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29 gennaio 2007

Fred Turner

Un modello insulare, in cui prevale la creatività individuale ma le singole posizioni sono molto più fragili, se confrontate con quelle dei lavoratori dipendenti inseriti nelle organizzazioni gerarchizzate degli anni Cinquanta e Sessanta. "E' questa - secondo Fred Turner, autore di From Counterculture to Cyberculture (Chicago University Press) e docente a Stanford - la principale eredità del pensiero controculturale sessantottardo, sfociato poi nella rivoluzione digitale degli anni Novanta". Un'eredità controversa, che Turner ha studiato a fondo fin dalla nascita di Silicon Valley e oggi si rifiuta di celebrare acriticamente, com'è ormai diventato usuale nella mitologia della nuova frontiera cibernetica.
Le piace quest'uomo nuovo emerso dalla rivoluzione hi-tech?
"Il problema non è tanto se piace o non piace a me, quanto se piace a se stesso. O meglio, se questa organizzazione magmatica e flessibile dei processi produttivi riesce a soddisfare le necessità economiche e sociali di vaste masse di lavoratori che ormai ne sono coinvolte. E se non è così, come si può fare a migliorarla. Mi pare che sotto la patina dorata del mito, sia questo aspetto di critica sociale che manca".
Critica sociale?
"Sì, chiamiamola proprio così. Sulla nuova era digitale si sono scritte e dette molte frasi iperboliche. Ne ricordo una per tutte, coniata dalla leggendaria guru di Silicon Valley, Esther Dyson: "Il ciberspazio è il paese della conoscenza e l'esplorazione di questo paese può diventare la missione più elevata per un'intera società". Ma com'è possibile che tanta gente si sia fatta prendere dalla frenesia letteraria della nuova frontiera, paragonando una serie di macchine collegate fra di loro a un nuovo paesaggio, a un luogo diverso dalla realtà? Quando smetteremo di parlare a vanvera, scopriremo che il ciberspazio non è affatto un luogo diverso, ma fa parte della stessa banale realtà concreta in cui ci muoviamo tutti. Solo con la mente sgombra di miti potremo confrontarci con le ricadute di queste tecnologie e i nuovi modelli organizzativi che ne derivano".
All'atto pratico?
"E' molto semplice: negli ultimi vent'anni è scomparsa una certa organizzazione sociale e ne è sorta un'altra. E' scomparso l'uomo-azienda, che passava la sua vita nella stessa compagnia più o meno dalla culla alla tomba, attraversando così gli alti e bassi della congiuntura, ed è nata una nuova generazione di lavoratori autonomi, che si muovono continuamente da un progetto all'altro a seconda delle esigenze produttive del momento. In pratica, le incertezze e i rischi del mercato sono stati scaricati in larga parte dalle spalle delle aziende a quelle dei lavoratori. Questo crea una maggiore libertà d'impresa, che naturalmente fa bene al ciclo produttivo, ma anche una serie di disguidi. Tanto per dirne uno, non è chiaro quanto a lungo sia possibile reggere uno stile di lavoro così instabile, affannoso nei periodi pieni, frustrante nei periodi morti. Sulle ansie e lo sfinimento derivanti da questo stile di vita è nata un'ampia fioritura letteraria: basta andarsela a leggere per capire che i tanto decantati lavoratori della conoscenza arriveranno agli anni della pensione (semmai ci arriveranno) molto meno rilassati dei baby boomers".
Insomma, sotto il mito si cela un incubo?
"Non dico questo. Certo è che il mito andrebbe un po' sfatato. Tutti questi cowboy del ciberspazio sono molto interessanti e soddisfatti finché sono giovani, mobili, slegati da qualsiasi contesto sociale. Ma non appena cercano di uscire dalla disgregazione sociale e di riprendere possesso della loro vita concreta, stringendo dei legami con altre persone concrete, cominciano ad emergere i conflitti e si scopre che un sistema di produzione di questo tipo ammette solo una dedizione totale".
Ma se la nuova frontiera elettronica è davvero così invivibile, da dove nasce il mito?
"La retorica della frontiera elettronica può essere spiegata in vari modi. Da un lato il ritorno di un'ideologia pionieristica tipica dell'immaginario americano, di cui anche la controcultura californiana degli anni Sessanta e Settanta era imbevuta. Dall'altro lato lo sforzo deliberato dell'industria elettronica di abbellire con qualche svolazzo filosofico le nuove esigenze produttive. Infine c'è da dire che il ciberspazio è davvero un luogo affascinante, pieno di nuove opportunità. Basta non farsi abbagliare, restare con i piedi per terra e prenderlo per quello che è: un mercato come un altro, con tutti i suoi pregi e difetti, i suoi vantaggi e le sue trappole".
Dominare la rete e non farsi dominare, dunque. Ma come?
"Innanzitutto riconnettendo i due domini, quello della realtà e quello della rete. L'idea di poter trasformare la società basandosi solo sulla comunicazione e non sulla politica è un'illusione pericolosa. La società si regge sulle istituzioni e la rete non può farne a meno: la suggestione individualistica e anarchica portata avanti da molti protagonisti del web, convinti che basti un blog a cambiare il mondo, va sfatata. Andiamo a vedere come sono finite tutte le proteste virtuali organizzate con grandi sbandieramenti contro la guerra in Iraq: risultati zero. Bisogna uscire dall'autismo e dal narcisismo dei bloggers e riconnettere la rete alle istituzioni".
Ma come si fa a dare un ruolo pubblico alla rete?
"Si tratta innanzitutto di uscire dagli spazi virtuali e costruire spazi reali di coscienza civica, in cui includere le reti virtuali come una parte di questa nuova realtà. Se continueremo a rinchiuderci negli spazi angusti della cibercultura, rischiamo di uscire definitivamente dal mondo della politica. E questo significa diventare irrilevanti".

8 gennaio 2007

Aem e Asm fidanzate con poca Letizia

Si ode a Milano uno squillo di tromba, a Brescia risponde uno squillo e la battaglia è servita, con Giuliano Zuccoli nei panni di Filippo Maria Visconti e Renzo Capra del conte di Carmagnola. I preparativi alle nozze Aem-Asm, che sembravano procedere spediti, si stanno incagliando sui nodi del concambio e della governance. Già a partire dalla presentazione del piano industriale della superutility da 9 miliardi di euro - definito dai bresciani «condizione necessaria ma certamente non sufficiente per la conclusione dell' eventuale progetto d' integrazione» - si era capito che la trattativa si stava sfilacciando. Riserve Le riserve di Asm, considerata un' azienda modello nel panorama delle utility italiane, sono soprattutto di tipo gestionale. Pionieri nella termovalorizzazione e nel teleriscaldamento, i bresciani hanno appena conquistato a New York il titolo di «migliore sistema del mondo» nel loro settore, trattando 760 mila tonnellate di rifiuti l' anno e producendo energia per il fabbisogno di 170 mila famiglie, oltre al riscaldamento per 130 mila abitazioni. «Andando a nozze con l' Aem, Asm corre un rischio gravissimo di mettere a repentaglio queste eccellenze», commenta Giulio Sapelli, ex presidente di Meta Modena, rifacendosi alla recente esperienza di fusione con Hera: «Ci vogliono grandi sinergie industriali e compatibilità gestionali per giustificare una fusione del genere, ma soprattutto maggiore chiarezza negli incastri societari». Sapelli si riferisce al problema delle relazioni fra Aem e Edf, che oggi condividono il controllo di Edison, seconda compagnia elettrica italiana. Edison è in mano al 70% di una holding paritetica tra Edf e Delmi, società di cui a sua volta Aem ha il 51% (il resto è spartito fra l' emiliana Enia, l' altoatesina Sel e soci finanziari), ma i francesi hanno anche una partecipazione diretta in Edison del 17%. Per ora la gestione è paritetica, ma in realtà Edf consolida il 50% di Edison e Aem ha, di fatto, poco più del 15. «Per unirsi con Asm - precisa Sapelli - Aem dovrebbe prima liberarsi dalla subalternità a Edf». Tra due anni «È vero che sull' operazione Aem-Asm incombe il nodo della governance di Edison - ribatte Andrea Gilardoni, docente Bocconi ed esperto di gestione delle utility - ma si tratta di un nodo destinato a sciogliersi nel giro di due anni, quando scadranno i patti parasociali alla base dell' alleanza tra Edf e Aem. Proprio per questo le nozze fra Aem e Asm vanno celebrate prima: per gli italiani sarà tanto di guadagnato presentarsi a quella scadenza con le spalle più larghe». Secondo Gilardoni, anzi, l' operazione Aem-Asm è ancora troppo timida: «Queste nozze dovrebbero essere solo il primo passo per arrivare a un' alleanza ancora più vasta, che potrebbe includere anche Hera». Per competere su un mercato dell' energia diventato ormai globalizzato, in pratica, bisogna puntare a costruire una Rwe italiana: «Solo con un peso specifico di quelle dimensioni si raggiungerebbe la massa critica adatta per tener testa alle altre utility europee». E chi mette i bastoni fra le ruote anche a questo primo passo, sostiene Gilardoni, «si assume una gravissima responsabilità nei confronti dei consumatori e del Paese». Più che i bastoni, nelle ultime settimane sono i coltelli che volano. A parte le perplessità dei bresciani, le maggiori difficoltà stanno sorgendo proprio a Milano, sul fronte interno. In casa Aem si respira aria costruttiva e si ribadisce l' intenzione di andare fino in fondo. Ma le discrepanze fra l' approccio del sindaco Letizia Moratti e di Giuliano Zuccoli, presidente e ad di Aem (oltre che presidente di Edison), sono sempre più marcate. Una frattura che pone un problema di governance non indifferente. Su questo tema, la Moratti ha spiegato che l' obiettivo è solo «di essere garanti verso i cittadini per dare loro servizi migliori a prezzi più competitivi». Ma la definizione del peso delle due amministrazioni comunali nella nuova superutility non è un nodo facile da sciogliere, perché la quota di Aem controllata da Milano (43,2%) è ben inferiore a quella di Brescia in Asm (69,2%). Anche se Asm vale complessivamente meno di Aem, l' obiettivo di un concambio alla pari resta lontano da raggiungere: nelle condizioni attuali, Brescia verrebbe a detenere nel nuovo gruppo una quota del 28%, mentre Milano avrebbe il 25%. E a Milano c' è già chi teme questo squilibrio in termini di controllo: «Non finiremo mica per farci governare dai bresciani?» Difficile rispondere a queste pretese campanilistiche con un neutro: governerà chi è più bravo e offre maggior valore aggiunto agli utenti. Incorporazione Il problema si potrebbe evitare con l' incorporazione in Aem del ciclo idrico (MM) e dei rifiuti (Amsa), in modo tale da creare massa e da rendere i modelli di business delle due società più compatibili. Ma anche questa operazione incontra notevoli difficoltà: il ciclo idrico è stato già escluso dal perimetro della fusione, mentre l' Amsa dovrebbe essere incorporata nelle prossime settimane. Basterà? Sul fronte della governance la scelta sembra indirizzata verso il sistema dualistico alla tedesca, con la presidenza del consiglio di sorveglianza a Renzo Capra e la presidenza del consiglio di gestione e il ruolo di ad a Giuliano Zuccoli. Ma sulle cariche operative girano già anche altri nomi, come quello dell' ad di Fastweb Stefano Parisi, ex direttore generale di Confindustria. E non c' è dubbio che proprio su questo punto potrebbe incagliarsi tutto il meccanismo. A meno che i due sindaci, Letizia Moratti e Paolo Corsini, non riescano a prendere per le corna il toro che sta già scappando.

7 gennaio 2007

Counterculture to cyberculture

Le pagine sono ingiallite, piene di indirizzi e numeri di telefono ormai inutili, infarcite di prodotti caduti in disuso, pervase da un afflato ideale dal sapore antico. Ma il "Whole Earth Catalog" - particolarmente nella sua ultima versione del '71 ("The Last Whole Earth Catalog"), che ha venduto un milione di copie e vinto il National Book Award - potrebbe essere la via più diretta per capire il Web 2.0. Che c'entrano le giacche di renna stile cowboy, i libretti d'istruzioni per allevare api o coltivare marijuana, con le ultime sfide tecnologiche del ventunesimo secolo? Che legame può esistere fra Internet, nata dai laboratori del ministero americano della Difesa, e l'idealismo romantico degli anni Sessanta, profondamente contrario alla modernità e alle sue macchine? Il ponte che unisce l'enciclopedia della controcultura hippy e la moderna rivoluzione cibernetica si chiama Stewart Brand. E' su questa figura chiave del pensiero anarchico e comunitario americano che s'incentra il bellissimo "From Counterculture to Cyberculture" (Chicago University Press) di Fred Turner, direttore del dipartimento di Comunicazione alla Stanford University ed ex giornalista del Boston Globe. Brand e compagni, che negli anni Sessanta avevano sintetizzato lo spirito dei tempi con il loro "Whole Earth Catalog", hanno continuato a tessere la loro rete fra le comuni delle colline a Nord di San Francisco e Silicon Valley fino a ripetere il miracolo nei primi anni Ottanta, con la nascita del Whole Earth 'Lectronic Link (Well), mitico precursore di Internet. Il network elettronico consentiva ai suoi membri di discutere attraverso una forma di messaggistica istantanea tutti gli argomenti che stavano loro più a cuore, dagli sviluppi della tecnologia all'ultimo disco dei Grateful Dead. Facciamo un altro salto di vent'anni ed è facile capire che cosa ne è stato di Well: oggi è il Web 2.0. In questo vasto arco di tempo la figura di Stewart Brand emerge puntualmente al centro degli incroci più interessanti fra utopia e bit, fornendo un contributo decisivo alla visione della tecnologia come uno strumento potenzialmente controculturale. Man mano che i computer diventano più piccoli e flessibili, più diffusi e interconnessi, dal network raccolto attorno al Whole Earth Catalog si sviluppa prima il Whole Earth 'Lectronic Link, poi il Global Business Network, paladino della New Economy, infine la rivista "Wired", Bibbia della comunità open source. E Brand è sempre lì a tirare le fila sulle barricate anti-gerarchiche, impegnato a trasferire gli ideali comunitari dall'utopia sessantottarda alla realtà della comunità peer-to-peer. Non è l'unico, naturalmente. Il matematico Norbert Wiener, il designer Buckminster Fuller, il filosofo Marshall McLuhan gettano le basi teoriche del movimento. E attorno a Brand gravitano altre figure importanti, come il primo direttore di "Wired" Kevin Kelly, lo scrittore Howard Rheingold, la giornalista Esther Dyson. Theodore Roszak, guru della controcultura e dell'ambientalismo americano, diventa un acceso sotenitore della causa degli hacker come simboli del dissenso e dell'antiautoritarismo moderno. Timothy Leary, paladino delle droghe psichedeliche negli anni Sessanta, oggi definisce il pc "l'Lsd degli anni Novanta". John Perry Barlow, paroliere dei Grateful Dead, ha chiamato la comunità virtuale "l'ultimo grido delle comuni di frontiera". Lo stesso Steve Jobs ha creato e promosso Apple presso i suoi fan con l'immagine di un'impresa controculturale. E il motto di Google, "Don't be evil", è un chiaro riferimento agli ideali dei figli dei fiori. Ma il ruolo di Brand è senza dubbio il più centrale, sempre in testa rispetto agli altri per l'intero percorso. E oggi il suo messaggio è sulla bocca di tutti, dalle aule del Congresso ai piani alti delle multinazionali, dagli alberghi di Davos ai testi sacri del management. Lo stesso Turner non è l'unico ad aver esplorato le connessioni fra controcultura e cybercultura. Già un decennio fa il sociologo Mark Dery aveva suggerito nel suo libro "Escape Velocity" che la rivoluzione dei pc poteva essere chiamata anche "Counterculture 2.0". Un'altra versione della stessa storia è stata scritta da John Markoff - giornalista del New York Times famoso per una serie di articoli sulla caccia e la cattura del famoso hacker Kevin Mitnik - in "What the Dormouse Said: How the 60th Counterculture Shaped the Personal Computer" (Viking). E perfino in Italia Enrico Beltramini si è cimentato nell'arte dei paralleli con "Hippie.com" (Vita e Pensiero). Ma l'opera di Turner riesce ad esaurire l'argomento per il rigore straordinario delle argomentazioni e la dovizia di riferimenti e di particolari. Resta da chiedersi, al di là delle origini teoriche, quali sono le conseguenze pratiche di quest'associazione per noi oggi. La prima ricaduta pratica è la velocità. Alla luce di queste motivazioni, risulta molto più comprensibile il ritmo frenetico dell'innovazione nel mondo peer-to-peer. E' chiaro che diventa più facile innovare se alla base c'è una passione utopistica, non solo un generico desiderio di successo. Guidati da un ideale collaborativo, diventa più facile mettere in rete gratuitamente il proprio software. E se alla fine qualcun altro riesce ad arrivare più lontano utilizzando le nostre risorse non ci si sente defraudati. Con alle spalle un network di questo tipo, si fa meno fatica anche superare la perdita delle vecchie sicurezze: l'uomo nuovo uscito dal terremoto della New Economy non si aspetta più una vita tranquilla, da dipendente della stessa corporation dalla culla alla tomba, ma una storia professionale frammentata e flessibile, sempre in movimento, dentro e fuori da progetti e team temporanei, in un processo di constante auto-educazione. Cambiando l'ambiente imprenditoriale, cambia di conseguenza anche il ruolo del governo, cui viene affidato sempre più il ruolo di regolatore in questa ondata di liberalizzazioni. Trasformazioni che conosciamo già, ma lette attraverso la storia di Stewart Brand prendono un sapore diverso, un vago aroma di cannabis...