30 dicembre 2007
Internet? E' più attraente di Wall Street
21 dicembre 2007
A caccia di specialisti per il nucleare
10 dicembre 2007
Le Coop fanno il pieno di benzina
3 dicembre 2007
Gazprom avanza: ora tocca a Vienna
26 novembre 2007
De Benedetti prenota un posto al sole
16 novembre 2007
La Grande Muraglia di fuoco
UNA STORIA CINESE Il 24 novembre del 2004, nella città di Taiyuan, nella provincia di Shanxi, il giornalista Shi Tao veniva arrestato dagli uomini della polizia politica, con l'accusa di aver passato segreti di Stato ad agenti stranieri, una formula standard con cui il governo di Pechino usa incastrare i dissidenti. L'accusa si basava su una mail inviata da Shi Tao all'Asia Democracy Foundation, partendo dal suo indirizzo registrato su Yahoo, con cui illustrava nei dettagli le limitazioni imposte delle autorità ai media cinesi sulla copertura dell'anniversario della strage di Tiananmen. Come aveva fatto la polizia politica a trovare Shi? Semplicissimo: aveva chiesto a Yahoo di consegnare tutti i suoi dati personali, compreso l'indirizzo, che Yahoo aveva prontamente rivelato. Il 27 aprile 2005, all'età di 37 anni, Shi veniva condannato a 10 anni di prigione dal tribunale del popolo. Il 2 giugno l'appello presentato da Shi veniva respinto dalla corte di secondo grado senza concedergli udienza. Da allora Shi marcisce in prigione. Insieme ad altri 42 colleghi che hanno fatto la stessa fine in circostanze analoghe. Il 28 agosto 2007 la madre di Shi, Gao Qinsheng, denunciava il comportamento di Yahoo al tribunale di San Francisco. Il 6 novembre 2007 la Commissione Esteri del Congresso convocava il numero uno di Yahoo, Jerry Yang, per chiedergli conto del suo operato, definito da Tom Lantos, il presidente della Commissione, “codardo e irresponsabile”. Lantos chiedeva poi a Yang di scusarsi pubblicamente con la madre di Shi, presente all'audizione. Il 13 novembre Yahoo raggiungeva un accordo extragiudiziale con la famiglia di Shi, i cui termini non sono pubblici. Ma tutti i soldi di Yang non tireranno Shi fuori di prigione.
LA FINE DI UN'UTOPIA Oggi sappiamo che le speranze di democratizzazione dei regimi totalitari attraverso il web, ottimisticamente riassunte da Clinton nel suo discorso di Baltimora, sono miseramente naufragate in un mare di filtri censori sempre più sofisticati. Il caso cinese prova senza ombra di dubbio che la forza liberalizzatrice della tecnologia può essere inchiodata al muro – se si hanno gli strumenti giusti - molto meglio di un budino di gelatina. E i cinesi li hanno, così come i birmani, i vietnamiti, i sauditi, gli iraniani o i siriani, poiché nessuna azienda occidentale vuole mettersi contro le autorità dei Paesi con cui fa affari, come ha dichiarato recentemente John Chambers di Cisco mentre annunciava l'intenzione di investire 16 miliardi di dollari in Cina nei prossimi cinque anni: “Se c'è una cosa che le aziende tecnologiche non possono fare è lasciarsi coinvolgere nelle controversie politiche di un Paese”. Ha ragione, quindi, Yang a protestare quando i difensori dei diritti umani se la prendono con Yahoo, solo perché è stata beccata con le mani nel sacco. Nel mondo di Yang, quasi nessuno è senza peccato.
LA GRANDE MURAGLIA DI FUOCO In pratica, la censura è intrecciata nel tessuto stesso del web cinese, un'isola collegata alla rete globale tramite nove accessi attentamente sorvegliati dall'occhio governativo. Questi nove accessi vengono comunemente soprannominati "Great Firewall" o GFW da chi se ne intende. Come il firewall installato sui pc, il GFW si attiva per bloccare minacce specifiche, ma non è dato sapere quali. Dai vari studi sulla complessa materia si deduce che viene eliminata tutta una serie di informazioni "indesiderate", contenute in migliaia di siti, da quello dei Falun Gong ormai inaccessibile da anni alle pagine cinesi della Bbc, spesso impossibili da aprire. La caratteristica particolare della censura cinese è che non avviene mai alla luce del sole. Pechino nega da sempre di esercitare qualsiasi sorveglianza. Le autorità ripetono continuamente che filtrare i contenuti del web è impossibile. Di conseguenza, se le pagine che si cercano sono irraggiungibili non si può mai sapere se è colpa della censura o di un sovraccarico delle linee. Altri regimi totalitari utilizzano delle "pagine di blocco" a cui gli utenti vengono rimandati quando cercano di accedere alle informazioni censurate. La Cina no. Per cui i blocchi sono del tutto imprevedibili e talvolta solo temporanei o parziali. I siti in lingua cinese, ovviamente, hanno più problemi degli altri e quelli che mettono direttamente in discussione il regime comunista sono i più sorvegliati.
UN'ISOLA CON 162 MILIONI DI ABITANTI Mentre il GFW protegge l'isola cinese dagli assalti esterni, il sistema applicato per la censura interna è completamente diverso. Qui i principali censori sono gli stessi provider, che rischiano la chiusura se non applicano rigorosamente i filtri imposti dalle autorità. Ogni singola pagina presente in rete viene attentamente setacciata dal provider che la ospita, sia un sito o un blog, uno spazio autogestito tipo YouTube o addirittura un videogioco online. Una schiera di controllori da far impallidire la Stasi passa tutto il suo tempo a sorvegliare il materiale immesso in rete per bloccare le informazioni proibite. Che non sempre sono le stesse. Le indicazioni delle autorità sono volutamente vaghe, in modo da indurre all'autocensura. I tabù principali sono incentrati sulle tre T: Tibet, Taiwan e Tiananmen. Su questi tre temi non passa uno spillo. Ma le indicazioni possono diventare anche molto dettagliate nei momenti più delicati, in occasione di anniversari, di grandi happening politici come il Congresso del partito o di eventi internazionali come le Olimpiadi che si avvicinano. Le punizioni per gli utenti che si avventurano ripetutamente fuori dal seminato o per i provider che non filtrano abbastanza variano molto. I blogger possono ritrovarsi disabilitati da un momento all'altro, i post cancellati, i manager di un portale licenziati, il portale chiuso. La sorveglianza si estende agli Internet Café, dove gli operatori sono spinti dalle autorità a controllare attentamente gli utenti usando tecnologie che registrano ogni parola scambiata online. Ma come si vede dal caso iniziale, i censori ricorrono spesso anche a metodi molto più tradizionali, arrestando i trasgressori e condannandoli a lunghe detenzioni.
VARCHI NEL MURO Gli unici canali di cui ci si può fidare sono quelli che passano attraverso le aziende che non fanno affari con la Cina, spiega Rebecca MacKinnon, ex capo dell'ufficio di Pechino della CNN, fondatrice di Global Voices Online, oggi docente di nuovi media all'Università di Hong Kong e blogger appassionata su RConversation. Dall'alto della sua esperienza cinese, Rebecca sconsiglia a chiunque abbia opinioni poco ortodosse di usare qualsiasi provider, anche americano, che abbia una sede in Cina. Stesso discorso vale per i blogger. Nello specifico, Rebecca consiglia di usare Hushmail per la posta elettronica, mentre per aprire un blog indica Civilblog, che ha sede in Canada ed è molto impegnato sul fronte dei diritti civili. Sul resto non si sente di mettere una mano sul fuoco. Ma sono ben pochi i cinesi tanto gelosi della propria privacy da arrivare così lontano.
UN SISTEMA EFFICACE Il risultato di quest'opera ciclopica di manipolazione della realtà è sotto gli occhi di tutti: la vasta maggioranza dei 162 milioni di internauti cinesi risulta efficacemente schermata da qualsiasi opinione che le autorità potrebbero considerare politicamente problematica. In pratica, il partito è riuscito a creare una "memoria collettiva", soprattutto fra i giovani, in cui la versione governativa dei fatti non viene mai messa in discussione, anche quando è distante anni luce dalla realtà storica. Un esempio classico è la foto del ragazzo davanti al tank nei disordini di Piazza Tiananmen: quella che per l'Occidente è l'immagine-simbolo del massacro, in Cina è stata accuratamente erasa dal web, tanto che mostrandola a un cinese oggi, nessuno la riconosce. Consciamente o inconsciamente, gli internauti cinesi hanno interiorizzato i limiti oltre i quali è meglio non spingersi e preferiscono tenersi all'interno della linea rossa tracciata dal partito. Questo è uno dei motivi per cui la Repubblica Popolare rimane stabile anche in presenza di enormi problemi irrisolti.
12 novembre 2007
Sonatrach entra nel mercato italiano
Il colosso algerino Sonatrach entra a pieno titolo nel mercato italiano del gas: figura infatti nell' elenco delle 407 aziende che, al 31 ottobre, hanno ottenuto dal ministero dello Sviluppo economico l' autorizzazione alla vendita diretta del metano ai consumatori finali. Sonatrach Gas Italia, con amministratore unico Mohammed Fouad Koulla, risulta già iscritta al registro delle imprese della Camera di commercio di Milano, con sede in corso Venezia 5. L' azienda energetica dello Stato algerino potrà vendere il suo metano ai clienti italiani dal 2008, quando comincerà ad arrivare in Italia con un comodo biglietto di transito sul gasdotto transtunisino controllato dall' Eni. Per la compagnia algerina, che punta da anni a raggiungere questo obiettivo, è una prima volta quasi insperata: il progetto ufficiale era la commercializzazione della sua quota di metano che arriverà in Italia dal 2011 attraverso il gasdotto Algeria-Sardegna-Italia, ancora tutto da costruire. Con questo escamotage, invece, l' obiettivo è stato centrato molto prima. Il programma di potenziamento dei gasdotti già esistenti, in particolare il Tag dal Nord per il metano russo e il Ttpc dal Sud per il metano algerino - entrambi dell' Eni, come tutto il sistema di trasporto - era stato imposto a colpi di multe dall' Antitrust per far crescere nuovi player su questo mercato, dominato quasi completamente dalla compagnia di San Donato. Ma le modalità di assegnazione della nuova capacità messa in gara dal Ttpc si sono rivelate decisamente sfavorevoli per le rivali italiane, da Hera a Sorgenia, dall' Aem a Iride, giudicate idonee nella prima fase della gara, ma respinte nella seconda. L' anno scorso l' Authority di Antonio Catricalà aveva inflitto all' Eni una megamulta da 290 milioni per abuso di posizione dominante, subito contestata dalla compagnia di San Donato. E le aveva imposto di aumentare la capacità di trasporto sul gasdotto Ttpc per 6,5 miliardi di metri cubi annui in due tranche, cedendo la quota in più a operatori terzi, entro l' ottobre 2008. Della seconda tranche (3,3 miliardi di metri cubi), destinata in origine a essere spartita fra 45 società giudicate idonee, 2 miliardi andranno invece a Sonatrach Gas Italia e il resto all' Enel, in base a un accordo stipulato nel ' 91 con l' Eni, in cui lo Stato algerino si riserva di esprimere il gradimento sui contratti di trasporto firmati dal Ttpc con altri «shipper» di gas, diversi dall' Eni e dall' Enel. In questo modo, si rimette ad Algeri la scelta dei soggetti che possono accedere alla nuova capacità di trasporto messa in gara in Italia. Resta da chiedersi se Sonatrach farà davvero concorrenza a uno dei suoi più affezionati alleati. In Spagna, Sonatrach sta facendo una politica molto aggressiva: il ministro algerino dell' Energia, Chakib Khelil, ha annunciato l' intenzione di vendere il suo gas a prezzi inferiori a quelli degli altri operatori. «È evidente - ha detto il ministro Khelil - che il gas commercializzato direttamente da Sonatrach sarà meno caro per i consumatori spagnoli rispetto allo stesso gas venduto attraverso intermediari». Ma in Spagna Sonatrach è in guerra aperta contro Gas Natural, a cui vuole imporre un aumento del prezzo del 20% su un terzo del fabbisogno di metano della penisola iberica. In Italia non siamo ancora a questo punto. Eni e Sonatrach, qui, sono buone amiche.
Etichette: gas
Sonatrach entra nel mercato italiano
9 novembre 2007
Gary Hamel
L' efficienza ha dominato i pensieri del manager nel ventesimo secolo, ma oggi non basta più: «L' adattabilità è diventata più importante dell' efficienza, il pensiero innovativo dà migliori risultati dell' affidabilità, in questo mondo sempre più turbolento». Gary Hamel, definito dall' Economist «il re della strategia nel business», docente della London Business School e consulente di tutte le grandi multinazionali, si è posto un obiettivo ambizioso nel suo ultimo libro, «The Future of Management» (HBS Press, presto in libreria anche in Italia): tracciare la strada per i nuovi manager, una sorta di «management 2.0» nell' era del «web 2.0». Nel suo libro si mette in luce quanto i tradizionali strumenti di gestione siano inadeguati al ritmo dei tempi.
Vede un segno di questa carenza strategica anche nella crisi che sta travolgendo oggi il mondo finanziario americano?
«Ogni sistema dove il potere stia tutto al vertice fa più fatica ad adattarsi alle rapide evoluzioni tipiche delle situazioni di crisi. Le società finanziarie che favoriscono il conformismo sul pensiero innovativo, la catena di comando e controllo sulla responsabilità diffusa, rischiano grosso di questi tempi. Gli errori strategici si vedono bene dal ritmo con cui saltano le teste degli amministratori delegati. La leadership dei grandi gruppi non è mai cambiata così rapidamente come in questo periodo. Ma non tutto il mondo bancario è malato di verticismo. Ci sono anche elementi di grande innovazione nella strategia di alcune banche, come ad esempio l' Ubs. E si vede dai risultati».
Lei sogna di organizzazioni capaci di rinnovamento spontaneo, dove il dramma del cambiamento non debba essere per forza accompagnato dal trauma della ristrutturazione. E' possibile questo?
«Certamente. Basta guardare ad alcuni esempi dei tempi moderni, come Google, un' azienda con un giro d' affari di più di 10 miliardi di dollari e oltre diecimila dipendenti, che praticamente non ha gerarchie. La catena gestionale viene mantenuta il più corta possibile, perché un eccesso di controllo rischia di mettere un freno all' innovazione».
Google è un' azienda relativamente giovane, non è detto che riesca a mantenere questo standard nei decenni a venire...
«Vero. Ma in questi dieci anni ha costruito un' organizzazione vasta e articolata, quotata in Borsa, che sta in piedi perfettamente e anzi corre come una lepre, pur facendo a meno di tutta l' impalcatura gestionale che di solito viene considerata imprescindibile per ogni grande multinazionale».
Quindi il suo consiglio è di sfrondare?
«Esattamente. Le strutture di gestione devono essere leggere, flessibili, adattabili. In massima parte le aziende di oggi utilizzano dei sistemi di gestione inventati all' inizio del secolo scorso. Una cascata di presidenti, amministratori delegati, vice presidenti, vice presidenti esecutivi, direttori generali e via discorrendo. Gli stessi sistemi di controllo, le stesse pratiche nelle risorse umane, gli stessi rituali di pianificazione, le stesse strutture di revisione dei tempi di Ford. Ma non si possono trattare dei lavoratori del terziario come se fossero operai alla catena di montaggio...».
Non mi verrà a dire che le aziende ignorano la rivoluzione tecnologica...
«Applicano la tecnologia, parlano di innovazione, ma i sistemi di gestione rimangono gli stessi. E così le aziende perdono un vantaggio competitivo essenziale, perché in cent' anni di produzione industriale, a ben guardare, non sono mai state le rivoluzioni tecnologiche ma le rivoluzioni gestionali a dare una spinta decisiva alla crescita. Se non cambieranno in fretta, rischiano di farsi superare dai nuovi competitor dei Paesi emergenti. In India, soprattutto, ci sono molte aziende giovani che applicano strutture di gestione molto innovative, come ad esempio la HCL Technologies, dove gli impiegati hanno il diritto di criticare i dirigenti con una sorta di cartellino rosso, che viene ritirato solo quando il dirigente si è emendato. Un bel sistema, no?».
Etichette: guru
Gary Hamel
Vede un segno di questa carenza strategica anche nella crisi che sta travolgendo oggi il mondo finanziario americano? «Ogni sistema dove il potere stia tutto al vertice fa più fatica ad adattarsi alle rapide evoluzioni tipiche delle situazioni di crisi. Le società finanziarie che favoriscono il conformismo sul pensiero innovativo, la catena di comando e controllo sulla responsabilità diffusa, rischiano grosso di questi tempi. Gli errori strategici si vedono bene dal ritmo con cui saltano le teste degli amministratori delegati. La leadership dei grandi gruppi non è mai cambiata così rapidamente come in questo periodo. Ma non tutto il mondo bancario è malato di verticismo. Ci sono anche elementi di grande innovazione nella strategia di alcune banche, come ad esempio l' Ubs. E si vede dai risultati».
Lei sogna di organizzazioni capaci di rinnovamento spontaneo, dove il dramma del cambiamento non debba essere per forza accompagnato dal trauma della ristrutturazione. E' possibile questo? «Certamente. Basta guardare ad alcuni esempi dei tempi moderni, come Google, un' azienda con un giro d' affari di più di 10 miliardi di dollari e oltre diecimila dipendenti, che praticamente non ha gerarchie. La catena gestionale viene mantenuta il più corta possibile, perché un eccesso di controllo rischia di mettere un freno all' innovazione».
Google è un' azienda relativamente giovane, non è detto che riesca a mantenere questo standard nei decenni a venire... «Vero. Ma in questi dieci anni ha costruito un' organizzazione vasta e articolata, quotata in Borsa, che sta in piedi perfettamente e anzi corre come una lepre, pur facendo a meno di tutta l' impalcatura gestionale che di solito viene considerata imprescindibile per ogni grande multinazionale».
Quindi il suo consiglio è di sfrondare? «Esattamente. Le strutture di gestione devono essere leggere, flessibili, adattabili. In massima parte le aziende di oggi utilizzano dei sistemi di gestione inventati all' inizio del secolo scorso. Una cascata di presidenti, amministratori delegati, vice presidenti, vice presidenti esecutivi, direttori generali e via discorrendo. Gli stessi sistemi di controllo, le stesse pratiche nelle risorse umane, gli stessi rituali di pianificazione, le stesse strutture di revisione dei tempi di Ford. Ma non si possono trattare dei lavoratori del terziario come se fossero operai alla catena di montaggio...».
Non mi verrà a dire che le aziende ignorano la rivoluzione tecnologica... «Applicano la tecnologia, parlano di innovazione, ma i sistemi di gestione rimangono gli stessi. E così le aziende perdono un vantaggio competitivo essenziale, perché in cent' anni di produzione industriale, a ben guardare, non sono mai state le rivoluzioni tecnologiche ma le rivoluzioni gestionali a dare una spinta decisiva alla crescita. Se non cambieranno in fretta, rischiano di farsi superare dai nuovi competitor dei Paesi emergenti. In India, soprattutto, ci sono molte aziende giovani che applicano strutture di gestione molto innovative, come ad esempio la HCL Technologies, dove gli impiegati hanno il diritto di criticare i dirigenti con una sorta di cartellino rosso, che viene ritirato solo quando il dirigente si è emendato. Un bel sistema, no?».
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Michael Hoffman
Come si costruisce una cultura etica che impedisca disastri come quello capitato alla Mattel o alla Dow Corning? «Ci dev' essere una rete capillare di controlli interni, con ispettori che visitino gli impianti anche di sorpresa, senza alcun preavviso, per verificare che i prodotti siano appropriati. I controlli devono essere estesi a tutta la produzione, anche all' estero. E questa è la parte più difficile, in particolare quando si ha a che fare con Paesi complicati come la Cina. Ma ci vogliono soprattutto delle persone che tirino le fila di questa rete e abbiano la capacità d' interfacciarsi sia con la produzione che con i decisori, con chi ha il potere di assumere e licenziare il top management».
Quindi con il consiglio d' amministrazione... «Esattamente. E' ormai una quindicina d' anni che le corporation americane hanno creato la figura del Chief Ethics Officer (EO), una guida strategica e operativa che deve vigilare sulla conformità dell' operato dell' azienda alle buone regole di condotta etica. Ma in generale l' EO fa parte del management e viene ascoltato solo raramente dal consiglio d' amministrazione. Questo crea un chiaro conflitto d' interesse: da un lato l' EO non ha l' autorità sufficiente per imporsi sul top management, dall' altro lato è molto difficile per lui giudicare e denunciare la condotta morale di chi, come l' amministratore delegato, ha il potere di assumerlo e licenziarlo. Ecco perché io propongo che l' EO sia messo in relazione diretta con il consiglio, a cui dovrebbe poter riportare direttamente, quasi come un revisore dei conti».
Ma per questo non ci sono già le normative anti-frode come la Sarbanes-Oxley? «Le leggi di questo tipo sono sempre utili. Più ancora della Sarbanes-Oxley, che si rivolge solo alle società quotate, sono state utili le Federal Sentencing Guidelines for Organizations, che hanno imposto una serie di regole contro le truffe finanziarie, le molestie sessuali, i prodotti pericolosi. Le aziende non sono costrette a seguirle, ma in pratica lo fanno perché se succede un guaio il giudice ne tiene conto. Se le FSGO vengono applicate a puntino, in caso di denuncia la magistratura tende a perseguire i singoli manager, ma non la società».
Dunque le regole sono importanti... «Importanti ma non decisive. Non dimentichiamo che Enron, ad esempio, aveva un codice etico lungo 72 pagine. "Scripta manent", dicono. Ma in questo caso non è servito a nulla. Non sono determinanti le dichiarazioni scritte, ma le persone. La cultura dell' etica deve partire dai valori, non dagli obblighi».
Il problema è che i manager in generale non sono concentrati sull' etica ma sul business. «E' uno sbaglio, perché l' etica porta business. Compriamo più volentieri i prodotti di una società che tratta bene i suoi dipendenti, che non sporca l' ambiente, che non dà in giro bustarelle...».
L' etica nel business può diventare uno strumento di marketing? «Spero qualcosa di più, ma anche. E' importante però che le belle cose propagandate nelle pubblicità siano vere al cento per cento, altrimenti rischiano di diventare controproducenti».