26 marzo 2007
Operatori telefonici contro Internet providers
Per il riassetto di Telecom Italia si augura l' ingresso di azionisti lungimiranti, al governo rivolge la critica di prendere provvedimenti che alla fine rischiano di ritorcersi contro i cittadini. Elserino Piol, pioniere della concorrenza nelle telecomunicazioni, non risparmia critiche a nessuno. I soggetti interessati a Telecom Italia ormai sono una miriade, dai partner stranieri, industriali o finanziari, agli italiani, da César Alierta a Roberto Colaninno, da Intesa SanPaolo a Deutsche Bank. Su quale scommette? «Il problema non è chi, ma come. Chiunque decida d' investire i propri soldi in Olimpia, deve mettersi calmo e guardare al lungo periodo: se si continua a spremere il limone come si è fatto finora, si rischia di farlo seccare». Piol, partito giovanissimo subito dopo la guerra da un paesino del Bellunese per fare l' operaio in Olivetti, dove ha anche perso due dita al tornio, si è fatto largo in fretta a Ivrea e ha giocato un ruolo chiave nell' apertura del mercato delle telecomunicazioni, disegnando le strategie di Carlo De Benedetti nel settore, come primo presidente sia di Omnitel che di Infostrada. Da quando è uscito da Olivetti come vicepresidente, nel ' 96, si occupa a tempo pieno di venture capital sui versanti più innovativi, con la sua Pino Partecipazioni. Ora, dopo il passaggio delle consegne in Elitel, si gode una meritata vacanza. Ma è già pronto per nuove battaglie. Qual è il fronte più caldo? «Le compagnie telefoniche vanno incontro alla concorrenza sempre più agguerrita delle Internet company, che stanno convergendo sulla telefonia, e dovranno affrontare grossi investimenti nella banda larga per competere in maniera efficace: se Telecom Italia sarà costretta a incanalare i suoi utili nelle tasche degli azionisti per far fronte alla loro pesante situazione debitoria, come sta facendo adesso, dove andrà a recuperare le risorse finanziarie per investire nella banda larga?» Potrebbe vendere i gioielli che ha in Brasile o in Germania per finanziare i nuovi investimenti. «Ma sarebbe una follia: l' internazionalizzazione è indispensabile per crescere e andrebbe semmai ampliata, non tagliata». Niente di meglio dell' ingresso di un partner estero, allora? «Dipende: se il partner è interessato solo alle operazioni estere piuttosto che alla compagnia nel suo complesso, come Telefonica, si rischia di fare un buco nell' acqua». E quindi? «Paradossalmente, meglio un partner pronto a impegnarsi pesantemente in prima persona che una partecipazione marginale: tra un partner straniero che entra al 20%, condizionando comunque la strategia, e un altro che vuole fondersi, sarebbe preferibile il secondo». Scenari ipotetici... «Ipotetici ma importanti per capire qual è la discriminante di fondo. Sostituire gli azionisti senza cambiare la strategia non servirà a nulla: finché dovrà farsi carico del debito di Olimpia, Telecom Italia combatterà la sua battaglia con un braccio legato dietro la schiena. Per ovviare a questo problema, chiunque entri nell' azionariato deve avere un orizzonte di lungo periodo. Un fondo di private equity, ad esempio, potrebbe andare benissimo. O un altro player disposto a impegnarsi a fondo sul lungo periodo. Gli attori di questa commedia devono prendere atto della grande ebollizione cui sta andando incontro il mercato». Le sembra che l' ex monopolista non sappia difendersi da solo? «Telecom Italia è un' azienda sana, non tanto diversa dagli altri player europei, ma ha un grosso handicap: il debito di Olimpia. Deve poter combattere senza handicap. Solo così potrà diventare il nuovo polo di aggregazione delle tecnologie portanti per il Paese. Dopo la scomparsa di Olivetti non c' è più nessuno che svolga questo ruolo, di driver per l' innovazione e lo sviluppo. E si vede». Cioè? «L' Italia manca di centri tecnologici. Manca di centri di sviluppo di sistemi. Se solo le piccole e medie imprese potessero accedere al database di Telecom Italia per comprare software on demand su alcune applicazioni, tanto per fare un esempio, questo metterebbe in moto un circolo virtuoso di non poco conto. Anche le altre compagnie, alla lunga, cercherebbero di sfruttare questo mercato, mettendo in circolazione nel Paese una ricchezza tecnologica di grande valore». Ma il governo sta lì apposta per mettere in moto circoli virtuosi di questo tipo. O no? «Al governo manca completamente la consapevolezza dello scenario competitivo. Sembra quasi che chi agisce sul fronte delle tlc non abbia presente il panorama complessivo di mercato». Faccia un esempio. «Prendiamo il taglio ai costi di ricarica. In pratica si tratta di un intervento governativo sulla composizione delle tariffe, che non darà certamente una spinta alla concorrenza, ma semmai il contrario: compagnie come Wind o 3 rischiano di essere spazzate via da queste restrizioni. Se non ci saranno abbastanza risorse per sviluppare la banda larga, la concorrenza rischia di essere penalizzata. Così, alla lunga finiremo per ottenere l' effetto contrario: invece di scendere, le tariffe saliranno». E la portabilità del numero? «Anche qui, non bisogna limitarsi a vedere solo i due grandi protagonisti in campo, Vodafone e Telecom Italia: quali saranno gli effetti di questa limitazione, alla lunga, sugli operatori più piccoli?» Altri esempi? «La riforma dei tetti pubblicitari. Guardando un pò più in là, va calcolata anche l' incidenza sul mercato delle Internet company, che si basano quasi completamente sulla pubblicità: allora ci si accorge che il business pubblicitario non sta crescendo abbastanza in fretta per supportare anche loro. In pratica, questo fronte cresce in sottrazione rispetto a quello che c' è già, non in aggiunta. E allora che senso ha la fissazione di tetti pubblicitari ancora più restrittivi?» Insomma, il governo non ne fa una giusta? «Sulle questioni importanti, è latitante. Si parla tanto di WiMax, ma continuano a mancare le regole e quindi il mercato non si sviluppa. Eppure è da anni ormai che tutti gli operatori del settore chiedono una regolamentazione chiara delle frequenze». Per lanciare un dibattito su questi temi, si è perfino imbarcato, per la prima volta in vita sua, nella pubblicazione di una nuova rivista, Release, che comincerà a uscire alla fine di marzo. Servirà? «Lo spero proprio. Non è possibile che in Italia si faccia un gran parlare dei dettagli irrilevanti e si ignorino le questioni serie: fra i costi di ricarica dei telefonini e le regole per la banda larga sul mobile, qual è la questione più importante? La seconda naturalmente. Ma regolatori e ministri parlano solo della prima».
19 marzo 2007
Il risveglio globale dell'atomo
A trent' anni dal referendum che ha messo la parola fine al contrastato sviluppo di un comparto nucleare made in Italy, si manifestano anche da noi, come nel resto dell' Europa antinuclearista, i primi segnali di risveglio. L' Enel, dopo aver comprato quattro reattori in Slovacchia, sta per metterne in cantiere altri due, con un investimento da un miliardo e mezzo, e viene riaccolta così nella World association of nuclear operators, da cui era uscita. Le gare d' appalto sono imminenti e tutta la costellazione dei nuclearisti italiani - da Ansaldo Nucleare ad Ansaldo Camozzi, da Sogin a Techint - ha un piede sull' acceleratore. Nell' opinione pubblica, intanto, si fanno largo i primi ripensamenti sull' opportunità di privare ancora a lungo il nostro Paese, unico fra i grandi del mondo, di questa fonte di energia così importante, che copre il 28 per cento dei consumi elettrici europei. Così come gli svedesi, che avevano deciso di fermare tutte le centrali nel 2011 ma ora hanno cambiato idea e si apprestano a potenziarle, anche il 56 per cento degli italiani si è dichiarato favorevole, in un recente sondaggio, a un ritorno al nucleare sul nostro territorio. «Paradossalmente, è l' opinione pubblica europea a trainare i politici in questa direzione», spiega Alessandro Clerici, presidente onorario del World energy council in Italia e responsabile del gruppo di lavoro europeo sul ruolo del nucleare. Sia nei Paesi dove la corsa al nucleare è già ricominciata, come in Francia, in Finlandia, in Slovacchia o in Romania, sia dov' è ancora ferma come in Germania, la principale motivazione addotta dai cittadini favorevoli all' atomo è la sua sostenibilità ambientale, molto maggiore delle fonti fossili. «Chiunque voglia combattere l' inquinamento e l' effetto serra - commenta Clerici - non può prescindere dal nucleare, una fonte priva di emissioni e al tempo stesso competitiva con i combustibili fossili». Per di più l' utilizzo massiccio di petrolio e gas, praticato in Italia per compensare la mancanza del nucleare, ci espone a un' estrema volatilità dei prezzi e a una grave dipendenza da Paesi tutt' altro che amichevoli. Le riserve dell' opinione pubblica non sono più concentrate sul pericolo di gravi incidenti, come ai tempi di Chernobyl, ma sul problema del collocamento delle scorie più radioattive, quelle che non possono essere riprocessate. «Nessuno si rende conto, però, che questo tipo di scorie ha un volume molto ridotto e quindi non ha senso pensare a depositi Paese per Paese: bisogna individuare un certo numero di siti europei, in grado di ospitare anche le scorie dei Paesi più piccoli, come ad esempio la Slovenia o la Croazia, che hanno una piccola centrale in comune e in teoria dovrebbero costruire ognuna un mini-cimitero nucleare: assurdo», fa notare Clerici. Dal rapporto del Wec, che servirà anche alla Commissione Europea come base per la futura politica energetica continentale, emerge chiaramente che le potenzialità del nucleare potranno essere sfruttate al meglio solo rafforzando la collaborazione europea e applicando economie di scala all' interno dei singoli Paesi. «Abbiamo messo attorno a un tavolo tutti i maggiori operatori del settore e abbiamo concluso che la nuova generazione di reattori, di cui si sta già costruendo il primo esemplare in Finlandia, sarà ancora più competitiva della vecchia - precisa Clerici - soprattutto se produttori e grandi consumatori riusciranno a consorziarsi fra di loro per firmare contratti di lungo periodo, che abbattano il rischio dell' investimento iniziale». Com' è successo in Finlandia. Calcolando i costi di una centrale di terza generazione come quella in costruzione a Olkiluoto, dalla nascita alla morte, compreso il tasso interno di rendimento che va conteggiato per ogni investimento operato in regime di libero mercato, si arriva a un prezzo dell' elettricità a bocca di centrale di 3 cent a kilowattora, contro i 7 della media italiana. Su questi numeri va calcolato il taglio secco che il nucleare porterebbe alla nostra bolletta elettrica. «Ma attenzione - ammonisce Clerici - per parlare di atomo bisogna costruire un sistema, non una centrale sola. Con tre centrali uguali, si risparmia un terzo del costo di un impianto singolo. Il mondo industriale italiano lo sa e questa è la direzione che dovrebbe prendere»
12 marzo 2007
La mia Africa, la mia Olivetti
Il riscatto dell' Africa passa attraverso una rivoluzione informatica. Per Musikari Kombo, ministro keniota degli affari regionali e candidato alle presidenziali di dicembre, è una convinzione che viene da lontano, visto che ha passato gli anni Ottanta a vendere agli africani i primi computer, targati Olivetti. E da quell' epoca gli è rimasta l' abitudine di venire tutti gli anni in vacanza in Puglia, incrociando il flusso dei milanesi diretti a Malindi. «Erano anni difficili - ricorda Kombo - quando in Kenia c' era ancora la dittatura e il livello di conoscenza delle nuove tecnologie era molto basso. Ora le cose sono cambiate». A vederle con gli occhi dell' osservatore esterno, veramente non pare. Ma il ministro cresciuto alla scuola di Adriano Olivetti è un ottimista convinto come quando, nel ' 64, sull' onda dell' indipendenza conquistata da poco, appena diciassettenne era andato a iscrivere i suoi alla nuova anagrafe concepita da Jomo Kenyatta, dando il suo primo nome, Kombo, come cognome per tutti quanti, che secondo la tradizione Bantu non avevano un nome di famiglia. L' ottimismo gli è servito anche in seguito. «Quando ho incominciato a importare computer dall' italia, solo due bambini kenioti su dieci avevano mai messo le mani su un pc, oggi sono almeno sette o otto», precisa. Resta ancora enorme la differenza fra città e campagne: quei sette/otto bambini sono sicuramente dei cittadini. Ecco perché il programma di sviluppo tecnologico del suo ministero è mirato soprattutto alle aree rurali. «Bisogna offrire maggiori opportunità ai ragazzi che non vivono in città - sostiene Kombo - perché possano svilupparsi al meglio senza doversi spostare». Pur essendo un continente ancora rurale, l' Africa, con il suo debito estero di 379 dollari a persona, ha oggi il tasso più alto di inurbamento al mondo (5% annuo) e se le attuali tendenze alla fuga dalle campagne non saranno invertite da nuove politiche di sviluppo del territorio, è destinata a diventare il regno delle bidonville. Se già oggi il 72% dei cittadini africani vive in baraccopoli, il 24% della popolazione urbana non ha accesso all' acqua e il 20% alle fognature, che accadrà se questo fenomeno non verrà rallentato? «Per questo è importante pensare in maniera diversa all' urbanizzazione e alle filiere produttive», ad esempio con la costruzione di nuovi centri urbani piccoli, da realizzare in aree agricole per stemperare la corsa verso le metropoli. L' urgenza di un simile ripensamento discende anche dalle mutazioni climatiche in arrivo: pur essendo il minor consumatore di energia al mondo, l' Africa risulta il continente più esposto alle conseguenze del riscaldamento del clima, anche perché un cittadino su sette dipende da colture legate alle piogge. La riduzione di portata dei laghi Ciad e Vittoria minaccia già oggi l' irrigazione e la produzione di energia in tutta l' Africa centro-orientale. Senza contare i drammi prodotti dall' interazione tra le epidemie: un cittadino keniota su dieci è sieropositivo e di questi otto su dieci hanno anche la tubercolosi. «Certo è una situazione difficile - ammette Kombo - ma non impossibile da risolvere: l' importante è smettere di cercare aiuti dall' estero e cominciare a cercare soluzioni interne. Ai problemi dati dalla colonizzazione, che ci ha lasciati poveri d' infrastrutture produttive e tutti rivolti all' esportazione a basso prezzo delle nostre materie prime, ora si sono aggiunti i problemi dei governi successivi, formalmente indipendenti ma in realtà estremamente dipendenti dagli aiuti occidentali. Basti immaginare che il bilancio keniota è sussidiato al 93% dall' estero. Con tutte le risorse che abbiamo». Risorse difficili da sfruttare per la corruzione rampante che impesta tutta la società, fin nelle transazioni più banali. «La corruzione è uno dei problemi principali da risolvere: per combatterla bisogna liberalizzare, far uscire i pochi servizi che abbiamo dalle mani dei funzionari statali, stimolare la nascita di una nuova generazione d' imprenditori», sostiene Kombo, memore dei suoi esordi imprenditoriali sotto l' egida dell' Olivetti. Basta vedere cos' è successo nella telefonia mobile: «Finché Safaricom (consociata del monopolista statale Telekom Kenya) è stata l' unico provider, i costi erano proibitivi e il servizio disastroso, ma quando è arrivato un secondo provider, KenCell, in sei mesi i prezzi si sono ridotti a un decimo e i cellulari hanno cominciato a diffondersi». Le riforme per incentivare lo sviluppo di un' imprenditorialità innovativa africana, secondo Kombo, sono addirittura più urgenti della soluzione dei problemi strutturali di base, come le ampie aree rurali non cablate e prive persino di energia elettrica, le linee telefoniche carenti (una telefonata dalla Costa d' Avorio al vicino Ghana deve passare per Parigi) o i costi sproporzionati dell' hardware rispetto al bassissimo reddito pro capite dei kenioti. Sbloccati gli ostacoli allo sviluppo della libera iniziativa locale, il resto verrà da sé. E non importa se gli aiuti occidentali arrivano con il contagocce. «I programmi di sostegno nascono e muoiono con chi li ha generati, ma se l' Africa troverà le forze per fare da sola, nessuno potrà fermarla».
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