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9 giugno 2008

Le frecce di Robin Hood su Eni, Shell e Total

Il greggio sale di un dollaro al barile? Per una compagnia petrolifera come l' Eni, l' utile netto si gonfia di 200 milioni di euro all' anno. E nel 2007 il prezzo del petrolio è raddoppiato, da 50 a 100 dollari al barile. Un trend che continua ancora, con punte oltre i 130. Mentre i costi di produzione non si spostano di molto: a seconda dei Paesi, oscillano fra i 5 e i 10 dollari al barile. E' così che si spiegano i profitti record delle major, dai 40,6 miliardi di dollari incamerati l' anno scorso dal numero uno mondiale, l' americana Exxon, ai 10 miliardi di euro (15,5 miliardi di dollari) dell' Eni. Se la Exxon fosse un Paese, i suoi profitti risulterebbero superiori al Pil di due terzi delle 183 nazioni comprese nelle graduatorie della Banca Mondiale. L' Eni invece si collocherebbe a metà, fra Cipro e l' Islanda. E' ben vero, come ha sostenuto giovedì 12 giugno lo stesso Paolo Scaroni, che l' extraprofitto resta in parte nelle tasche dei Paesi produttori, sempre più esosi nei confronti delle compagnie petrolifere indipendenti. Ma è anche chiaro che l' Italia, pur essendo fra i principali produttori di idrocarburi d' Europa, incassa ben poco sul fronte delle royalties sulle licenze di estrazione, mantenute insolitamente basse. «E' su questo punto che il nuovo governo potrebbe andare a incidere, se volesse introdurre un sistema di "profit sharing sulle rendite petrolifere", suggerisce Luigi De Paoli, esperto di politica energetica della Bocconi. «Una Robin Hood Tax, intesa come tassa sui profitti dei petrolieri, invece, mi sembra difficilmente praticabile, se non altro dal punto di vista tecnico-fiscale». Un progetto in questo senso era già stato formulato a fine 2005 da una commissione di esperti convocata dai ministeri dell' Industria e del Tesoro, quando il precedente governo Berlusconi si era trovato di fronte allo stesso problema, dopo una cavalcata delle quotazioni del greggio da 40 a 70 dollari al barile. Il suggerimento di De Paoli, fatto proprio dalla commissione, fu di aumentare le royalties sui giacimenti italiani dal 7 al 25%. Ma poi cambiò il governo e non se ne fece nulla. Oggi, aggiornati i conti e i meccanismi alla luce dei nuovi record, quel progetto potrebbe portare nelle casse dello Stato un gettito superiore al miliardo di euro l' anno sull' estrazione di petrolio e di quasi due miliardi per il gas. «Tre miliardi di euro non risolverebbero tutti i problemi delle fasce di popolazione meno abbienti - ammette De Paoli -, ma almeno avrebbero il vantaggio di equiparare il sistema italiano a quello di altri Paesi produttori, coinvolgendo tutte le compagnie petrolifere che operano sul nostro territorio, dall' Eni alla Shell o alla Total, senza urtare troppo la suscettibilità di nessuno». Il problema principale della «Robin Hood Tax», sulla base di quanto è stato anticipato finora da Giulio Tremonti, è che una maggiorazione straordinaria dell' imposta sugli utili delle imprese andrebbe a colpire praticamente solo l' Eni e finirebbe per ridurre i dividendi anche al Tesoro, che già si porta a casa il 30% dei profitti come principale azionista. «Da un lato, quindi, si rischia un effetto di sostituzione, che non migliorerebbe le entrate dello Stato», commenta Marzio Galeotti, economista esperto di energia della Statale. «Per non parlare poi del fatto - aggiunge - che farebbe infuriare gli altri azionisti e deprimerebbe i corsi borsistici del cane a sei zampe». Un altro rischio della Robin Hood Tax è di colpire il bersaglio sbagliato. «Bisogna distinguere bene - spiega Davide Tabarelli di Nomisma Energia - fra upstream e downstream». La vera rendita petrolifera risiede nel primo segmento, di esplorazione e produzione. «La rendita mineraria delle compagnie, che producono a 5-10 dollari al barile e poi vendono a 120 sui mercati internazionali, è gigantesca», fa notare Tabarelli. La raffinazione, invece, è un' attività industriale come un' altra, con margini piuttosto risicati. Basta guardare i conti di Saras o Erg per rendersene conto. E la distribuzione è semmai l' anello debole della catena, assediata dai problemi di competitività nel settore commerciale. «Colpire la raffinazione - ammonisce Tabarelli - sarebbe come aumentare le tasse sui carburanti, che sono già altissime: andrebbe immediatamente a colpire i consumatori». In sostanza, gli esperti concordano. «L' aumento delle royalties sulle licenze di estrazione è un discorso serio - interviene Pia Saraceno del Ref - tutto il resto è solo populismo». Nessuno nega il valore etico dell' idea di colpire i ricchi per dare ai poveri. «Ma bisogna stare attenti a non provocare più danni che vantaggi ai consumatori», precisa Saraceno. Che apre un nuovo fronte di discussione: sulla rendita idroelettrica. «L' acqua non costa niente, ma il prezzo dell' energia viene trascinato in alto dal caro-greggio. Anche l' Enel, che è il principale beneficiario di questo vantaggio, gode di margini crescenti: ragioniamoci su».

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