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3 novembre 2008
L'Acquedotto Pugliese e i deliri di Petrella
Chi si ricorda di Cochabamba? Arroccata in una vallata andina a 2.400 metri d' altezza, la terza città della Bolivia ebbe il suo quarto d' ora di notorietà cinque anni fa, quando si trovò in prima linea nella battaglia anti-globalizzazione: di fronte all' aumento delle tariffe seguito alla privatizzazione dei servizi idrici, la popolazione scese in piazza contro la società californiana cui era stato appaltato il servizio, la Bechtel, mettendo a ferro e fuoco la cittadina per mesi, con morti e feriti, fino alla ri-pubblicizzazione del servizio. Per tutti i combattenti no global, quella sanguinosa battaglia è la tappa centrale nella guerra per l' acqua come bene comune. Da Cochabamba a Bari: «Il mio Acquedotto Pugliese nasce sotto la bandiera della ri-pubblicizzazione», annuncia il governatore Nichi Vendola. Ad agitare quella bandiera, Vendola ha messo Riccardo Petrella, l' economista spezzino docente di Mondializzazione all' Università cattolica di Lovanio e «no global dell' acqua», come si definisce lui stesso, cui viene affidata la presidenza del più grande acquedotto d' Europa, il terzo del mondo. Un grosso ente con 20mila chilometri di tubi attraverso quattro regioni e quasi 5 milioni di utenti, diventato società per azioni nel 1999, grazie a un mutuo ventennale di 392 miliardi a carico dello Stato, concesso dal governo D' Alema. L' acquedotto è ritornato in utile da tre anni, grazie alla cura impartitagli dall' industriale della pasta Francesco Divella, chiamato a gestirlo dall' allora governatore di centro-destra Raffaele Fitto, nella prospettiva di una futura privatizzazione. Ora il professore no-global è stato espressamente incaricato di fare marcia indietro, mettendo fine alla «gestione economicistica» di Divella, che Vendola ha rimproverato a Fitto durante tutta la campagna elettorale, anche se la privatizzazione dell' Acquedotto Pugliese è un obbligo di legge posto in capo alla Regione all' atto stesso del trasferimento della proprietà e la sua inadempienza potrebbe essere sanzionata dal governo. Punto e a capo, dunque. Ma siamo davvero davanti a un' «ubriacatura da privatizzazione», come la chiama Vendola? A una «mercificazione» dei diritti fondamentali, come la chiama Petrella? «Mi sembra che il dilemma pubblico-privato sia un' alternativa mal posta», commenta Nicola Rossi, ordinario di Economia politica a Tor Vergata, che è stato il consigliere economico del governo D' Alema. Per il deputato diessino, il punto fondamentale è un altro: qual è la missione che si vuole dare all' Acquedotto? «Il primo obiettivo è senz' altro portare a termine il massiccio programma d' investimenti che ci si è prefissi», puntualizza Rossi. E aggiunge con aria scettica: «Mi auguro che il nuovo consiglio sia in grado di farlo». In effetti l' Acquedotto è un' azienda molto complessa, con un giro d' affari di oltre 300 milioni e duemila dipendenti: chi l' amministra dovrà realizzare il piano d' investimenti da oltre 3,2 miliardi di euro, programmato fino al 2017, per eliminare il più possibile le perdite dalle reti idriche (49,5% in Puglia, contro una media del 29% a livello nazionale), riammodernarle, realizzare i potabilizzatori e altre infrastrutture. «Per realizzare un piano di questa portata ci vuole una governance chiara, lineare, non complicata come quella che si va costruendo», specifica Rossi. Il secondo obiettivo, secondo l' economista diessino, «dovrebbe essere di far uscire l' Acquedotto dalla nicchia provinciale», che gli va stretta. Anche questa non è una missione facile, soprattutto se finisce ingarbugliata nelle pastoie ideologiche. «Spetta ora alla Regione Puglia - ammonisce Rossi - l' onere della prova che un acquedotto pubblico funzioni bene quanto uno privatizzato». E la dimostrazione potrebbe avere conseguenze di vasta portata, se la generica impostazione «pubblico è bello» - che Vendola vuole applicare anche alla società di gestione degli aeroporti (Seap) e al settore sanitario - dovesse influenzare le future scelte dell' Unione sulle liberalizzazioni. «Come tutte le questioni serie - fa notare Antonio Massarutto, uno dei massimi esperti italiani di acqua, docente all' università di Udine e ricercatore dello Iefe-Bocconi - la questione idrica va affrontata seriamente, al riparo dalle frasi fatte, dalla demagogia e dai condizionamenti ideologici». E' ovvio ad esempio che quando si parla di privatizzazione non è certo la proprietà pubblica delle risorse idriche che si vuol mettere in discussione, come sembrerebbe dagli slogan no global sul «diritto all' acqua». «L' acqua è e resta una risorsa di proprietà comune e come tale inalienabile, semmai è in discussione la necessità d' introdurre un po' di logica economica nella pianificazione degli interventi e nei diritti di utilizzo», specifica Massarutto. «Chi teme che la privatizzazione porti a un business dell' acqua sulla pelle dei consumatori e dell' ambiente - argomenta Massarutto - dovrebbe forse riflettere sul fatto che il vero business, nel modello basato sulla gestione pubblica, lo hanno fatto i costruttori di opere e impianti spesso inutili, a spese dei contribuenti. Per non parlare dei signori delle autobotti siciliane, che sfruttano proprio le inefficienze del servizio pubblico per vendere a peso d' oro l' acqua agli utenti lasciati a secco».
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