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10 novembre 2008

Milton Friedman

Dal suo studio quasi si vede Silicon Valley, eppure tutti associano Milton Friedman, il padre dei monetaristi, con panorami molto più nordici e distese d'acqua dolce: è a Chicago, sul lago Michigan, che Friedman ha proseguito sulle orme di Hayek per formare una scuola neoliberista ormai vincente sulla politica economica americana e non solo. Da quando si è trasferito in California, alla Hoover Institution, l'ultranovantenne premio Nobel si occupa sempre più di cause sociali, come quella dei voucher per la scuola che ha appena vinto, ma la vis polemica sulle questioni economiche non l'ha certo abbandonato.
Dunque siamo finalmente arrivati alla svolta, ma non tutti ci credono. Il governatore Alan Greenspan, ad esempio, sembra ancora titubante…
"Non credo che questa sia l'interpretazione giusta: la ripresa è già in corso da mesi, lo si vede dai numeri e sono certo che anche lui sia d'accordo su questo. Ma dalla sua politica si deduce che stavolta ha deciso di coprirsi le spalle da ogni rischio di ricaduta, anche remoto: contro l'inflazione c'è sempre tempo di agire, mentre la deflazione va colta prima che si verifichi. Questo non significa che Greenspan non creda nella ripresa".
Ma allora questa deflazione anche lei la considera un pericolo?
"No, mi sembra più probabile che si vada verso una fiammata dei prezzi come succede sempre in situazioni congiunturali di questo tipo. Con una crescita dell'8-10% all'anno della massa monetaria come quella che abbiamo in questo momento non può esserci deflazione o anche se ci fosse, non avrebbe la forza di frenare la ripresa".
Quindi lei giustifica quest'impennata dei rendimenti obbligazionari?
"Mi pare che sia del tutto giustificato da parte del mercato prendere qualche precauzione contro i rischi d'inflazione, con il ritmo di crescita a cui ci stiamo avviando".
Insomma lei è molto ottimista sul futuro dell'economia americana.
"Molto. Mi sembra che gli stimoli dati siano quelli giusti e che la crescita sia destinata a passare dal 2-3 per cento degli scorsi due trimestri verso un 3-4% dei prossimi, o anche di più".
Ma allora perché gli americani continuano a lamentarsi?
"Spesso gli americani scambiano l'economia con la finanza. E in effetti li posso capire, perché il crollo di Wall Street ha avuto vaste ripercussioni sulla vita quotidiana e sul futuro di molta gente, spazzando via la sua pensione e costringendola a continuare a lavorare. In questi anni gli americani sono davvero diventati più poveri, è quindi logico che se la prendano con l'economia, anche se in realtà la macchina produttiva si è già rimessa in moto da un bel pezzo".
Eppure la disoccupazione continua a salire…
"Questo purtroppo è uno dei fattori che ci mettono più tempo per riaggiustarsi dopo una recessione, soprattutto in un momento di grande innovazione tecnologica come questo, dove la produttività cresce a dismisura e consente alle aziende di tirare avanti anche a organici ridotti. In questi casi le aziende tendono a rimandare le assunzioni fino a quando sono ben sicure che la ripresa c'è davvero. Ma credo che nel corso dei primi mesi del 2004 la disoccupazione comincerà a calare. E comunque non dimentichiamoci che in altri periodi storici o in altri continenti una disoccupazione al 6% sarebbe benvenuta".
Si riferisce all'Europa?
"Sì, l'Europa mi sembra in una situazione ben più drammatica degli Stati Uniti. La recessione in Germania, Francia e Italia è un guaio serio, anche perché con una politica monetaria comune sarà molto difficile dare gli stimoli giusti per venirne fuori rapidamente. L'euro sarà anche forte, ma non rende certo forte l'Europa, che ha una situazione economica interna molto variegata e spesso contraddittoria da Paese a Paese. Le esigenze della Germania non sono certo le stesse dell'Irlanda, ad esempio. E in queste condizioni non vedo come sia possibile dare i segnali giusti alle economie di tutti e due questi Paesi".
Insomma, lei non crede che l'euro avrà vita lunga…
"Certo non mi sembra in ottima salute dopo le recenti violazioni del Patto di stabilità e i danni che sta causando in giro la Bce. Vedo scarse possibilità che gli svedesi vi aderiscano e ancor meno per i britannici. Alla lunga questa costruzione potrebbe non tenere". Non saremo mica i soli ad avere dei problemi strutturali. Guardi la voragine che il presidente
Bush ha scavato nei vostri conti pubblici…
"Per me il problema fondamentale è ridurre il volume complessivo del bilancio, non le sue perdite. Un bilancio da 200 miliardi di dollari in deficit per 100 è sempre meglio di un bilancio da 500 miliardi in pareggio".
Ma mi sembra che Bush stia andando esattamente nella direzione opposta.
"Questo semmai è il problema. Purtroppo, però, ormai ci siamo impantanati in questa campagna in Iraq e non c'è altra scelta che andare fino in fondo".

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