Lei preferisce parlare di un problema europeo, ma l'export italiano perde più quote di mercato degli altri europei. Perché? "Italia, Francia e Germania soffrono dello stesso male: la sopravvalutazione dell'euro, che colpisce la competitività delle imprese esportatrici. Certo in Italia gli effetti sono più marcati, perché la vostra economia si basa di più sulla piccola e media impresa, particolarmente esposta alla concorrenza della Cina e degli altri Paesi asiatici emergenti. L'estrema frammentazione della struttura industriale italiana la rende più vulnerabile delle altre. Ma i problemi di fondo sono i medesimi".
Soluzioni? "Bisogna puntare su una politica espansiva, basata sulla ricerca, l'innovazione, le infrastrutture. Bisogna trasformare l'economia italiana, insieme a quella europea, in un'economia del sapere. Gli americani, che l'hanno inventata, la chiamano knowledge economy. E' inutile combattere i cinesi sul loro stesso terreno, puntando sulla manifattura di base. E' una battaglia persa. Bisogna buttarsi sulle produzioni avanzate, ad alto valore aggiunto. Quindi bisogna investire nelle università e nella ricerca scientifica".
Tremonti aveva proposto di non conteggiare nel deficit le spese per la ricerca e quelle infrastrutturali. Lei sarebbe d'accordo? "Qualsiasi misura espansiva va bene, purché coordinata a livello europeo. Per quanto mi riguarda, avevo proposto che l'Europa sottoscrivesse un prestito internazionale di importanti dimensioni a favore dei finanziamenti alla ricerca. Ma non è stato fatto nulla. Questa incapacità di coordinamento è il motivo per cui l'economia europea è così debole e non va mai oltre una crescita del 3%, che per i nostri standard è già miracolosa, ma non ha niente a che fare con la vera espansione come la conoscono gli Stati Uniti".
Meglio aumentare gli investimenti o tagliare le tasse? "Per uscire dalla stagnazione le strade sono due: una di sinistra, attraverso l'aumento della spesa pubblica, e una di destra, attraverso la diminuzione delle tasse. Due politiche diverse ma entrambe valide, sia l'una che l'altra con opportuni accorgimenti possono essere indirizzate a un rilancio dell'innovazione e della diffusione del sapere. Ma l'importante è reagire per tempo, possibilmente di concerto con gli altri Paesi europei. Non lasciarsi andare come ha fatto l'Europa fino ad oggi. Gli Usa e l'Asia hanno reagito prontamente, mentre la risposta europea, sia sul fronte monetario che fiscale, è stata debolissima, se non controproducente".
E' un problema di tassi d'interesse? "La Bce è troppo ingessata, ma in questo momento non abbiamo tanto un problema di tassi d'interesse, che sono abbastanza adeguati, quanto di cambio. L'euro è sopravvalutato e andrebbe tenuto a freno. In Europa manca una politica di cambio. Negli Stati Uniti la politica di cambio la fa il segretario al Tesoro, non la Fed. I governi europei devono mettersi d'accordo su questo punto e, se serve, devono intervenire sui cambi comprando dollari".
E il Patto di stabilità? "Il Patto di stabilità ha costretto l'Europa a una politica restrittiva proprio quando c'era bisogno di una strategia di crescita. Quelle regole vanno cambiate, o almeno bisogna trovare un'interpretazione più flessibile, che rientri in una strategia economica complessiva di lungo periodo. Altrimenti l'Europa è destinata ad aspettare sempre che la crescita venga dall'esterno. Ma quando manca una strategia autonoma i problemi di competitività, come quelli dell'Italia, diventano subito più acuti".
Quindi lei sostiene la necessità di una governance europea? "Non c'è altra scelta, non possiamo rimanere a lungo a metà del guado, perché è la posizione più scomoda. Ormai i governi nazionali non hanno più l'autonomia necessaria per gestire e imporre una politica economica efficace. Il caso di Tremonti, ma anche quello di Mer, dovrebbero insegnarci qualcosa. I ministri dell'Economia saltano perché sono dicasteri strategici, ma hanno una sovranità limitata. Per questo è urgente creare una governance economica europea in grado di fissare e coordinare una politica comune".
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