In che cosa consiste la sharing economy? Quale modello di business si può creare con la condivisione delle risorse in rete? “La sharing economy non vuole distruggere i modelli di business dell'economia tradizionale, ma trovare un suo spazio al suo fianco. Nella fotografia amatoriale, per esempio, chiunque può scattare una fotografia e se è vero che le gallerie non guadagnano nulla, è comunque un settore che ha alle spalle un grande business, decisamente maggiore di quello della fotografia professionale. Allo stesso modo, ci sono diversi soggetti economici nella sharing economy: i produttori di software e di hardware e chi fornisce l’infrastruttura. Quindi non si guadagna più sul copyright, ma sugli strumenti che permettono alle persone di creare contenuti e di condividerli. L’industria che produce contenuti protetti da copyright non scomparirà, così come non è scomparso il segmento della fotografia professionale, ma si stabiliranno nuovi rapporti e nuovi equilibri. Io non credo che bisognerebbe permettere la condivisione di materiale sotto copyright, ma sono convinto che occorra consentire alle persone di condividere i contenuti prodotti da loro stessi”.
Ma i blog dei singoli, ad esempio, non hanno un marchio consolidato che permetta ai lettori di valutarli, nel bene e nel male. Come si risolvono questi problemi di valutazione? “La questione si sta evolvendo, ma ci sono essenzialmente due meccanismi che determinano la valutazione dei blog. Il primo è la reputazione e già oggi un blogger ben conosciuto probabilmente ha una reputazione pari a quella di un redattore di un quotidiano. Ma esiste anche un secondo modello di autorevolezza online, incarnato tipicamente da Wikipedia, dato dal fatto che gli articoli, anonimi, devono riuscire a sopravvivere alla lettura di centinaia di migliaia di persone, con un meccanismo molto democratico. Quindi dei metodi alternativi esistono, oggi non conta più solo il marchio di una testata con un centinaio di anni di storia alle spalle e io credo che il pubblico si abituerà a sfruttare sia il modello della reputazione tipico dei blog, sia il modello anonimo e democratico di Wikipedia”.
Lei parla di una classe creativa universale che incarna questa nuovo modello di economia condivisa. Da come la descrive lei sembrerebbe un gruppo molto omogeneo, ma ci saranno pure differenze culturali fra queste persone a seconda della provenienza... "Naturalmente le differenze ci sono. Ad esempio Internet e i blog sono molto di moda negli Stati Uniti, in Cina, in Iran e in Polonia. Oltre 200 milioni di americani hanno un indirizzo di posta elettronica e una ventina di milioni hanno un blog, mentre in Germania o in Italia molta gente non sa nemmeno che cosa sono. In alcuni Paesi asiatici e in Israele ci sono ormai più telefonini che persone. In Europa, invece, la televisione digitale è a uno stadio molto più avanzato che altrove. Ma la convergenza fra queste varie piattaforme è ormai talmente sviluppata che le diverse categorie cominciano a sovrapporsi e i consumatori di punta dei vari generi rientrano nello stesso calderone comune. Si forma così una classe sovranazionale, che secondo le stime più attendibili in Europa arriva a circa 35 milioni di persone mentre negli Stati Uniti sfiora i 40 milioni, con molte caratteristiche comuni. Ci sono più similitudini, ad esempio, fra i bloggers americani e iraniani che non tra gli abitanti dello stesso Paese che usano o non usano Internet".
Qual'è la funzione di questa classe creativa? "Di fare da apripista ai consumi culturali e tecnologici del futuro. In generale si tratta di opinion leader, molto interessati alle novità ma con una spiccata tendenza al pensiero autonomo, alla creazione e allo scambio di contenuti piuttosto che alla fruizione passiva. Quindi con loro non funziona il normale ciclo di produzione: sviluppare nuove idee e nuovi prodotti per poi calarli dall'alto sul mercato con forti investimenti pubblicitari per diffonderli. Con questo target invece funziona meglio il procedimento contrario: bisogna indagare le mode e le necessità di questa gente e sviluppare prodotti che le soddisfino. In questo modo non serve investire cifre colossali in pubblicità: basta il passaparola, con cui si ottiene una diffusione molto più efficace spendendo poco".
Procedimento molto complesso. Proviamo a fare un esempio... "La nascita dell'I-Mode è un buon esempio. La madre di questo sistema che ha rivoluzionato il mondo della telefonia cellulare si chiama Mari Matsunaga ed è una top manager di Ntt DoCoMo. Nei primi anni Novanta, Mari ha osservato come i ragazzini giapponesi si scambiassero messaggi usando i codici numerici dei cercapersone, gli antenati dei telefonini. Il primo pensiero è stato di creare uno strumento che rispondesse meglio alle loro esigenze e così è nato un sistema di messaggistica con le lettere dell'alfabeto, che facilitava molto le comunicazioni e ha avuto un successo istantaneo. Oggi Ntt fattura 8 miliardi di euro solo sul traffico I-Mode".
Dunque partire dal basso e far circolare le idee. Ma come la mettiamo con il copyright? "Il problema della proprietà intellettuale è la questione fondamentale da risolvere: è la ragione principale per cui i media tradizionali non riescono a comunicare con questa classe creativa. Per cogliere lo spirito del tempo c'è bisogno di grande flessibilità e di grande libertà, altrimenti si rischia di soffocare la creatività dei singoli. Le normative vigenti in materia di copyright e i regolamenti fissi sulle architetture dei diversi sistemi di comunicazione non tengono conto di questi nuovi modelli di fruizione e finiscono per ostacolare l'emergere di killer application per i dispositivi mobili di nuova generazione, per la televisione interattiva e per tutti gli altri sistemi di comunicazione digitale".
Quindi? "Quindi le media companies tradizionali devono convincersi che conviene anche a loro mettere in circolazione liberamente almeno una parte dei contenuti proprietari".
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