato pari a circa 180 milioni di euro». La compagnia elettrica guidata da Fulvio Conti, infatti, ha sforato di ben 8,6 milioni di tonnellate le emissioni di anidride carbonica assegnate alle sue centrali dal Piano nazionale di allocazione, appena varato in applicazione del protocollo di Kyoto, contro gli 1-2 milioni previsti inizialmente. E se quest' anno è andata così, le prospettive per l' anno prossimo non sono certo rosee, calcolando la crisi del gas che nei primi mesi del 2006 ha costretto gli operatori elettrici italiani a far andare diverse centrali a olio combustibile invece che a metano, con un aggravio notevole sul bilancio dell' anidride carbonica. Le emissioni in eccesso vanno compensate, comprando una quantità corrispondente di permessi sul mercato, altrimenti si rischiano multe salatissime. Ed è quello che Enel ha fatto, come del resto era previsto: sin dal settembre 2004 il gruppo aveva avvertito gli operatori che i prezzi dell' energia elettrica avrebbero potuto inglobare i costi dell' acquisto dei permessi. Resta da chiedersi, come ha scritto Emma Marcegaglia in una lettera di protesta a Fulvio Conti, se è corretto scaricare in toto questi extra-costi sui clienti e quindi, in ultima analisi, sulle bollette. L' Enel non ha alcun dubbio: i costi di Kyoto vanno spalmati sulla comunità. E ci è andata pure bene: in Germania - precisa il gruppo - «l' incremento imputabile al costo della CO2 nel 2005 è stimato attorno ai 13 euro al megawattora». Ma i rincari lasciano lo stesso perplessi tutti quanti, anche perché altri operatori, come Edison, hanno presentato un conto più modesto o addirittura, come Electrabel, hanno deciso di non trasferire questi costi sui consumatori. Soltanto per le 520 mila imprese riunite in Confartigianato gli oneri aggiuntivi sono stati stimati in 20 milioni di euro. Un esborso particolarmente fastidioso se si considera che ogni anno i consumatori versano circa 2 miliardi di euro, attraverso le tariffe stabilite dall' Authority, per incentivare la produzione di energia pulita. «Che fine hanno fatto queste risorse - si chiede il presidente Giorgio Guerrini - dal momento che non hanno consentito di abbattere le quote di anidride carbonica?». La domanda è legittima, tanto più che le imprese italiane non brillano certo per la loro lungimiranza in tema di applicazione del protocollo. «A meno di un mese dalla definizione dei nuovi piani di assegnazione delle quote per il periodo 2008-2012 in Italia permane una situazione di caos: solo il 20% degli impianti ha provveduto alla restituzione delle emissioni nei tempi previsti (in buona parte per colpa del malfunzionamento del registro nazionale) e il 5% non ha ancora attuato la verifica, con il risultato che il deficit di emissioni salirà ancora», spiega Michele Villa, partner del gruppo Environmental Resources Management ed esperto del protocollo di Kyoto. «Tra i grandi produttori - fa notare Villa - pochi sembrano guadagnare dal sistema, alcuni registrano un forte bilancio negativo tra emissioni effettive e quote assegnate. È il segnale di una capacità ancora ridotta di valutare il proprio contributo alle emissioni e quindi di definire strategie vincenti sui mercati di scambio». Mentre la macchina europea dell' Emissions Trading esce in questi giorni dalla fase di rodaggio, infatti, il sistema italiano non ha ancora nemmeno gettato le basi per negoziare gli scambi. Con la prospettiva di forti squilibri competitivi per le imprese italiane sul mercato europeo.
Eric von Hippel
Chi è che ne sa di più su un prodotto? Una volta si sarebbe detto la persona che lo ha progettato. Ma oggi non è più cosi. Ci sono molti utenti che davvero ne sanno di più su alcuni prodotti rispetto alle stesse aziende produttrici. E' per questo che Eric Von Hippel, autore di “Democratizing Innovation”, dalla sua cattedra della Sloan School of Management al Mit teorizza da tempo l'idea che il prossimo passo sarà la trasformazione della produzione di massa di stampo fordista e post-fordista in qualcosa di completamente diverso, su misura, creato e gestito dagli utenti stessi attraverso il web. E' il trasferimento del concetto di open source alla più ampia produzione industriale di beni di consumo.
Come vede dunque il futuro della produzione industriale? “Vedo una produzione di massa in cui attraverso il web le persone abbiano la possibilità di customizzare al massimo il prodotto, riducendolo a una miriade di micro scambi in cui si salti l'attuale filiera degli intermediari e il processo produttivo si trasformi, dando spazio a una nuova modalità di produzione su misura mirata direttamente al consumatore”.
Sembra fantascienza... “Non direi. L’Ibm è famosa per il suo ricco magazzino di invenzioni brevettate. L'anno scorso, ancora una volta è arrivata prima nelle classifiche della ricerca per gli Stati Uniti, mettendo insieme 3.248 brevetti, più di qualsiasi altra società. E ha guadagnato circa 800 milioni di euro vendendo e distribuendo licenze delle sue idee. Perché, allora, ha cambiato corso, regalando alcuni dei risultati della sua ricerca, invece di far pagare gli altri per utilizzarli? Perché ha interesse a farlo”.
In che cosa consiste questo interesse? “Controcorrente rispetto all’opinione diffusa, l’azienda ha calcolato che a volte condividere la tecnologia può essere più redditizio che non difendere gelosamente i propri diritti su brevetti, copyright e segreti commerciali. E le sue mosse vengono osservate attentamente nel mondo degli affari. Recentemente, Ibm ha fatto un gesto significativo in direzione di quella che ha definito una nuova era nei metodi per mantenere il controllo delle sue proprietà intellettuali, annunciando di voler mettere gratuitamente a disposizione 500 brevetti, per la maggior parte codici di programmazione per la gestione di programmi di commercio elettronico, immagazzinamento dati, elaborazione di immagini e comunicazioni Internet. Big Blue ha dichiarato che tutti i suoi futuri contributi alla più importante associazione per la standardizzazione del commercio elettronico, l’Organization for the Advancement of Structured Information Standards, saranno gratuiti”.
L’Ibm è all’avanguardia da questo punto di vista, ma anche altre aziende,in tutti i settori, stanno riconsiderando la loro strategia sulla proprietà intellettuale. Cosa mettere in comune con gli altri? Cosa tenere per sé, facendo pagare chi vuole utilizzarlo? “Internet, la globalizzazione, e la pressione dei costi stanno spingendo le aziende a collaborare alla ricerca di un innalzamento di produttività e ad accelerare il ritmo dello sviluppo dei prodotti. Questa collaborazione impone alle aziende di condividere una maggior quantità di informazioni tecniche con i clienti, i fornitori e i partner di settore. Il risultato è che le linee di confine e i termini di scambio, nel campo della proprietà intellettuale si stanno spostando. Il mondo degli affari oggi è impegnato in un gigantesco esperimento per cercare di capire quali settori della proprietà intellettuale aprire e quali mantenere chiusi. Il destino di molte aziende,e la forza delle economie nazionali, dipenderanno dagli esiti di questo esperimento".
Questo cambiamento dev'essere attentamente calibrato... “Guardiamo di nuovo all'Ibm: Big Blue non sta rinunciando alla sua lucrativa attività di concessione dei diritti di utilizzazione, né sta rinunciando a registrare nuovi brevetti. E non intende neanche dare via gratis la tecnologia per i suoi computer mainframe, i suoi software di archiviazione brevettati e altri prodotti completi. Caso mai mette a disposizione gratuitamente i tasselli tecnologici che consentono di estendere la comunicazione all’interno delle reti di settore.
Queste iniziative comportano dei rischi... "Quando metti a disposizione parte della tua tecnologia, sei costretto a salire ancora più in alto nella catena alimentare economica del tuo settore. Attraverso le reti di cooperazione informativa si realizza un’innovazione sempre maggiore nel settore e per questo sono necessari standard tecnici aperti”.
Anche in altri settori le aziende stanno lavorando su standard per la condivisione di una quota maggiore d'informazioni... “Per creare standard robusti e largamente usati, le aziende devono rendere disponibili i propri brevetti a tariffe contenute o gratuiti. Il ritorno potenziale sta nel fatto che aprire gli standard aiuterà tutto il settore a crescere più velocemente. Se apri agli altri la tua tecnologia e lo fai rapidamente, gli altri ci costruiranno su qualcosa. Così essere aperti diventa più efficiente economicamente".
Nel suo libro “Demcratizing Innovation” lei sostiene che l'innovazione originata dagli utenti può diventare più competitiva di quella originata dalle aziende. Può fare qualche esempio? “La storia del kite surfing è un buon esempio. Il kite surfing è uno sport acquatico in cui si utilizza una tavola simile alla tavola da surf ma invece che alle onde ci si affida alla spinta del vento, aggrappandosi a un grande aquilone comandabile che consente di fare grandi salti e acrobazie molto suggestive. Nel corso degli anni le vendite di equipaggiamento dedicato a questo sport sono cresciuto fino a raggiungere un giro d'affari da oltre 100 milioni di dollari, spartito fra diverse aziende di attrezzature sportive. Ma nel 2001 Saul Griffith, dottorando al Mit e molto interessato a questo sport, decise di creare un sito Internet dove la comunità del kite surfing potesse scambiarsi dei consigli e mettere in comune le innovazioni utili a migliorare la funzionalità delle attrezzature. Il sito ebbe subito molto successo e diversi surfer cominciarono a mettere in rete i loro disegni. Alcuni misero a disposizione della comunità dei software capaci di creare nuovi modelli aerodinamici e trasformarli rapidamente in prototipi. Molti partecipanti si rivelarono ben presto tecnici sofisticati, addirittura dipendenti di società aerospaziali. La qualità dello sforzo collettivo finì per superare le capacità innovative delle aziende produttrici, che cominciarono ad attingere direttamente al sito per scaricare i disegni migliori. In altre parole, l'innovazione prodotta dagli utenti diventò trainante rispetto a quella delle aziende produttrici”.
Si tratta però di un mercato di nicchia... “Sì, ma non è l'unico settore. Ad esempio tutto il mercato della strumentazione medica, un settore dal giro d'affari gigantesco, sta subendo una metamorfosi di questo tipo. Perfino nel mondo dell'automotive si riscontrano fenomeni analoghi. In pratica, si tratta di un trend molto più diffuso di quanto si creda. Con gli struemtni presenti in rete, gli utenti sono sempre più capaci d'innovare da soli e di mettersi in contatto con altre persone interessate agli stessi argomenti, scovandole anche all'altro capo del mondo. Lo sviluppo di strumenti informatici di progettazione sempre più sofisticati e la crescente estensione delle reti di utenti connessi, consentono agli utenti che non trovano in commercio quello che vogliono di svilupparselo da soli”.
In pratica, si torna all'abito tagliato su misura? “Sì, c'è un marcato trend in questa direzione. Dai dati che abbiamo risulta chiaramente che i consumatori sono sempre più eterogenei ed esigenti. Questo porta automaticamente ad un livello sempre più elevato di innovazione dal basso. In base alle ricerche empiriche che abbiamo condotto nell'ultimo anno, dal 10 al 40% dei consumatori hanno apportato in proprio delle modifiche a un prodotto industriale in molti settori diversi. Ed è chiaramente una tendenza in crescita”.
22 maggio 2006
Edward Prescott
Prima regola: «Se l' Italia vuole risanare i suoi conti pubblici, deve tagliare le tasse». Seconda regola: «Il punto non è aumentare la bassissima produttività degli italiani, basta ricondurre alla luce il sommerso e raddoppierà da sola». Terza regola: «Per rimettere in moto la crescita, non bisogna spingere a colpi d' investimenti pubblici, basta mollare il freno, togliendo le barriere di protezione a certi settori». Edward Prescott non è un pazzo visionario, ma un Nobel per l' economia e il suo messaggio al nuovo governo italiano va preso sul serio. Dal forum Sas di Ginevra, dove ha parlato di efficienza della produzione attraverso l' uso della tecnologia, Prescott si rivolge a Romano Prodi sapendo di indirizzare le sue valutazioni a un collega prima ancora che a un politico.
Il nuovo governo s' insedierà con un' emergenza già in corso sul fronte dei conti pubblici: il deficit si avvia a sforare la soglia del 4% sul Pil, mentre in base agli accordi con Bruxelles non dovrebbe superare il 3,8%. E il rapporto debito-Pil è già ben superiore al 100%. Le sembriamo in condizione di tagliare le tasse? «Non bisogna spaventarsi di un aumento momentaneo del disavanzo. In definitiva l' Italia è in buona compagnia: anche il Giappone è nelle stesse condizioni. La differenza è che adesso il Giappone cresce, mentre l' Italia no. Il vero problema dell' Italia è la crescita piatta, non il disavanzo».
Cos' è che blocca la crescita? «Bisogna eliminare le rigidità e le barriere che imbrigliano l' efficienza produttiva: da un lato l' eccessiva fiscalità, dall' altro lato le protezioni di cui godono settori fatiscenti, solo per garantire l' occupazione a quei pochi privilegiati che ci lavorano. Bisogna ricordarsi che la protezione del posto di lavoro di qualcuno non avviene mai senza un costo e comunque sempre a discapito di qualcun altro».
Quindi? «Primo: ridurre le aliquote fiscali. È stato ampiamente dimostrato da una serie di studi, compresi i miei, che la produttività è fortemente influenzata dalla fiscalità. Dalle statistiche dell' Ocse si deduce che gli americani nella fascia d' età 16-64 lavorano il 50% in più dei francesi. Valori analoghi risultano anche rispetto ai tedeschi e agli italiani. Per spiegare queste differenze spesso si citano fattori culturali o i sussidi alla disoccupazione, ma andando a verificare sulle serie storiche emerge chiaramente che l' unico motivo vero è il livello della tassazione. Nei primi anni Settanta, infatti, la situazione era capovolta. E anche le aliquote fiscali».
Nella pratica? «In pratica, le tasse sul reddito rappresentano un chiaro incentivo a lavorare di meno. E anche se si tassano solo i più ricchi, non si fa altro che disincentivare la produttività. Spesso i cosiddetti ricchi sono solo famiglie in cui lavorano sia il padre che la madre. L' aumento della pressione fiscale su questo tipo di famiglie ha solo l' effetto di far restare la madre a casa. E questo non è un male solo per il reddito familiare, ma anche per le casse dello Stato, che vedranno le entrate fiscali calare invece che crescere».
Come si fa a spezzare questo circolo vizioso? «È semplice: se gli europei fossero tassati come gli americani, avrebbero gli stessi livelli di produttività. E di crescita. È la quantità di lavoro disponibile, non dimentichiamolo, il fattore chiave per aumentare la crescita. Ricordo quando l' Europa riuscì a raggiungere gli Stati Uniti in termini di output e di produttività. È successo dall' inizio degli anni Sessanta fino a cavallo degli anni Ottanta. Poi il declino. La gente, sia in America che in Europa, sia in Cile che in Giappone, risponde in maniera analoga ad analoghi stimoli fiscali».
Anche in Italia? «Per l' Italia questo discorso è ancora più valido, considerando la dimensione consistente del sommerso. Gli italiani non lavorano necessariamente meno degli americani, solo che una parte del loro lavoro non viene tassata. Se il governo riducesse le aliquote abbastanza da catturare anche una buona fetta di questa torta, facendola emergere, potrebbe aumentare le sue entrate fiscali del 25 per cento. E improvvisamente si scoprirebbe che gli italiani sono dei gran lavoratori. Tanto quanto gli americani».
Ma tagliare le tasse non basta. «No, ci sono altre riforme molto importanti: lo Stato dovrebbe smettere di proteggere le rendite di posizione, di qualsiasi tipo. Dovrebbe eliminare le barriere che scoraggiano il libero uso della tecnologia per migliorare l' efficienza della produzione. Dovrebbe togliere le rigidezze normative che ingessano il mercato del lavoro proteggendo solo i lavoratori garantiti. Dovrebbe spingersi oltre sulla riforma delle pensioni, introducendo gradualmente un sistema a capitalizzazione ed eliminando i privilegi ancora accordati ad alcune categorie...».
E tutto questo in quattro anni? «Non solo questo. C' è dell' altro: l' Europa deve assolutamente favorire il libero commercio internazionale, eliminando le barriere doganali contro i prodotti asiatici. Solo la libera competizione consente ai consumatori occidentali di accedere alle merci più a buon mercato e promuove una distribuzione efficiente della produzione mondiale, lasciando ai Paesi più industrializzati solo le industrie con maggiore valore aggiunto e agli altri quelle in cui è essenziale un basso costo della manodopera».
Ma questo significa autodistruggere interi settori della produzione industriale... «Vero. Ma sono settori che non sopravvivrebbero comunque e resistere strenuamente alla loro distruzione significa danneggiarne altri, che invece sono i settori del futuro e andrebbero incentivati. Chi perde dall' abbandono di un sistema difficilmente si rassegna e chi guadagna difficilmente ha i mezzi per far valere le proprie ragioni. Ma la dittatura dello status quo imposta da alcuni gruppi al resto della società ci danneggia tutti».
Come si esce da questa dittatura? «Eliminando gli steccati che impediscono ai nuovi competitor di entrare. Le barriere alla competizione arricchiscono le imprese esistenti, ma soffocano le nuove. Il potere economico "compra" il potere politico e rende il passaggio all' innovazione politicamente difficile, pur essendo economicamente conveniente. Nel Medio Evo, per esempio, come ricordano i libri di storia, le gilde usavano il proprio potere politico per indurre i governanti ad introdurre regolamentazioni che limitavano la competizione attraverso controlli dei prezzi, standard di produzione e un numero chiuso di agenti attivi sul mercato locale».
Come gli ordini professionali di oggi... «Il risultato fu quello di tagliare il flusso di nuove idee, portando al declino i Paesi dove questo sistema è riuscito a prevalere. Tuttavia l' esperienza storica ci dice pure che non tutti i sistemi sono uguali e che non tutti i Paesi rimangono intrappolati in strategie e politiche perdenti. Dipende dall' indipendenza e dallo spessore dei politici che li governano».
15 maggio 2006
L'Italia ritorna all'atomo. In Francia
L' Italia ritorna all' atomo. Con la partecipazione dell' Enel alla costruzione di un reattore di terza generazione a Flamanville, in Normandia, e l' acquisizione di quattro reattori operativi (più altri due da completare) in Slovacchia, si avvicina il momento tanto atteso dagli ingegneri nucleari italiani, che da vent' anni sono sottoutilizzati o costretti a espatriare per lavorare nel proprio campo. «Dopo il referendum dell' 87 - spiega Giancarlo Aquilanti, appena chiamato a gestire la nuova squadra atomica dell' ex monopolista elettrico - in Enel siamo rimasti in pochi, non più di una quarantina. Al momento del referendum ero impegnato nella progettazione dei nuovi reattori che l' Enel voleva costruire in diversi siti già individuati, come Trino Vercellese II o Avetrana in Puglia, ma sono stati bloccati dalla reazione popolare. Poi ho continuato a occuparmi di progettazione e costruzione d' impianti, non più atomici ovviamente». Da ottobre, insieme ad altri ingegneri nucleari della «vecchia guardia», Aquilanti è entrato nell' orbita della nuova squadra che si andava formando e da qualche giorno ne è diventato il responsabile. «Abbiamo attinto alle forze interne - precisa Aquilanti - ma stiamo soprattutto assumendo giovani che lavorano all' estero e sono attratti da questa nuova avventura italiana oppure sono appena usciti dalle poche facoltà che ancora ne sfornano: a Torino, Milano, Pisa e Roma. Alla fine, dovremmo arrivare a una quarantina di persone, di cui una trentina saranno inserite a scacchiera nel progetto francese dell' European Pressurized Reactor già avviato in Normandia». La partecipazione italiana al progetto di Flamanville è stata approvata la settimana scorsa dal cda di Edf, dopo una serie interminabile di resistenze generate dalla guerra dei nervi in corso fra Enel e Suez. Con questo delicato passaggio, l' Italia approda finalmente al futuro dell' atomo in Europa: l' Epr che sorgerà a Flamanville, infatti, è simile a quello che Areva (erede di Framatome con una partecipazione di Siemens) sta già costruendo a Olkiluoto in Finlandia e diventerà l' impianto standard europeo, da ripetere tutte le volte che ci sarà bisogno di una nuova centrale nucleare. Le altre due tecnologie concorrenti - l' Ap 1000 dell' ex americana, ora giapponese, Westinghouse e la russa Vvr 1000 - sono lievemente in ritardo rispetto ai francesi. L' accordo di Enel con Edf, ora al vaglio dell' Antitrust europea, darà agli italiani il 12,5% della produzione del primo Epr. Come contropartita, l' Enel finanzierà l' equivalente del 12,5% dell' investimento globale di 3,3 miliardi di euro. In più, potrà esercitare un' opzione per la stessa quota su altri cinque reattori successivi, tutti da 1.600 MW, che verranno costruiti sullo stesso modello e il cui costo, grazie alle economie di scala, non supererà i 2 miliardi. Alla fine l' Enel potrà dunque contare sulla produzione di 1.200 MW nucleari, ai quali si aggiungono i 2.600 MW nucleari appena acquisiti dalla privatizzazione della compagnia elettrica slovacca Slovenské Elektrárne. In tutto, una potenza nucleare da 3.800 MW, oltre il doppio della capacità produttiva dismessa dopo il referendum dell' 87. Per ora nel progetto francese è presente solo l' Italia, ma è probabile che la partecipazione nei prossimi mesi verrà allargata anche alla tedesca E.on, alla belga Electrabel e forse alla spagnola Endesa, tutte interessate a contribuire alla costruzione di quello che diventerà il nuovo reattore standard d' Europa. È attorno al 2020 che la maggior parte dei 59 reattori francesi, insieme a quelli di molti altri Paesi europei, arriveranno all' età della pensione ed è per quell' epoca che i partner elettrici del continente si stanno preparando a una nuova stagione del nucleare.
8 maggio 2006
Prodi si scotterà con il carbone?
Civitavecchia è un territorio energeticamente sismico: ogni volta che l' Enel comincia a costruire qualcosa, dal sottosuolo della politica si scatena un terremoto. Non appena i lavori per la riconversione a carbone della centrale a olio combustibile di Torrevaldaliga si sono rimessi in moto, dopo la sentenza favorevole del Tar che ha sospeso il blocco regionale, i sindaci della zona hanno dissotterrato l' ascia di guerra, invitando alla mobilitazione popolare: la prossima manifestazione di protesta dei «No Coke Alto Lazio» è fissata per il 13 maggio. Le richieste più pressanti del Wwf e degli ambientalisti non sono rivolte a Piero Marrazzo, il governatore del Lazio che già sta facendo tutto il possibile per bloccare l' impresa, ma a Romano Prodi: «Gli obiettivi di Kyoto sono incompatibili con la scelta del carbone, ci piacerebbe quanto prima sapere da che parte starà il nuovo governo». «Per Prodi sarà questo il primo banco di prova», dicono. Ed è vero. Le recenti follie del greggio che in certi giorni ha superato i 73 dollari al barile e le difficoltà vissute quest' inverno in Europa nell' approvvigionamento di gas hanno convinto tutti i principali esponenti politici nazionali, compreso Romano Prodi, della necessità e dell' urgenza di diversificare le fonti di approvvigionamento delle materie prime per la produzione di energia. In Italia infatti usiamo idrocarburi per produrre circa il 70% della nostra elettricità, mentre in Europa la stessa percentuale è prodotta con il carbone e il nucleare. «L' Enel - spiega l' amministratore delegato Fulvio Conti - punta ad azzerare il ricorso al petrolio»: ha riconvertito nove centrali da olio a gas per 5 mila MW con un investimento di oltre due miliardi e sta riconvertendo altre due centrali a carbone da 4.500 MW complessivi, Civitavecchia e Porto Tolle. Per Civitavecchia, l' investimento è di 1,5 miliardi, di cui 1,2 miliardi già spesi per la fornitura di macchinari e lavoro. Il progetto - approvato con decreto ministeriale nel dicembre 2003 - prevede l' adozione delle migliori tecnologie disponibili per l' abbattimento delle emissioni, che consentiranno di aumentare il rendimento dal 37 al 45% e di ridurre le emissioni dell' anidride solforosa dell' 82%, degli ossidi di azoto del 61% e delle poveri dell' 82%. Anche le emissioni di anidride carbonica, che è un gas considerato responsabile dell' effetto serra a livello globale, si ridurranno del 18% rispetto al livello attuale. Ma da quando sono cominciati i lavori di riconversione - dopo un processo autorizzativo che ha raccolto l' assenso sia dell' amministrazione comunale che di quella regionale - una lunga teoria di proteste, ricorsi e manifestazioni ha intralciato la realizzazione del progetto, fino all' ordinanza della giunta Marrazzo, che in marzo ha vietato i dragaggi delle opere a mare, necessari per predisporre l' attracco delle navi carboniere. Praticamente una pietra tombale, che ha sollevato notevoli dubbi a livello nazionale: Pier Luigi Bersani, responsabile economico dei Ds, ha notato «una certa sfasatura nei tempi della decisione», della giunta Marrazzo. La questione, però, sta diventando centrale per il futuro energetico del Paese: la morte del progetto di Civitavecchia, con un conseguente danno economico colossale per l' Enel che minaccia di chiedere 2 miliardi di danni alla Regione, si tradurrebbe infatti nella morte della strategia pro carbone della compagnia guidata da Fulvio Conti. Una strategia che rappresenta per l' Italia l' unica opportunità d' introdurre il carbone pulito nel mix nazionale di generazione, riducendo le bollette elettriche, poiché nessun altro operatore si arrischia a puntare su questo combustibile povero ma tanto osteggiato. Ora si attende - il 25 maggio - l' udienza di merito del Tar, che si è già pronunciato un anno fa a favore della legittimità dei lavori. Ma anche in caso di sentenza favorevole all' Enel, gli strumenti di pressione della giunta Marrazzo per tenere in scacco la politica energetica del nuovo governo sono infiniti. A meno che Prodi non s' imponga.
Iscriviti a:
Post (Atom)