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17 settembre 2008

Rentrée nucleare

La rentrée nucleare del governo riparte dal nodo dell'Authority: che sia un'Autorità di regolamentazione o un'Agenzia di controllo, come indicano gli ultimi orientamenti, il nuovo organismo destinato a segnare il punto di partenza della roadmap post-referendaria è stato conteso per tutta l'estate fra i due ministeri dello Sviluppo Economico e dell'Ambiente. Alla fine l'ha spuntata Stefania Prestigiacomo, dicono le ultime indiscrezioni, in base al ragionamento che “chi promuove le iniziative in materia non può essere lo stesso che le controlla”. Il nuovo organismo, elemento fondamentale della riscrittura normativa per le autorizzazioni, sarà basato sul nucleo centrale dell'Apat (ex Enea Disp, poi Apat, ora Ispra) con qualche apporto da parte dell'Enea e dovrebbe lievitare da un nocciolo duro iniziale di una cinquantina di esperti a un organico di trecento persone. Al vertice, un consiglio di cinque membri, compreso il presidente. Sull'assetto e la collocazione istituzionale dell'agenzia si è cominciato a discutere fin dal famoso annuncio del ministro Claudio Scajola, che lo scorso maggio aveva dato come obiettivo “la posa della prima pietra di un gruppo di centrali nucleari entro la fine di questa legislatura”, ovvero il 2013. A quattro mesi di distanza, questo è il primo passo avanti nella direzione indicata. E l'intesa non è ancora formalizzata. Ma il problema fondamentale, più che la collocazione istituzionale, sarà la composizione. Al momento attuale il dipartimento nucleare ex Apat è composto da una cinquantina di tecnici, in maggioranza bene avviati verso la pensione. L'impoverimento di competenze colpisce tutti gli organismi attivi sul mercato dell'atomo, compresa la Sogin, che pure sta investendo molto sulla valorizzazione delle risorse umane. “L'Agenzia potrebbe essere una buona occasione per costruire una nuova generazione di professionisti del nucleare, di cui presto ci sarà molto bisogno, senza cannibalizzare le risorse esistenti”, commenta l'ad Massimo Romano. Necessità che salta all'occhio anche al ministero dello Sviluppo Economico, dove le grandi manovre per il riassetto sono riprese a pieno ritmo dopo la battuta d'arresto dovuta ai rilievi del Consiglio di Stato. Il nuovo dipartimento dell'Energia, articolato in tre direzioni generali (Nucleare e Rinnovabili, Risorse Minerarie ed Energetiche, Infrastrutture e Sicurezza), dovrebbe essere varato in tempi brevi con un Dpr. Da qui partirà la nuova strategia energetica, che dovrà affrontare una serie di nodi stralciati dalla manovra, dai criteri di localizzazione dei siti alle misure compensative per le popolazioni interessate, dalla tipologia degli impianti nucleari ai requisiti per la costruzione e l'esercizio.L'altro fronte caldo, che non sembra avviato a soluzione, è la concertazione sul deposito nazionale delle scorie. Nel documento messo a punto dal gruppo di lavoro tra governo ed enti locali si attribuisce a Palazzo Chigi il potere di procedere da solo, qualora non si raggiunga l’intesa sul sito. E ci sono già le prime ribellioni: la Puglia, ad esempio, non ci sta. Sembrano le prove generali per quando si passerà a parlare di centrali.

12 settembre 2008

Stephen Covey

Nell' economia della conoscenza non valgono più gli stessi principi di gestione che potevano funzionare ai tempi del fordismo: Stephen Covey, il guru delle "Sette regole per avere successo" (Franco Angeli) non ha dubbi sulla necessità di modificare radicalmente lo stile di leadership, se si vuole sopravvivere ai ritmi della globalizzazione. Lei sostiene che la vera leadership non si esercita più dall' alto in basso.
Ma se non è dall' alto in basso, che leadership è?
«Non siamo più ai tempi dell' autorità formale, che esercita il controllo attraverso una catena di comando piramidale. Ai tempi della classica manifattura si poteva dare per scontato che i dipendenti chinassero la testa e svolgessero il loro compito senza nemmeno conoscere la missione finale dell' impresa. Ora non è più così». Cos' è cambiato? «La globalizzazione e le nuove tecnologie hanno cambiato le regole della competizione. Il mondo, come dice Tom Friedman, è piatto. Siamo tutti nella stessa gara, insieme ai cinesi e agli indiani, con gli stessi strumenti a disposizione. E' assurdo pensare di vincere senza mettere in campo tutte le risorse umane presenti in azienda, compatte sull' obiettivo».
Quali sono, quindi, i compiti essenziali di un top manager?
«Già nella parola management è insito un grave fraintendimento. Il manager può gestire un' azienda, non la gente che ci lavora. La gente si gestisce da sola. Non ha bisogno di supervisione, se svolge un ruolo di cui è convinta e in cui si sente realizzata. Questo è il ruolo del top manager: ispirare e liberare le potenzialità della gente che lavora per lui. Deve avere l' umiltà di ascoltare i suoi dipendenti e discutere insieme a loro gli obiettivi comuni. Dev' essere capace di instaurare grande fiducia reciproca. Quando la fiducia scende i costi salgono».
La sua società di formazione e consulenza, la FranklinCovey, insegna da anni questi principi. Dove li vede applicati meglio?
«Siamo presenti in 34 Paesi, fra cui anche l' Italia, ma i principi che insegno trovano il miglior terreno di applicazione nella filosofia di gestione dell' industria giapponese. Toyota è una delle aziende dove abbiamo lavorato con maggiore successo: basta osservare lo stile di gestione delle case automobilistiche americane per capire che cosa intendo quando parlo delle differenze di leadership fra l' epoca fordista e l' economia della conoscenza. Detroit è rimasta intrappolata in un' altra era».
I suoi insegnamenti si focalizzano sull' eliminazione di tutti quei comportamenti fossilizzati e processi non allineati, che impediscono all' azienda di mettere a frutto le competenze interne. A quasi vent' anni dalla pubblicazione, sono sempre validi i suoi sette pilastri?
«Continuano a essere letti e studiati da milioni di persone. E suppongo che andrà avanti così, soprattutto in tempi di crisi. Del resto non si tratta di principi relativi a una situazione economica contingente, ma di un percorso che insegna a ottenere risultati in linea con i propri obiettivi, di un approccio integrato per imparare a gestire qualsiasi impresa in modo veramente efficace. E' un metodo che non tramonta».

5 settembre 2008

Howard Gardner

Quando pubblicò "Frames of Mind" nel 1983, Howard Gardner scatenò un dibattito sull' intelligenza umana che continua ancor oggi. L' illustre psicologo di Harvard sostenne allora che non esiste una singola qualità o capacità chiamata intelligenza, ma piuttosto una serie d' intelligenze diverse, otto o nove, che si manifestano nelle diverse persone. Cinque, secondo il suo recente libro "Five Minds for the Future", saranno necessarie ai manager del futuro per funzionare correttamente nell' era dell' informazione e della globalizzazione. In particolare la mente etica, che avrebbe evitato molti recenti disastri.
Quali sono i cambiamenti che oggi rendono certe intelligenze più utili di altre?
«Ci sono tre cambiamenti significativi. Il primo sono le nuove tecnologie: un computer può fare molte cose che prima erano dominio esclusivo della mente umana, perciò oggi un' intelligenza capace di intuizioni diverse da quelle che può avere un computer ha più valore di altre. Il secondo cambiamento è la globalizzazione. Per riuscire a funzionare in un mondo globalizzato, capire le interconnessioni fra diverse culture è molto più importante di cinquant' anni fa».
E il terzo cambiamento?
«Il terzo ha a che fare con la diversità. Fino ad oggi la specie umana si è evoluta in un contesto che le consentiva di avere contatti con circa 150 individui, la maggior parte dei quali simili a noi o addirittura parenti. Oggi, invece, dobbiamo confrontarci con una società così diversificata che cinquant' anni fa sarebbe stata del tutto inconcepibile. Si ha la sensazione di poter entrare in contatto e influenzare chiunque nel mondo e viceversa».
E quali sono le cinque intelligenze più adatte ad affrontare questi cambiamenti?
«Le prime tre sono le stesse di cui parlo da molto tempo ai top manager di tutto il mondo: la mente disciplinata, la mente sintetizzatrice e la mente creativa. Questi primi tre tipi d' intelligenza sono fondamentali per districarsi nel diluvio d' informazioni che ci sommerge e per distinguerci dalle macchine con delle proposte originali. Le ultime due, la mente rispettosa e la mente etica, hanno più a che fare con la sfera dell' umanità. Nell' ultimo decennio la mia ricerca si è focalizzata soprattutto su queste due».
Decisamente attuali in un' epoca dove l' accelerazione estrema porta molti manager a prendere delle scorciatoie che alla fine si rivelano devastanti, come si vede adesso nel mondo delle banche...
«Esattamente. La distinzione fra chi lavora con competenza e onestà e chi lavora prendendo scorciatoie sta emergendo in maniera chiara proprio in questo periodo di crisi. Le uniche banche che si salveranno sono quelle che non hanno preso scorciatoie».
Per un buon leader, dunque, una mente etica oggi è particolarmente importante...
«Lo è sempre stata, ma oggi la sfida etica ha raggiunto un grado d' intensità diverso. La mente etica è sempre attenta alle proprie responsabilità nei confronti del mondo, compresi i propri clienti, dipendenti e vari stakeholder. Oggi un buon leader dev' essere molto più attento di una volta a impostare il modello di business della sua azienda su principi di onestà e rispetto per gli altri».

2 settembre 2008

Carri armati sul gasdotto

Davanti ai carri armati di Mosca in marcia verso l'Ossezia, i primi a tremare in Italia sono stati i padroni di Erg, che in giugno avevano aperto le porte a Lukoil per vendere ai russi una quota consistente (il 49%) delle raffinerie di Priolo. L'accordo consentirà lo sbarco russo nella raffinazione del Mediterraneo e farà entrare 2.750 milioni di euro nelle casse della società petrolifera guidata da Alessandro Garrone. Ma ora è minacciato dal rischio Georgia. “Non si possono escludere problemi per l'approvazione dell'acquisto delle raffinerie siciliane da parte delle autorità alla concorrenza europee”, ha dichiarato il numero uno di Lukoil Vagit Alekperov il giorno stesso del vertice europeo sulla crisi georgiana. In realtà, secondo alcuni osservatori, il messaggio potrebbe essere interpretato in maniera ben più minacciosa: se Bruxelles ci metterà i bastoni fra le ruote in Georgia, addio investimenti. In casa Garrone non commentano e ribadiscono che il closing è previsto entro la fine dell’anno, visto anche l’atteggiamento morbido assunto per ora da Bruxelles. Gli occhi di tutti, però, restano puntati sul Caucaso. Per l'Italia, il fronte dell'energia è senz'altro il più delicato. L'import di idrocarburi dalla Russia sfiora i trenta miliardi di metri cubi l'anno, su un fabbisogno complessivo di 85 miliardi, in rapido aumento. E Vladimir Putin non si fa certo scrupolo di usare il ricatto energetico come strumento di politica estera. Le società italiane più coinvolte nel grande gioco con il Cremlino, ovviamente, sono Eni ed Enel. Anche chi ha deciso di puntare su percorsi alternativi alle grandi vie del gas russo, come Edison con il suo gasdotto meridionale attraverso la Turchia e la Grecia, che darà uno sbocco europeo al metano azero, non applaude. Ma le intemperanze di Putin preoccupano soprattutto i piani alti dei due big energetici italiani - che in Russia hanno in corso investimenti colossali - per le ripercussioni negative che potrebbero avere alla lunga sugli ambienti finanziari internazionali, già poco inclini a farsi coinvolgere negli affari del nuovo zar. Il timore è che l’imperialismo russo non si fermi qui: il prossimo passo – prevedono diversi operatori - potrebbe essere l’imposizione del rublo come moneta di pagamento per l’acquisto d’idrocarburi russi e il tentativo di aprire, di concerto con i cinesi, un mercato alternativo delle materie prime, in concorrenza con Wall Street. A quel punto la guerra sarebbe aperta e il rischio di mettersi seriamente in contrasto con il sistema finanziario americano sempre più alto. Già oggi il gioco del Cremlino non manca di aspetti imbarazzanti, decisamente in contrasto con il galateo del libero mercato. Come la questione dello smembramento dell'impero del magnate Mikhail Khodorkovski – spossessato della sua Yukos e incarcerato in Siberia da quando aveva tentato di mettersi in politica – in cui i due giganti energetici italiani hanno svolto un ruolo determinante. Si tratta di una partita lunga e difficile, iniziata ad aprile 2007, quando una società mista Eni-Enel (60-40%), SeverEnergia, si è aggiudicata il secondo lotto degli asset ex Yukos per 5,8 miliardi di dollari, consentendo a Gazprom di partecipare all’operazione senza esporsi. Sui preziosi giacimenti in area artica conquistati dagli italiani, infatti, Gazprom detiene un'opzione call del 51%, che potrà essere esercitata entro il 2010. A sua volta, questo accordo era stato preceduto da una più ampia intesa strategica Eni-Gazprom, firmata nel novembre 2006: allora il gruppo italiano aveva ottenuto il prolungamento dei contratti di fornitura di gas al 2035, concedendo ai russi una disponibilità sulla capacità di trasporto fino a 3 miliardi di metri cubi l'anno da vendere direttamente sul mercato italiano. Varie intese di Gazprom con le utilities italiane affamate di gas – A2A, Enìa e Ascopiave – sono proprio in questi giorni all'esame di Bruxelles. L'Enel invece ha conquistato il controllo della genco Ogk5, diventando il principale operatore elettrico straniero attivo in Russia. La reciprocità sarà soddisfatta con lo sbarco di Gazprom nella produzione di energia italiana. “Come noi vogliamo andare in Russia a estrarre direttamente il loro gas – commentò a suo tempo il numero uno di Enel Fulvio Conti – è giusto che anche loro vogliano avere uno sbocco diretto sul nostro mercato”. Sul tavolo tre-quattro centrali, nelle quali Gazprom potrebbe avere una partecipazione di minoranza, con la disponibilità di forniture a prezzi di fabbrica per alimentare una vera e propria rete commerciale in Italia. Dal produttore al consumatore.