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30 maggio 2008

Jeffrey Pfeffer

La specialità di Jeffrey Pfeffer, professore alla Business School della Stanford University, è smontare i luoghi comuni. E' questo l' obiettivo principale del suo ultimo libro, «What Were They Thinking?» (Harvard Business School Press), in cui spara a zero su una serie di gravi errori talmente diffusi da diventare comportamenti standard nelle aziende.
Perché le imprese talvolta fanno delle stupidaggini?
«Perché tendono a ignorare i meccanismi di causa ed effetto. In tempi recenti, ad esempio, ci si è molto stupiti del fatto che il costo del lavoro dei programmatori indiani sia salito. Ma cosa c' è di strano? E' il vecchio gioco di domanda e offerta: se tutti delocalizzano in India, dopo un pò il costo del lavoro lì si alza. Secondo problema: spesso le aziende hanno una concezione meccanicistica del comportamento umano, sia in relazione ai propri dipendenti che ai clienti. Per vedere la realtà bisogna uscire dai cliché».
Facciamo un esempio.
«Prendiamo l' eterna questione del rapporto con il cliente. Migliorarlo è semplice: basta occuparsi di lui. E dire la verità. Tutti noi abbiamo sentito milioni di volte la famosa risposta registrata: «La vostra chiamata è importante per noi». Ma se quella chiamata fosse davvero importante, qualcuno risponderebbe in un tempo ragionevole invece di farci sentire una musichetta o bombardarci di annunci pubblicitari. Prendendo in giro la gente, è logico che il rapporto con il cliente non sia buono. Chi vuole migliorarlo deve cambiare sistema».
Il rapporto con i clienti diventa particolarmente centrale nelle aziende in via di ristrutturazione?
«Come diceva il defunto Peter Drucker, senza clienti non c' è business. Rimettere un' azienda debole sui binari significa essenzialmente offrire ai propri clienti più di quello che si aspettano. Prodotti e servizi migliori o più attenzione della concorrenza. Questo diventa difficile da fare se c' è un piano di tagli in corso. Se possibile, bisogna tentare di farlo prima, motivando al rilancio le persone migliori».
E se l' azienda funziona ma la gente non compra lo stesso, che si fa?
«Se proprio bisogna tagliare per far quadrare i conti, va fatto con compassione e generosità, comunicando di persona la decisione agli interessati. Ma queste misure demotivano la gente, perciò bisogna sempre tentare di evitarle, magari riducendo un pò l' orario di lavoro o le parti variabili dello stipendio di tutti. Le ricadute, poi, si vedono. Se la Southwest Airlines se l' è cavata senza tagli dopo l' 11 settembre 2001, non si vede perché anche le altre compagnie aeree non siano riuscite a farlo. Non è un caso se Southwest ora fa più utili».
Qual è la funzione più importante del capo azienda?
«Non è prendere le decisioni giuste, ma identificare e promuovere il talento negli altri. Creare un ambiente in cui la gente possa e voglia dare il meglio di sé. Spesso meno leadership è la leadership migliore. Nessun seme può germogliare se lo si estrae dalla terra per esaminarlo ogni settimana. Bisogna dare spazio e risorse alla gente se si vuole che faccia le cose in maniera innovativa».

22 maggio 2008

Kyoto: i ritardi dell'Italia

Il contatore gira e segna un debito di 5 milioni di euro al giorno. E’ quello che l’Italia sta accumulando inesorabilmente per lo sforamento delle emissioni di anidride carbonica rispetto all’obiettivo previsto dal protocollo di Kyoto, di cui si è celebrato recentemente il terzo anniversario dall’entrata in vigore. Dal 1° gennaio di quest’anno, le industrie europee devono cominciare ad adeguarsi agli obblighi del protocollo. Ma nei fatti ci separa dall’obiettivo di Kyoto un divario di quasi 100 milioni di tonnellate di CO2 da tagliare e ogni ritardo comporta costi crescenti. Per la precisione, i calcoli del Kyoto Club – associazione di imprese impegnate nella difesa del clima – indicano un costo di 63 euro al secondo, assegnando un valore prudenziale di 20 euro per tonnellata all’anidride carbonica prodotta. Un debito che in tre mesi ha raggiunto i 500 milioni e a fine anno arriverà a due miliardi di euro. I costi di Kyoto non si pagano come una tassa, ma alla fine peseranno lo stesso sulle tasche dei cittadini. Sono costi che dovranno sostenere le imprese italiane dell’energia o di altri settori ad alte emissioni, per adeguarsi ai limiti internazionali. In base agli accordi presi in sede europea, nel periodo 2008-2012 l’Italia deve ridurre del 6,5% le sue emissioni rispetto a quelle misurate nel 1990. Ma mentre negli altri Paesi europei sono state prese misure graduali per raggiungere il target, dal ‘90 ad oggi le emissioni italiane sono cresciute del 12% invece di diminuire, quindi la riduzione da operare entro il 2012 per noi supera ormai il 18%. Un taglio gravosissimo, che peserà in larga parte sui portafogli degli utenti. Le imprese avranno tre strumenti per adeguarsi: investire in tecnologia per diventare più efficienti, realizzare impianti di energia pulita all’estero oppure comperare a caro prezzo i crediti di emissione sui mercati internazionali. La conseguenza saranno bollette elettriche più alte e produzioni più care per i settori più esposti, come la siderurgia o le cartiere. Con una perdita di competitività per chi non riesce a stare al passo. Man mano che il ritardo si aggrava, i costi si accumulano. Ma le imprese al momento attuale non hanno ancora a disposizione uno strumento fondamentale per operare le riduzioni: il piano nazionale di allocazione delle emissioni, varato con grande ritardo dal governo uscente e attualmente all’esame dei tecnici di Bruxelles. Nel periodo di adeguamento 2008-2012, la quantità di emissioni assegnate all’Italia dalla Commissione europea è pari a 483 milioni di tonnellate di CO2. Il taglio di oltre 90 milioni di tonnellate rispetto alla realtà attuale dev’essere ripartito equamente dal governo sugli oltre mille impianti italiani coinvolti, assegnando un tetto di emissioni annuali impianto per impianto. Per definire questa spartizione ci sono voluti molti mesi e la firma sul piano nazionale di allocazione dei due ministri interessati, Pier Luigi Bersani e Alfonso Pecoraro Scanio, è arrivata in extremis solo dopo la crisi di governo.Sta ora alla Commissione decidere se il piano italiano ottempera agli obblighi. Poi si tratterà di assegnare a ogni impresa le cosiddette unità di emissione di CO2 relative ai suoi impianti, che le consentiranno l’accesso al mercato europeo di scambi, l’Ets. Per ora, le imprese italiane non possono sfruttare il sistema dell’emission trading europeo, di cui beneficiano invece le imprese degli altri Paesi dell’Unione, dove le unità di emissione per l’anno in corso sono state assegnate entro il 28 febbraio, come previsto dalle regole dell’Ets. Ci troviamo quindi nella situazione paradossale di essere entrati in un sistema di trading… senza il trading. E a giudicare dalla rapidità con cui galoppa il caro-carbonio, trainato dal boom di tutte le materie prime, più si aspetta a comprare e più salato sarà il conto.

19 maggio 2008

Scajola: prima le scorie, poi le centrali

Nucleare «scelta indispensabile», annuncia Silvio Berlusconi nelle dichiarazioni programmatiche al Senato. Nucleare «a tappe forzate», ribadisce Claudio Scajola. E Stefania Prestigiacomo, ministro dell' Ambiente, si associa. Tutti d' accordo, nel nuovo governo, sul rientro del nostro Paese in questo settore. Ma prima di parlare di ritorno al nucleare, c' è un dossier aperto sul tavolo di Scajola, alla pagina «deposito unico nazionale» dei rifiuti radioattivi. La commissione E c' è una commissione - composta da 11 rappresentanti dei ministeri interessati, delle Regioni, dell' Apat e dell' Enea - che dal 27 marzo, su incarico di Pier Luigi Bersani, sta lavorando per identificare un' alternativa a Scanzano Jonico, il sito individuato nel 2003 come il più adatto a un deposito di profondità nelle miniere di salgemma. «Entro giugno - spiega Raffaele Ventresca del ministero dell' Ambiente - daremo i primi risultati». Rilancio o non rilancio, questo sito va comunque trovato, perché le scorie nucleari sono una bomba a orologeria che ticchetta da oltre vent' anni, da quando nell' 87 è stato spento Arturo, a Caorso, l' ultimo reattore della stagione atomica italiana. Sicurezza «zero» Una bomba sparsa sul territorio in circa 150 depositi, grandi e piccoli, in condizioni di sicurezza precarie. Trino, Caorso, Latina e Garigliano, oltre all' impianto di fabbricazione del combustibile di Bosco Marengo e i centri di ricerca ex Enea di Saluggia, Casaccia e Trisaia, sono ancora tutti o in parte da bonificare. Ma altri tipi di rifiuti radioattivi continuano a essere prodotti al ritmo di 500 tonnellate l' anno. Il 90% è di natura medicale, come gli aghi di radio o le sorgenti ospedaliere al cesio e al cobalto, che possono essere facilmente trafugate dai depositi provvisori. Basterebbe abbinarli a un chilo di esplosivo plastico convenzionale, per arrivare a confezionare bombe sporche, capaci di contaminare aree fino a diversi chilometri quadrati. Deposito di superficie Va da sé che tutto questo materiale - dal più radioattivo che ci mette decenni a decadere al più innocuo che resta pericoloso solo per pochi giorni - va concentrato in un solo sito, più facilmente controllabile. «Non sarà un deposito di profondità, come quello immaginato a Scanzano, ma un deposito di superficie, simile all' impianto di Habog che abbiamo visitato a Borssele, in Olanda, per renderci conto della relazione con la popolazione e l' ambiente circostante», precisa Ventresca. Il deposito olandese è inserito in una zona industriale densamente popolata, dove le sue pareti arancioni, coperte di formule di Einstein e Planck, risaltano come un' opera d' arte. Centro di ricerca «L' impianto italiano non sarà un puro e semplice deposito, ma dovrà essere inserito in un centro di servizi tecnologici e di ricerca ad alto livello», aggiunge Ventresca. Il sito verrà individuato «attraverso un coinvolgimento partecipativo delle comunità locali» e la commissione spera vivamente che una buona comunicazione aiuti a sollecitare delle autocandidature, com' è avvenuto anche in Francia per il centro dell' Aube. Centri di superficie, come quello francese e olandese, ci sono anche in Spagna, a El Cabril, o in Belgio, a Dessel, mentre la Svezia e la Germania hanno optato per depositi di profondità, più complicati da individuare ma «tombali» per l' eternità. Il Regno Unito e la Finlandia, oltre al deposito di superficie, ne stanno costruendo anche uno in profondità.

5 maggio 2008

Acea, le aggregazioni e la variabile Suez

Acea, la multiutility romana, è nel mirino del nuovo inquilino del Campidoglio. Con 2,58 miliardi di ricavi netti sui 4,3 miliardi complessivi del gruppo Comune di Roma, Acea è la più grande delle società di cui Gianni Alemanno è diventato principale azionista. «Faremo un monitoraggio attento dei cda, perché molte cose non vanno», ha avvertito il nuovo sindaco il giorno stesso dell' elezione. E fra le «cose» che non vanno, aveva probabilmente in mente diversi nomi. Come quelli del presidente di Acea Fabiano Fabiani, colonna storica dell' Iri, o dei consiglieri Luigi Spaventa, ex presidente della Consob, Piero Giarda, ex sottosegretario al Tesoro, e Luisa Torchia, docente universitaria e consulente della presidenza del Consiglio. Insieme all' amministratore delegato Andrea Mangoni e ai due rappresentanti del gruppo Suez (azionista all' 8,6%), i quattro formano il cda della multiutility. E fanno parte di quel «sistema di potere» di centrosinistra di cui ora Alemanno invoca la caduta. Dopo le sue dichiarazioni combattive, non è pensabile che il neo-sindaco attenda la fine del loro mandato, in scadenza fra due anni, prima di intervenire. Per Acea, una società quotata che sta cercando con fatica d' inserirsi nei processi di aggregazione in atto sul mercato italiano delle ex-municipalizzate, non sarà una transizione facile. Il percorso già accidentato verso l' alleanza con Hera si presenta oggi ancora più complicato: la vittoria della destra rischia infatti di spezzare il rapporto privilegiato instauratosi con l' amministrazione bolognese. Hera, che aveva già proposto un «quadrilatero» coinvolgendo anche Iride ed Enìa (altre amministrazioni di sinistra), ora potrebbe ritirarsi dal dialogo con la multiutility capitolina. È difficile vedere Sergio Cofferati, Marta Vincenzi e Sergio Chiamparino concordare alleanze strategiche con Gianni Alemanno. Per non parlare dei partner emiliani. Il numero uno Andrea Mangoni, da parte sua, non ha fretta: definisce quest' alleanza «un' opportunità», aggiungendo però che «non la cercheremo a tutti i costi». La partnership con il gruppo Suez - che oltre a essere azionista della capogruppo è anche socio al 40% nella joint venture per l' energia Acea-Electrabel - dà ad Acea già molte soddisfazioni, in particolare ora che la fusione di Suez con Gas de France consentirà all' ex municipalizzata romana di rafforzare l' operatività nella commercializzazione del gas. Dopo la fusione, prevista entro l' autunno, saranno messe a fattor comune le attività che Acea-Electrabel e GdF hanno in Italia. Si tratta, in sostanza, di incamerare il quarto operatore italiano nella vendita di gas, il che consentirà di aumentare il peso degli asset nei negoziati per un' aggregazione. Nel frattempo Acea si trova nel bel mezzo di un corposo processo di espansione verso le aree limitrofe della Toscana, la regione più campanilistica e meno attiva nei processi di aggregazione in corso. Ma nel comparto dell' acqua qualcosa si sta sbloccando. Nella riforma dei servizi pubblici locali appena varata dalla giunta regionale è compreso il via libera alla nascita del secondo operatore italiano nei servizi idrici integrati (dopo Acea che ha 10 milioni di clienti), con la fusione dei tre gestori che servono 2 milioni e mezzo di abitanti tra Firenze, Prato, Pistoia, Pisa, Siena e Grosseto, in cui Acea avrà una quota tra il 40% e il 45%. È il primo caso di aggregazione industriale fra i servizi pubblici che si verifica da queste parti e Acea è saldamente piantata al centro del processo, con la prospettiva di partecipare a movimenti analoghi anche sul fronte del gas. Al di là delle possibili aggregazioni, l' acqua e la termovalorizzazione sono i due business che guideranno le strategie di crescita di Acea nei prossimi anni: il piano di sviluppo fino al 2012 prevede 939 milioni di investimenti nel ciclo idrico e 426 milioni nei termovalorizzatori, di cui in Centro Italia c' è sempre più bisogno.