L' efficienza ha dominato i pensieri del manager nel ventesimo secolo, ma oggi non basta più: «L' adattabilità è diventata più importante dell' efficienza, il pensiero innovativo dà migliori risultati dell' affidabilità, in questo mondo sempre più turbolento». Gary Hamel, definito dall' Economist «il re della strategia nel business», docente della London Business School e consulente di tutte le grandi multinazionali, si è posto un obiettivo ambizioso nel suo ultimo libro, «The Future of Management» (HBS Press, presto in libreria anche in Italia): tracciare la strada per i nuovi manager, una sorta di «management 2.0» nell' era del «web 2.0». Nel suo libro si mette in luce quanto i tradizionali strumenti di gestione siano inadeguati al ritmo dei tempi.
Vede un segno di questa carenza strategica anche nella crisi che sta travolgendo oggi il mondo finanziario americano?
«Ogni sistema dove il potere stia tutto al vertice fa più fatica ad adattarsi alle rapide evoluzioni tipiche delle situazioni di crisi. Le società finanziarie che favoriscono il conformismo sul pensiero innovativo, la catena di comando e controllo sulla responsabilità diffusa, rischiano grosso di questi tempi. Gli errori strategici si vedono bene dal ritmo con cui saltano le teste degli amministratori delegati. La leadership dei grandi gruppi non è mai cambiata così rapidamente come in questo periodo. Ma non tutto il mondo bancario è malato di verticismo. Ci sono anche elementi di grande innovazione nella strategia di alcune banche, come ad esempio l' Ubs. E si vede dai risultati».
Lei sogna di organizzazioni capaci di rinnovamento spontaneo, dove il dramma del cambiamento non debba essere per forza accompagnato dal trauma della ristrutturazione. E' possibile questo?
«Certamente. Basta guardare ad alcuni esempi dei tempi moderni, come Google, un' azienda con un giro d' affari di più di 10 miliardi di dollari e oltre diecimila dipendenti, che praticamente non ha gerarchie. La catena gestionale viene mantenuta il più corta possibile, perché un eccesso di controllo rischia di mettere un freno all' innovazione».
Google è un' azienda relativamente giovane, non è detto che riesca a mantenere questo standard nei decenni a venire...
«Vero. Ma in questi dieci anni ha costruito un' organizzazione vasta e articolata, quotata in Borsa, che sta in piedi perfettamente e anzi corre come una lepre, pur facendo a meno di tutta l' impalcatura gestionale che di solito viene considerata imprescindibile per ogni grande multinazionale».
Quindi il suo consiglio è di sfrondare?
«Esattamente. Le strutture di gestione devono essere leggere, flessibili, adattabili. In massima parte le aziende di oggi utilizzano dei sistemi di gestione inventati all' inizio del secolo scorso. Una cascata di presidenti, amministratori delegati, vice presidenti, vice presidenti esecutivi, direttori generali e via discorrendo. Gli stessi sistemi di controllo, le stesse pratiche nelle risorse umane, gli stessi rituali di pianificazione, le stesse strutture di revisione dei tempi di Ford. Ma non si possono trattare dei lavoratori del terziario come se fossero operai alla catena di montaggio...».
Non mi verrà a dire che le aziende ignorano la rivoluzione tecnologica...
«Applicano la tecnologia, parlano di innovazione, ma i sistemi di gestione rimangono gli stessi. E così le aziende perdono un vantaggio competitivo essenziale, perché in cent' anni di produzione industriale, a ben guardare, non sono mai state le rivoluzioni tecnologiche ma le rivoluzioni gestionali a dare una spinta decisiva alla crescita. Se non cambieranno in fretta, rischiano di farsi superare dai nuovi competitor dei Paesi emergenti. In India, soprattutto, ci sono molte aziende giovani che applicano strutture di gestione molto innovative, come ad esempio la HCL Technologies, dove gli impiegati hanno il diritto di criticare i dirigenti con una sorta di cartellino rosso, che viene ritirato solo quando il dirigente si è emendato. Un bel sistema, no?».
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