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21 novembre 2008
Rinascimento virtuale e mondo reale
Nuovi talenti avanzano dal mondo sintetico e il rinascimento virtuale dallo schermo si fa strada nel mondo reale. E' una nuova specie artistica e antropologica oppure una generazione di geni creativi minacciati di estinzione precoce?
Il problema è sempre lo stesso: vendere arte digitale non è facile. Steven Sacks, che vi si dedica con successo da quasi dieci anni, lo sa bene. Nel 2001 ha aperto a Chelsea bitforms, la prima galleria dedicata esclusivamente ai nuovi media. Nel 2005 ha affiancato alla galleria due nuovi spazi, uno fisico a Seul e uno virtuale, chiamato softwareARTspace (www.softwareartspace.com) e interamente dedicato alla Software Art. Tutta la New Media Art si basa sul software, ma la Software Art lo elegge a principale strumento espressivo, ora esplorando le sue implicazioni culturali e ideologiche, ora soffermandosi sui suoi aspetti formali. In quest'ultimo caso si serve spesso di algoritmi generativi, in grado cioè di elaborare in maniera autonoma dei dati di partenza, generando un output visivo o sonoro. La Software Art, quindi, rimane strettamente legata allo schermo e risulta più difficile da vendere. Ma Sacks, definito da Wired “il re della Digital Art”, non ha dubbi: “E' la novità più significativa nella pratica artistica vissuta dalla mia generazione”. Da qui l'esigenza di studiare nuove strategie di vendita e di diffusione.
Sacks viene da una famiglia di galleristi ma si definisce un “dotcom burnout”: co-fondatore di una società di marketing e branding online, Digital Pulp, ne è uscito nel '99 “senza sapere bene che cosa fare dopo”. Ha vissuto in tutti e due i mondi e li conosce bene. Così gli è bastato visitare due grandi mostre di arte digitale, BitStreams al Whitney Museum di New York e 010101.org al San Francisco Museum of Modern Art, per rimanere folgorato. Da lì è partito, per colmare un gap nel mercato: non esisteva niente di simile a una galleria d'arte digitale. Ammesso che di mercato si possa parlare. Ancora oggi, infatti, gallerie come la sua si contano sulle dita di una mano. Non è solo la novità del genere che lascia perplessi i fruitori, spesso abituati a novità ben più scioccanti. Ma sono soprattutto questioni cruciali come le modalità di archiviazione, la longevità, la proprietà intellettuale dei materiali utilizzati. Perfino la definizione di arte digitale è controversa: si tratta davvero di una forma d'arte o è solo una versione più elaborata di uno screensaver ben congegnato? E poi: dopo aver fissato uno schermo di computer tutto il giorno nelle ore lavorative, vogliamo davvero tornare davanti a uno schermo anche per godere dell'arte nel tempo libero?
C'è chi vuole. Come ha scoperto Sacks nel frattempo, l'offerta finisce per stimolare la domanda. Uno dei primi collezionisti che ha abboccato all'amo di bitforms è Peter Hirshberg, imprenditore e manager di Silicon Valley, che ha appeso nel suo loft di Soho un'opera ormai famosa di Mark Napier, Waiting Room. Lo schermo su cui si muovono rutilanti figure astratte accompagnate da suoni fa parte di un network condiviso da 50 collezionisti - ognuno dei quali possiede una quota dell'opera – e può essere manipolato collettivamente via touchscreen. Con l'effetto bizzarro di essere magari svegliati nel cuore della notte dal baccano generato da altri che stanno sull'altra costa e si divertono a giocare con lo schermo tra l'aperitivo e la cena. Ma l'obiettivo di Sacks è di uscire dalla ristretta cerchia dei net-milionari per approdare nel mainstream. Ormai per meno di mille dollari chiunque si può mettere in casa un sistema dedicato alla Software Art e le singole opere si vendono a prezzi contenuti in confronto ad altri tipi di arte contemporanea. Questa è la ragione che lo ha portato ad allargarsi in Estremo Oriente e poi a sbarcare in rete.
La sua attività d'intermediazione fra gli artisti digitali e il vasto mondo reale, volta a sviluppare un mercato e spostare ricchezza da una tasca a un'altra, resta però controversa. Può sembrare in contraddizione con gli ideali di libera circolazione delle idee tipici del web 2.0. Infatti Sacks viene spesso accusato di trasformare la Software Art in merce, riducendola a “componente d'arredamento” e limitandone il potenziale democratico. Si dimentica così – o si preferisce ignorare - un fatto elementare: nella pratica, l'arte digitale non è per niente in sintonia con gli ideali democratici della rete.
Come le stampe, le foto e altre opere d'arte facilmente riproducibili, l'arte digitale si vende di solito in edizioni molto limitate: in pratica, l'artista deve promettere di non produrre più di tre, quattro o cinque copie di un certo lavoro. Solo in questo modo il collezionista è rassicurato sul valore dell'opera acquistata, che non verrà diluito nel tempo da un fiume di copie. Per questo gli artisti digitali, come la stragrande maggioranza dei cantanti e degli scrittori, evitano il web come la peste: l'infinita possibilità di replica tipica della rete non fa altro che ridurre il valore delle loro opere e quindi minacciare la loro sopravvivenza. C'è anche un problema di qualità: l'arte digitale reperibile in rete non ha niente a che fare con le stesse opere visionate in originale. Basta guardare e confrontare: come si può capire dalla pallida riproduzione su YouTube, ad esempio, un'opera come The More The Better di Nam June Paik, composta da tre diversi flussi d'immagini trasmesse da un migliaio di monitor, affastellati su una torre alta quasi venti metri? Gli artisti digitali, come altri performer, di solito danno indicazioni precisissime su come e dove devono essere posizionati i monitor che trasmettono i loro lavori: è chiaro che un video postato malamente sul web non potrà mai riprodurre la sensazione creata dalle stesse immagini trasmesse in un'installazione di maxischermi nel buio di una galleria.
Questo non significa che sul web sia impossibile trovare arte digitale anche di buon livello. Anzi. Nel vasto mondo degli artisti digitali ce ne sono molti che creano opere fruibili solo sul web, utilizzando elementi interattivi specifici, del tutto analoghi a quelli usati nei videogames. Rhizome.org - potente braccio digitale del New Museum di Soho - ospita un archivio di oltre duemila progetti di questo tipo, che ovviamente non sono destinati a essere commercializzati.
Second Life, a sua volta, pullula di artisti e ospita diversi spazi espositivi. Ars Virtua è uno di questi. Situata sul confine di Butler e Dowden, è un centro New Media di tremila metri quadri fondato nel 2005 da un gruppo di studenti del Cadre, il laboratorio di New Media della San José State University. Ha un curatore a tempo pieno, un programma di residenze per artisti e ha già organizzato diverse mostre. Imaging Place è un altro: si tratta della trasposizione virtuale di un complesso progetto lanciato nel '97 dall'artista statunitense John Craig Freeman (JC Fremont su Second Life). E' un'installazione interattiva che consente di investigare, attraverso mappe satellitari, video e fotografie, situazioni in cui le forze della globalizzazione stanno cambiando la vita dei singoli e delle comunità. L'artista non proietta video, ma crea installazioni che prevedono una piattaforma aerea - rivestita con una mappa satellitare - collegata tramite sentieri filiformi percorribili dall'utente e delle bolle sospese nell'aria. Entrando nella bolla, l'avatar entra nel luogo fotografato, con un effetto di straniamento causato dal contrasto tra virtuale e reale. Ma questi sono solo alcuni esempi. La vita artistica e gli spazi espositivi di Second Life meriterebbero un capitolo a sé.
Altri siti dedicati all'arte digitale - come UbuWeb (una sorta di YouTube dell'avanguardia artistica), Your Gallery (braccio virtuale della galleria Saatchi) o Videoart.net - mettono in rete soprattutto opere ormai considerate “classiche” oppure di artisti meno conosciuti, che in questo modo sperano di farsi strada. Il paradosso è che non appena si sono fatti strada, esponendo in qualche mostra importante, cercano immediatamente di eliminare dal web le loro opere.
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