Internet, cellulari, nanotecnologie, biotecnologie, biocarburanti. Le ondate dell' innovazione, che crea il futuro distruggendo il passato, si susseguono a ritmi sempre più serrati. «Per crescere non si può continuare a fare le stesse cose, solo più intensamente. Spremere profitti sempre più esigui dall' attuale ventaglio di prodotti, servizi e processi è una strategia perdente». Sumitra Dutta, guru indiano dell' innovazione e vice preside dell' Insead di Fontainebleau, non ha dubbi: «Se vogliamo mantenere la nostra prosperità, il sistema produttivo deve puntare a creare qualcosa di nuovo», una tesi già sostenuta nei suoi best seller "The Bright Stuff" e "Embracing the Net". Dutta è una delle pochissime intelligenze asiatiche di punta approdate ai vertici di una business school in Europa continentale, dopo aver sperimentato in prima persona i processi aziendali americani in Schlumberger e in General Electric, oltre alla potenza di fuoco del sistema accademico d' oltreoceano con tre anni d' insegnamento alla Haas School of Business di Berkeley. Ora è molto impegnato nello sviluppo di una politica europea dell' innovazione e presiede il panel Innova della Commissione Europea. La sua ultima fatica si chiama Global Innovation Index, con cui ha cercato di quantificare precisamente la predisposizione dei singoli Paesi all' innovazione.
Con cinque Paesi nella Top Ten e 11 nei primi 20, l' Europa non è messa malissimo, ma resta ben distante dagli Usa nei singoli punteggi...
«Gli americani giocano in una lega a sé stante: godono di un ambiente ideale per stimolare l' innovazione e sono i più bravi a sfruttarla. Con l' eccellenza dei loro istituti di ricerca attraggono le menti migliori dal mondo intero, mobilitano i capitali necessari per mettere a frutto le loro idee e hanno i mercati più efficienti per farli circolare. In più, una massa di consumatori esigenti mantiene le aziende sempre sul chi vive. Malgrado ciò, si vede qualche crepa».
Dopo l' 11 settembre?
«Sì, le misure di sicurezza hanno aumentato la burocrazia e reso il sistema un po' meno fluido, quindi meno attraente. Nel contempo, le economie asiatiche sono molto cresciute e quindi offrono più opportunità alle menti che una volta emigravano per forza. Prendiamo ad esempio la mia classe: su 25 diplomati all' Indian Institute of Technology di Delhi, siamo finiti quasi tutti negli Stati Uniti. Oggi, a distanza di vent' anni, la stessa classe avrebbe destinazioni molto più variegate. In particolare, per quelli che vogliono sapere dove va il futuro, la destinazione è chiara: andate a Oriente».
E' un' indicazione anche per le aziende?
«Per tutti. Studenti, manager, imprenditori. L' Oriente sta prendendo velocità. Noi, come Insead, siamo molto più dinamici grazie al nostro campus a Singapore. Nel Global Innovation Index il Giappone, Singapore e Hong Kong si sono piazzati nella Top Ten. La Corea è al 19° posto. Ma è ancora più significativa l' avanzata dell' India e della Cina, a quota 23 e 29. La classe media di questi due Paesi sta entrando in un' area di benessere che potrebbe portarli a ridefinire i confini dell' innovazione. Già oggi la Cina ha 300 centri di ricerca, seconda solo agli Stati Uniti. E un' ambizione smisurata. Per le aziende internazionali la sfida globale più importante sarà di trovare il modo migliore per attingere a questa enorme forza trainante».
Ma l' Europa non doveva diventare "l' economia più competitiva e dinamica del mondo" entro il 2010, in base all' agenda di Lisbona?
«Il sistema produttivo europeo è meno sclerotico di quanto si creda, ma la distanza che lo separa dagli Usa è ancora vasta. Regno Unito a parte, il resto d' Europa è molto più chiuso all' apporto esterno di capitale umano. I mercati finanziari sono frammentati e il flusso dei capitali meno sviluppato. Resta il fatto che la Germania (seconda dopo gli Usa) è il primo Paese esportatore del mondo e il Regno Unito (terzo) ha una straordinaria capacità di attrarre talenti».
L' Italia, al 24° posto, subito dopo l' India e poco più su della Cina, è in una posizione piuttosto scomoda...
«L' Italia è un bellissimo Paese, ma non ha ambizioni. Sembra soddisfatta della sua inadeguatezza. La leadership è debole, mancano icone di successo. Se raccogliamo un gruppo di giovani per la strada e chiediamo: Chi è il Bill Gates italiano?, non ce lo sanno dire. Anzi, non capiscono bene il senso della domanda. Per superare l' impasse, ci vorrebbe una forte spinta da parte del governo. Ma nulla si ottiene senza fatica. No pain, no gain».
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