20 febbraio 2007
Nuove tecnologie al servizio del pianeta
Per quanto tempo ancora avremo energia? Dipende da come la utilizziamo. Su questo concetto si fondano le campagne per il risparmio energetico del governatore della California Arnold Schwarzenegger e le "lenzuolate" del ministro Pier Luigi Bersani, le ricerche della Toyota sui veicoli ibridi e il boom delle fonti energetiche rinnovabili. In tutti questi campi, l'innovazione tecnologica ha dato e darà un contributo chiave allo sviluppo sostenibile del pianeta. Le imprese, gli enti locali e le associazioni impegnati nella riduzione dei consumi energetici, fanno ampio uso di mezzi informatici per conseguire i propri obiettivi e monitorare i risultati.
Nell'ultimo decennio, l'introduzione di tecnologie digitali ha portato a progressi spettacolari sul fronte dell'efficienza energetica, sia nel campo della produzione elettrica che in quello dei trasporti. La progressiva sostituzione delle vecchie centrali a olio combustibile e a gas con le nuove a ciclo combinato, che producono elettricità insieme a calore, ha portato a un raddoppio dell'efficienza e a un dimezzamento delle emissioni. Lo stesso processo è in corso nell'industria automobilistica, che sforna veicoli sempre più sofisticati, come le auto ibride, in grado di abbassare moltissimo i consumi alternando automaticamente il motore a scoppio con quello elettrico. Ma è nel settore della domotica che l'ICT applicata all'energia ha segnato una vera e propria rivoluzione dei consumi. L'architettura bioclimatica, che si sta affermando soprattutto in Germania, in Francia e nel Regno Unito, ma comincia a far capolino anche in Italia, ha bisogno delle tecnologie informatiche per coordinare i vari sistemi di riscaldamento e raffrescamento.
In Italia si consumano circa 185 milioni di tonnellate di idrocarburi all'anno, 10 litri al giorno pro-capite. Questo fabbisogno è coperto per l'85% da importazioni, con una spesa di 11,7 miliardi di euro, che grava sulla nostra bilancia commerciale. Di tutti gli idrocarburi bruciati in Italia, 28 milioni di tonnellate sono da attribuire agli usi residenziali delle famiglie, corrispondenti al 16% del totale. Il riscaldamento a sua volta rappresenta la voce di gran lunga più pesante sui consumi energetici delle famiglie (68%) e costituisce oltre la metà delle spese di gestione per la casa degli italiani. Inoltre, mentre il totale nazionale dei consumi energetici mostra tassi d'incremento minori all'1% annuo, il settore residenziale aumenta i propri consumi del 2%, con una progressiva perdita di efficienza.
Per il riscaldamento si bruciano ogni anno circa 14 miliardi di metri cubi di gas, 420mila tonnellate di gasolio, oltre a 2,4 milioni di tonnellate di combustibili solidi, soprattutto legna e un po' di carbone. Così facendo si riversano nell'aria 380.000 tonnellate di sostanze inquinanti, come ossidi di azoto e monossido di carbonio. Dopo il traffico, il riscaldamento è la maggiore causa d'inquinamento delle nostre città. Le caldaie sono responsabili del 20% circa delle emissioni di PM10 in una città come Milano, molto di più nei mesi freddi d'inverno. Oltre alle sostanze propriamente dette inquinanti, con il riscaldamento si riversano nell'atmosfera tonnellate di anidride carbonica (CO2), sostanza che contribuisce all'effetto serra. La combustione di un litro di gasolio produce circa 2,65 kg di CO2. Ciò vuol dire che una casa di 200 metri quadri che consuma 30 litri di gasolio al metroquadro in un anno butta in atmosfera quasi 8 tonnellate di CO2. L'Italia con l'adesione al protocollo di Kyoto si è fissata obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 del 6,5% entro il 2012 rispetto ai valori registrati nel 1990. Ma per ora le emissioni italiane di CO2 non accennano a diminuire, al contrario continuano ad aumentare.
Gli edifici italiani presentano uno dei maggiori consumi specifici per metro al giorno, a parità di temperatura. Questo significa che il nostro patrimonio residenziale è tra i più inefficienti d'Europa. In pratica, è chiaro che il processo di riscaldamento e raffrescamento non è gestito correttamente. Lo spazio per migliorare, dunque, è molto ampio.
Nella casa intelligente l'automazione, le tecnologie per il risparmio energetico e per la comunicazione si sposano per ottimizzare le sinergie tra i sistemi e per ottenere il massimo comfort rispettando l’ambiente. Nella realizzazione dell’edificio bioclimatico si presta particolare attenzione ai materiali impiegati e alla coibentazione. I climatizzatori a pompa di calore - che sfruttano la differenza di temperatura del sottosuolo per scaldare e raffrescare gli ambienti - provvedono sia al riscaldamento invernale sia alla climatizzazione estiva. Il principio di funzionamento della pompa di calore e la gestione autonoma di ogni singola macchina consentono un risparmio energetico del 40-45% rispetto agli impianti tradizionali. Una pompa di calore produce anche l'acqua calda sanitaria a temperatura di utilizzo, risparmiando fino al 50% sui consumi rispetto ad altri sistemi. Se poi si aggiunge un impianto solare e fotovoltaico sul tetto, tutta l'energia necessaria alla vita quotidiana, compresa quella per l'illuminazione e gli elettrodomestici, viene generata sul posto e il sistema diventa completamente autosufficiente. L'abbinamento di questi impianti con dispositivi di controllo e programmazione dà come risultato una casa energeticamente molto efficiente, che si adatta con flessibilità alle esigenze sempre variabili dei suoi abitanti.
In questo tipo di edifici l'automazione non viene solo concepita come l'applicazione di una serie di apparecchiature per "motorizzare" porte, tende e illuminazione, ma si cerca di privilegiare il concetto di controllo, di comunicazione e d'integrazione tra i sistemi. La presenza di tecnologie digitali rende la casa facile da gestire e soprattutto aperta alle continue innovazioni. La combinazione di calore terrestre, solare termico ed energia fotovoltaica con i più moderni componenti per facciate e la distribuzione dell'energia all'interno degli edifici consente già ora di fornire l'approvvigionamento energetico necessario a un'abitazione di circa 200 metri quadri semplicemente mediante l'impiego di energie rinnovabili. 8 tonnellate all'anno di CO2 risparmiate.
5 febbraio 2007
Guerra degli acquedotti: attacco alle privatizzazioni
La battaglia per l' acqua diventa sempre più politica. «L' acqua è come l' aria, è un bene comune e non va privatizzato», dice il ministro dell' Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, inserendosi nella guerra in corso fra Rifondazione e la Margherita sul ddl Lanzillotta di liberalizzazione dei servizi locali. «Ma a differenza dell' aria - spiega più pacatamente Mauro D' Ascenzi, presidente di Federutility - l' acqua non arriva da sola nelle case, dev' essere incanalata e depurata con massicci investimenti in infrastrutture che costano molti soldi. O ce li mette lo Stato o si deve consentire a società industriali, pubbliche o private che siano, di organizzare un servizio secondo criteri di produttività ed efficienza. Per fare questo, però, mancano i margini: le tariffe italiane sono le più basse d' Europa». S' innesca così un circolo vizioso: il servizio costa poco per cui è scadente, ma proprio per questo non si può far pagare di più. E via con l' acqua minerale, di cui noi italiani siamo i maggiori consumatori d' Europa. Giocando sull' equivoco tra la materia prima acqua, che appartiene per legge al demanio pubblico, e la gestione delle infrastrutture che la trasportano, si può arrivare molto lontano. Nichi Vendola è arrivato ad affidare l' Acquedotto Pugliese, il più grande d' Europa, al guru dell' acqua «bene comune» Riccardo Petrella, salvo poi dimissionarlo a fine anno per manifesta incapacità gestionale, ma ribadendo nel contempo «l' immutata mission dell' Acquedotto Pugliese, ovvero la pubblicizzazione dell' acqua, così come previsto anche nel programma elettorale della coalizione di governo». Sulle barricate dell' «acqua pubblica» e gratuita, Vendola si trova in buona compagnia: da Franco Giordano a padre Alex Zanotelli, dall' Arci alle Acli, dall' Associazione Italia-Nicaragua alla diocesi di Termoli, da Mani Tese alla Rete Lilliput, dal Wwf a Pax Christi, dalla Fiom ai Cobas. Tutti insieme nel comitato promotore del progetto di legge d' iniziativa popolare per la «ripubblicizzazione dell' acqua», che viene proposto in questi giorni all' attenzione degli italiani con migliaia di banchetti. Di più. «Basta parole: moratoria subito!» si legge nel sito del Forum italiano dei movimenti per l' acqua, che chiede di bloccare anche i processi di liberalizzazione già in corso, in primis quello di Palermo, dove si è impedito più volte a colpi di blocchi stradali lo svolgimento della gara di affidamento dei servizi idrici provinciali, conclusa faticosamente la settimana scorsa. «Il problema fondamentale - dice D' Ascenzi - è che la gestione tradizionale delle risorse idriche regge un sistema clientelare basato sulla diffusa illegalità, soprattutto nel Sud, dove le reti non a caso fanno acqua da tutte le parti. L' Acquedotto Pugliese, che serve milioni di persone senza far pagare loro un centesimo di acqua e ne impiega migliaia, ai tempi del manuale Cencelli equivaleva a un ministero, tanto era il peso elettorale delle sue clientele». È soprattutto in difesa di questo sistema che a 12 anni dal varo della legge Galli di riforma dei servizi idrici, largamente inapplicata, si ritorna a mettere in discussione i principi della libera concorrenza. E così, mentre in Europa crescono i grandi gruppi specializzati nella gestione efficiente delle risorse idriche - da Veolia a Suez, a Thames Water - in Italia le utility restano frammentate e gestite in economia. Per la gioia dei signori delle autobotti.
Acqua: Milano prima o poi in mani straniere
I consulenti sono al lavoro per raggiungere l' equilibrio fra le partecipazioni azionarie di Milano e Brescia nella grande multiutility del Nord, che si va formando con la promessa di nozze entro l' autunno fra Aem e Asm. Un rompicapo non da poco, visto che Brescia controlla quasi il 70% della sua ex-municipalizzata, mentre Milano solo il 42,2% della sua. «La soluzione migliore - spiega Luigi Prosperetti, economista della Statale e consulente del primo governo Prodi sulla liberalizzazione dei servizi pubblici locali - sarebbe l' incorporazione nella nuova società anche della gestione dei rifiuti e del ciclo idrico milanese, che darebbe più peso al Comune nella fusione e maggiore omogeneità alle attività delle due utility». Prosperetti era vice presidente di Aem quando fu avviata la sua privatizzazione, nel lontano ' 93, e fin da quel momento aveva caldeggiato insieme a Marco Vitale, allora assessore al Bilancio, l' incorporazione del ciclo idrico in Aem. Quattordici anni dopo A quattordici anni di distanza si continua a parlarne, malgrado la rapida evoluzione del quadro competitivo a livello nazionale ed europeo. Oggi si tratterebbe di trasferire a un' azienda quotata la proprietà di due Spa a capitale interamente pubblico: l' Azienda Milanese Servizi Ambientali (Amsa) e la Metropolitana Milanese (MM), cui la giunta Albertini ha affidato nel 2003 la gestione del ciclo idrico. «Speriamo che stavolta il sindaco Letizia Moratti ce la faccia», si augura Prosperetti. Ma non sembra probabile. A livello comunale infuriano le accuse di voler «privatizzare l' acqua». E i gendarmi comunitari della concorrenza non vedrebbero certamente di buon occhio, oggi, un conferimento del ciclo idrico senza gara. Lanfranco Senn, economista della Bocconi e nuovo presidente della Metropolitana Milanese, se ne rammarica. Cicli Si è perso molto tempo? «Troppo. Oggi l' assegnazione del ciclo idrico ad Aem senza metterlo in gara sarebbe impensabile. E al di là delle risse ideologiche che ne deriverebbero, mettendo sul mercato l' acqua di Milano, considerata un fiore all' occhiello delle utilities italiane, non è affatto detto che l' Aem vinca la gara». Del resto le gare si fanno apposta perché vinca il migliore... «Il problema è che ormai siamo entrati in un circolo vizioso. Da un lato è evidente che i servizi locali dalla gestione privata hanno tutto da guadagnare: così si evitano, almeno in parte, le faide di carattere personale, le appartenenze ideologiche, le protezioni clientelari tipiche del pubblico. I privati sono molto più bravi ad applicare la best practice nella gestione: le economie di scala, il controllo di qualità, la selezione del personale, il livello del management sono quasi sempre migliori. Quindi per gli utenti il cambio è vantaggioso e alla lunga è lì che andremo a parare, alla privatizzazione». E allora perché non farla subito? «Ci sono ostacoli politici e c' è appunto il circolo vizioso di cui parlavo. Se è vero che il punto d' arrivo è la privatizzazione, è anche vero che in Italia abbiamo perso una ventina d' anni per far crescere dei player capaci di competere a livello europeo e globale. Mentre noi dormivamo, i francesi, gli inglesi e i tedeschi andavano avanti. Ora giocano sulle eccellenze che hanno sviluppato e sono capaci di muovere grandi interessi finanziari: le banche scommettono su di loro, non su di noi. In Italia non è remunerativo scommettere sulle utility e così mancano fondi per fare investimenti. Insomma, tutto il sistema è bloccato. C' è poco da stupirsi, poi, se sono sempre loro a vincere le gare». Lei mi sta dicendo che non possiamo mettere i nostri servizi locali sul mercato perché finirebbero per essere mangiati dai francesi o dai tedeschi? E quindi, dopo aver perso vent' anni nelle dispute ideologiche, ora ne perdiamo altri venti perché gli altri sono diventati più bravi di noi? «In pratica, oggi il problema da porsi è: arrivati a questo punto, la strada per la riqualificazione dei servizi passa attraverso fasi o bisogna fare un salto?» Me lo dica lei... «Dal punto di vista giuridico, la privatizzazione non è strettamente necessaria. Ma è anche vero che se non diamo uno scossone la via all' efficienza sarà molto lunga...». Quindi? «Il primo passo è politico. Per noi esperti è facile indicare la strada, ma è la politica che deve tradurre la teoria in pratica. Il caso del ddl Lanzillotta è un classico esempio di un Paese che fa ancora dell' ideologia il criterio delle sue scelte. L' esclusione dell' acqua dalle liberalizzazioni dei servizi locali è un passo anacronistico, un cedimento politico che ci costerà caro. Inglesi, tedeschi, francesi e perfino gli spagnoli sono più pragmatici. Per riuscire a competere sul piano internazionale, bisogna uscire dall' approccio ideologico e far crescere un approccio pragmatico alla gestione del patrimonio pubblico». Come risolvere questo blocco? «Bisogna sfatare il mito del privato assetato di guadagni e dedito di principio al ladrocinio. È evidente che l' acqua è un bene pubblico e devono averla tutti, così come l' energia devono averla tutti. Ma non è detto che un ente pubblico sia più efficace di un privato a soddisfare questa legittima esigenza dei cittadini, così come non è detto che lo sia per l' energia, per il gas, per il telefono, per i treni o per gli aerei. Capisco che sull' acqua possa insorgere qualche timore in più, ma basta mettere in piedi dei contratti di gestione fatti bene, sotto rigoroso controllo pubblico, per garantire a tutti che al centro del processo ci sia l' interesse dell' utente». Ora però lei non è più solo un esperto, ha anche un incarico operativo... «Sempre all' interno di un' azienda che è al cento per cento del Comune di Milano». Avrà ben riflettuto sulle linee strategiche da prendere... «Per dare un ritorno agli investimenti, bisogna alzare il livello della gestione. Ed è quello che cercheremo di fare. Ma la buona volontà a livello locale non basta. È Roma che deve darsi il più velocemente possibile un percorso pragmatico che ci consenta di crescere a livello di sistema, come hanno fatto gli inglesi e i francesi. Altrimenti sarà inutile lamentarsi se l' acqua di Milano passerà prima o poi in mani straniere».
Acqua: in Puglia via alla ri-pubblicizzazione
Dice: «Il mio Acquedotto Pugliese nasce sotto la bandiera della ri-pubblicizzazione e finché sarò presidente, la privatizzazione non si farà». Da oggi Nichi Vendola mette Ivo Monteforte ad agitare quella bandiera. Un bel salto. Dopo le dimissioni di Riccardo Petrella, docente di Mondializzazione all' Università Cattolica di Lovanio e illustre no-global dell' acqua, la presidenza del più grande acquedotto d' Europa, il terzo del mondo, viene affidata all' ingegnere idraulico Ivo Monteforte, direttore generale dell' Azienda Servizi di Pesaro. La ri-pubblicizzazione del gigantesco ente - che attraversa quattro regioni con 20 mila chilometri di tubi ed è diventato società per azioni nel ' 99, grazie a un mutuo ventennale di 392 miliardi di lire a carico dello Stato, concesso dal governo D' Alema - è stata il cavallo di battaglia elettorale del governatore. Appena eletto, nell' aprile 2005, Vendola ha fatto il bel gesto di affidare la presidenza a Petrella, con il mandato di mettere fine alla «gestione economicistica» dell' industriale della pasta Francesco Divella, chiamato a gestirlo dall' allora governatore di centro-destra Raffaele Fitto, nella prospettiva di una futura privatizzazione. Ma il professore no-global, che doveva fare marcia indietro, si è scontrato con qualche difficoltà. «L' Acquedotto Pugliese è un colabrodo», spiega Renato Scognamiglio, l' amministratore delegato che ha combattuto per quasi un anno e mezzo con le manie ideologiche di Petrella e alla fine si è dimesso anche lui per incompatibilità con l' impostazione del governatore. «In Puglia - precisa Scognamiglio - c' è una crisi idrica macroscopica e metà dell' acqua che raccogliamo va persa: bisogna avviare un enorme intervento per la ricerca delle perdite e per la riabilitazione delle reti. Ed è quello che ho cercato di fare, con un intervento da 150 milioni di euro, che avrebbe potuto ridurre le perdite della metà». Ma Petrella era fissato con la ri-pubblicizzazione dell' ente. «Ri-pubblicizzare - è la tesi del guru dell' acqua intesa come "bene comune" - significa che non solo la proprietà delle infrastrutture e delle reti deve essere pubblica, ma lo deve essere anche la gestione dei servizi idrici. Pertanto, se la gestione è stata affidata a un soggetto di natura giuridica privata, quale una società per azioni, come è il caso dell' Acquedotto Pugliese, ripubblicizzare implica dare la gestione dell' acqua a un soggetto di natura giuridica pubblica. Non sono riuscito, in diciotto mesi, a far accettare dalla Regione Puglia l' idea di costituire un gruppo di lavoro incaricato di esaminare e proporre delle soluzioni». Pari e patta. «Resta ancora da chiedersi - commenta Scognamiglio - come si fa a uscire dalla logica clientelare degli investimenti senza svincolarsi dalla longa manus degli enti locali. Duole dirlo, ma nel corso di questi diciotto mesi il principale impedimento a una corretta gestione del patrimonio pubblico è venuta proprio dalle "lista della spesa" dei Comuni: da un lato chiedono investimenti per favorire questo o quel politico locale, dall' altro nessuno tappa le falle vere e d' estate l' acqua arriva a singhiozzo nelle case». Il vero problema, paradossalmente, è abbandonare la caccia al contributo pubblico. «Nessuno si pone il problema - fa notare amareggiato Scognamiglio - se un certo lavoro serve agli utenti». Incanalare l' acqua è molto più difficile che incanalare i fondi.
Acqua: in Sicilia rivolta anti-sabauda
In principio c' era la siccità. Siccità per modo di dire: la Sicilia dispone di una trentina d' invasi con la capacità di almeno un miliardo di metri cubi d' acqua. Ognuno dei suoi 5 milioni di abitanti potrebbe farci lunghe abluzioni. Ma ci sono invasi senza condotte, condotte senza invasi, autorizzazioni che mancano, collaudi parziali, tanto che una parte dell' acqua raccolta viene scaricata direttamente in mare. Fatto sta che nel 2002 Palermo rimane quasi completamente senz' acqua per un mese intero. Cattedrale occupata, guerriglia per le strade. Per l' emergenza idrica ci vuole un commissario, nella persona del governatore Totò Cuffaro. Ma Cuffaro non è solo: la struttura organizzativa è formata da 62 componenti, di cui 47 a tempo pieno, per non parlare dei consulenti e della commissione tecnica. In complesso, gli enti siciliani che si occupano di raccogliere e distribuire l' acqua, in parte commissariati o in liquidazione, sono una miriade: Eas, Esa, genio civile, consorzi di bonifica, enti locali e via enumerando. Tutti pubblici. Ma l' erogazione a giorni alterni continua a essere normale. «La popolazione siciliana in generale soffre della mancanza d' acqua, ma continua a prevalere una minoranza che vuole mantenere le cose come stanno, perché su queste disfunzioni si basa una fiorente economia collaterale», spiega Paolo Romano, ad della Società Metropolitana Acque Torino e anche di Acque Potabili (controllata da Smat insieme all' ex municipalizzata di Genova), che si è appena aggiudicata per 30 anni la gestione del servizio idrico nella provincia di Palermo, dopo un anno di barricate. «Noi però - fa notare con lieve accento sabaudo, che certo non lo aiuterà nella sua missione - vogliamo superare le disfunzioni, con una serie d' interventi infrastrutturali molto rapidi, anche grazie a 130 milioni di fondi europei che stavano per perdersi a causa dei ritardi nell' affidamento». Non sarà facile recuperare la situazione: nell' ottantina di Comuni che Acque Potabili andrà a servire, ce ne sono molti dove l' acqua esce dai rubinetti non più di un paio di volte alla settimana, con perdite del 50-60%, che spesso dipendono da allacciamenti abusivi. «Cercheremo di correggere morosità e abusivismi - precisa Romano - perché la nostra è una finalità imprenditoriale. Ma è sbagliato dire che siamo "dei privati": Acque Potabili è pubblica al 70% e Smat al 100%. Abbiamo un piano industriale da oltre 850 milioni di euro, di cui quasi 300 nei primi 5 anni, che realizzeremo mantenendo la tariffa media d' ambito attorno a 1,2-1,3 euro al metro cubo, com' è oggi». Strano. Nel suo grido di guerra contro l' invasore piemontese, combattuto a colpi di blocchi stradali che hanno impedito più volte lo svolgimento della gara, il padre comboniano Alex Zanotelli scrive a tutti i sindaci: «A Palermo si rischia di trasformare un bene così essenziale come l' acqua in merce» e ancora «per la nostra gente vuol dire che le bollette dell' acqua cresceranno del 100 o 200% e a chi si rifiuta di pagare verrà tagliata l' acqua». «Per questo le chiediamo - scrive Zanotelli - che quando i sindaci della provincia di Palermo si riuniranno lei si opponga alla privatizzazione dell' acqua in corso e voti a favore dell' acqua pubblica gestita da una società a totale capitale pubblico sotto l' occhio vigile dei cittadini». Che dire? Sarà sicuramente molto dura.
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