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21 settembre 2007

Michael Hoffman

Non sempre l' etica negli affari si può imporre con delle leggi, per quanto stringenti. Situazioni come quella dei giocattoli cinesi di Mattel, del latte artificiale Nestlé per i bambini africani o delle protesi Dow Corning al silicone sono talmente delicate da gestire che le regole scritte spesso non aiutano. «In molti casi le peggiori decisioni del management s' inseriscono in un' area grigia e a prima vista possono sembrare perfettamente legittime: solo in seguito si scopre che invece hanno causato gravi danni». Per questo Michael Hoffman, guru bostoniano dell' etica aziendale, è convinto che un Ethics Officer, più sensibile alle sottili distinzioni fra giusto e sbagliato, dovrebbe essere chiamato automaticamente a partecipare alle decisioni dei vertici aziendali.
Come si costruisce una cultura etica che impedisca disastri come quello capitato alla Mattel o alla Dow Corning?
«Ci dev' essere una rete capillare di controlli interni, con ispettori che visitino gli impianti anche di sorpresa, senza alcun preavviso, per verificare che i prodotti siano appropriati. I controlli devono essere estesi a tutta la produzione, anche all' estero. E questa è la parte più difficile, in particolare quando si ha a che fare con Paesi complicati come la Cina. Ma ci vogliono soprattutto delle persone che tirino le fila di questa rete e abbiano la capacità d' interfacciarsi sia con la produzione che con i decisori, con chi ha il potere di assumere e licenziare il top management».
Quindi con il consiglio d' amministrazione...
«Esattamente. E' ormai una quindicina d' anni che le corporation americane hanno creato la figura del Chief Ethics Officer (EO), una guida strategica e operativa che deve vigilare sulla conformità dell' operato dell' azienda alle buone regole di condotta etica. Ma in generale l' EO fa parte del management e viene ascoltato solo raramente dal consiglio d' amministrazione. Questo crea un chiaro conflitto d' interesse: da un lato l' EO non ha l' autorità sufficiente per imporsi sul top management, dall' altro lato è molto difficile per lui giudicare e denunciare la condotta morale di chi, come l' amministratore delegato, ha il potere di assumerlo e licenziarlo. Ecco perché io propongo che l' EO sia messo in relazione diretta con il consiglio, a cui dovrebbe poter riportare direttamente, quasi come un revisore dei conti».
Ma per questo non ci sono già le normative anti-frode come la Sarbanes-Oxley?
«Le leggi di questo tipo sono sempre utili. Più ancora della Sarbanes-Oxley, che si rivolge solo alle società quotate, sono state utili le Federal Sentencing Guidelines for Organizations, che hanno imposto una serie di regole contro le truffe finanziarie, le molestie sessuali, i prodotti pericolosi. Le aziende non sono costrette a seguirle, ma in pratica lo fanno perché se succede un guaio il giudice ne tiene conto. Se le FSGO vengono applicate a puntino, in caso di denuncia la magistratura tende a perseguire i singoli manager, ma non la società».
Dunque le regole sono importanti...
«Importanti ma non decisive. Non dimentichiamo che Enron, ad esempio, aveva un codice etico lungo 72 pagine. "Scripta manent", dicono. Ma in questo caso non è servito a nulla. Non sono determinanti le dichiarazioni scritte, ma le persone. La cultura dell' etica deve partire dai valori, non dagli obblighi».
Il problema è che i manager in generale non sono concentrati sull' etica ma sul business.
«E' uno sbaglio, perché l' etica porta business. Compriamo più volentieri i prodotti di una società che tratta bene i suoi dipendenti, che non sporca l' ambiente, che non dà in giro bustarelle...».
L' etica nel business può diventare uno strumento di marketing?
«Spero qualcosa di più, ma anche. E' importante però che le belle cose propagandate nelle pubblicità siano vere al cento per cento, altrimenti rischiano di diventare controproducenti».

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