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31 dicembre 2008
La rivoluzione colturale parte dalle città
Gli antichi greci ci insegnano che l'umanità deve la capacità di coltivare i campi alla generosità di una dea. I semi di grano donati da Demetra al suo sacerdote, perché li distribuisse sorvolando il pianeta in lungo e in largo sul suo cocchio alato, hanno rappresentato per millenni il simbolo stesso della civiltà. Ma da allora ad oggi, le cose sono molto cambiate. Le tecniche agricole sviluppate dalla civiltà neolitica - in realtà ben prima e ben più a Est dell'Olimpo, nella Mezzaluna Fertile mediorientale oltre diecimila anni fa - si sono trasformate in una delle principali fonti d'inquinamento del pianeta. La benedizione della dea ha consentito all'umanità di moltiplicarsi e di colonizzare tutte le terre emerse, ma in questo processo ha causato danni colossali all'ambiente in cui viviamo. La deforestazione e il degrado del suolo sono andati avanti per millenni. L'avvento, nella prima metà del secolo scorso, dell'agricoltura meccanizzata e delle monoculture, per far fronte all'impennata dei fabbisogni alimentari mondiali, ha raddoppiato l'approvvigionamento globale di grano, mais e riso, ma ha nettamente aggravato i danni ambientali, portando alla perdita di biodiversità, al crescente consumo di combustibili fossili, all'uso sempre più spinto di pesticidi, diserbanti e fertilizzanti chimici. Il livello di tossicità dell'industria agricola continua ad aumentare, man mano che le erbe infestanti e i parassiti diventano resistenti ai veleni. Queste dosi sempre più micidiali inondano l'ambiente a ogni acquazzone, degradando il suolo, "bruciato" dai fertilizzanti. Benché i pesticidi più pericolosi, tossici e a volte cancerogeni della prima metà del secolo scorso, siano stati pressoché eliminati dall'uso agricolo (ma il Ddt continua a essere usato nei Paesi in via di sviluppo), i loro effetti non sono stati del tutto rimossi e lo scolo di fertilizzanti, pesticidi e diserbanti resta la principale fonte di inquinamento delle acque. Ora il sistema si scontra con i suoi limiti: le terre sfuttabili a fini agricoli sono sostanzialmente esaurite e la popolazione mondiale continua a crescere. La prima crisi, dovuta all'aumento repentino dei prezzi dei cereali, è avvenuta l'anno scorso, con una serie di rivolte del pane in tutto il Sud del mondo. Se la curva demografica globale ci porterà, come dicono le previsioni, a 9 miliardi di individui entro il 2050, per soddisfare la fame dell'umanità dovremmo aggiungere alle superfici attualmente coltivate un'estensione equivalente a tutto il territorio del Brasile. Ma questa terra arabile non esiste. Di conseguenza, gli esperti sono concordi nel sostenere che da qui ad allora l'agricoltura dovrà cambiare radicalmente faccia. Su cosa si baserà la nuova rivoluzione verde? La via che porta all'agricoltura sostenibile passa inevitabilmente per l'economia della conoscenza. Da un lato la conoscenza genetica delle piante consentirà di introdurre delle modifiche per renderle naturalmente resistenti ai parassiti, che abbattono di un terzo la produttività agricola del mondo, malgrado l'utilizzo diffuso di pesticidi. Dall'altro lato le conoscenze tecniche sull'energia verde, sulla desalinizzazione e sull'irrigazione “on demand” potranno ridurre la dipendenza dell'agricoltura dai combustibili fossili e gli enormi sprechi di acqua, consentendo anche di far fiorire il deserto, com'è già avvenuto in Israele. Le conoscenze urbanistiche, infine, ci spingono sempre di più a concentrare gli insediamenti per limitare l'eccessiva dispersione umana sul territorio, con il suo relativo impatto ambientale, e questa tendenza coinvolge anche la produzione alimentare. Basta guardare come si distribuisce la popolazione mondiale per capire che l'agricoltura urbana è il nostro futuro. All'inizio dell'800 il 90% degli americani lavorava la terra. All'inizio del '900 era il 40% e oggi non arriva al 4%. Lo stesso trend si ripropone in tutti i Paesi industrializzati. Quest'anno, per la prima volta nella storia dell'umanità, oltre la metà della popolazione mondiale risulta concentrata nelle città. E le previsioni dicono che nel 2050 gli agglomerati urbani ospiteranno l'80% dell'umanità. Per alimentare tutta questa gente, quale sistema migliore di costruire in loco le fattorie dove cresceranno le piante e gli animali destinati a sfamarli? Con 170 grattacieli di 30 piani, a pianta quadrata di due ettari (l'equivalente di un isolato a Manhattan), Dickson Despommier, professore alla Columbia University, assicura di essere in grado di sfamare tutta New York. Lotti vacanti o inutilizzati di questa dimensione in città ce ne sono 1.200: lui li ha contati. Con le tecniche di coltivazione idroponica, l'illuminazione a Led e la somministrazione controllata dell'esatta quantità di umidità e nutrienti necessari, le fattorie verticali di Despommier potrebbero produrre raccolti a ciclo continuo tutto l'anno, 20 volte di più di un appezzamento di terreno paragonabile. Potrebbero riciclare l'acqua che la città butta via, filtrandola e rimettendola in circolazione. Potrebbero produrre con il sole, il vento e la biomassa di scarto tutta l'energia necessaria per far funzionare ogni fattoria a impatto zero. Si tratta solo di decidere chi riuscirà a conquistare quell'ufficio d'angolo al trentesimo piano, esposto a Sud, con vista sull'oceano: i pomodori o le fragole?
30 dicembre 2008
Kyoto ama l'ambiente ma fa soffrire il Pil
Kyoto ama l'ambiente, ma fa soffrire il Pil. Le stime del suo impatto sui prezzi dell'energia e sulla crescita economica si sprecano. Secondo uno degli studi più recenti (condotto dalla società di analisi Global Insight per l'International Council for Capital Formation, noto think tank d'impostazione liberista basato a Bruxelles), la riduzione delle emissioni del 6,5% imposta dal protocollo potrebbe decurtare di mezzo punto percentuale il Pil italiano da qui al 2010 e di quasi 2 punti da qui al 2020. La stessa commissaria europea all'Energia e ai Trasporti, Loyola De Palacio, ha ammesso che "l'Italia ha un problema, se vuole mantenere la sua crescita e nel contempo rispettare gli impegni di Kyoto: già oggi deve importare parte dell'energia che usa". Secondo la commissaria le uniche due strade percorribili sono "le fonti rinnovabili o il nucleare". La De Palacio, com'è noto, propende per il nucleare. O meglio, considera l'opzione nucleare l'unica alternativa ai combustibili fossili fruibile nell'immediato. E non è l'unica: Tony Blair ha appena manifestato l'intenzione di ampliare il parco nucleare britannico (secondo in Europa solo a quello francese), proprio per rispettare i parametri di Kyoto senza rinunciare alla crescita. Ma l'Italia non può premere sul pedale del nucleare e quindi si trova di fronte a un dilemma: come ridurre le emissioni di anidride carbonica senza danneggiare l'economia? Un dilemma valido per tutti i Paesi industrializzati, ma particolarmente acuto nel contesto italiano, caratterizzato da una dipendenza dal petrolio molto più marcata e da un grave deficit di generazione elettrica, che già oggi causa bollette più alte del 20% rispetto alla media europea. Ecco perché Roma sta trascinando i piedi sul piano di allocazione nazionale delle quote di emissione, l'elemento fondamentale su cui si baserà l'applicazione in Europa del protocollo di Kyoto. "Se non ci si metterà d'accordo entro ottobre - commenta il direttore generale del ministero dell'Ambiente Corrado Clini, negoziatore italiano a Bruxelles - si potrebbe anche arrivare a una rottura e tutta la materia potrebbe tornare all'esame del Parlamento europeo". Non è la prima volta che Clini punta i piedi su Kyoto: nel maggio 2001, quando l'Unione Europea si apprestava a decidere l'applicazione unilaterale del protocollo e il governo Amato stava per passare la mano al governo Berlusconi, l'artefice della diplomazia ambientale italiana causò un mezzo incidente diplomatico, formalizzando a Bruxelles le riserve italiane - in netto contrasto con la posizione del ministro in carica Willer Bordon - e allineandosi in pieno con il programma elettorale della CdL, che definiva "devastanti per l’economia e l’occupazione" gli accordi di Kyoto. La stessa visione del governo Bush, contrario alla ratifica del protocollo firmato da Clinton nel '97. Ma subito prima di cedere la sua poltrona ad Altero Matteoli, Bordon diede la piena adesione dell’Italia al documento predisposto dall’Ue, con cui si sanciva la volontà dell’Unione di procedere unilateralmente all'applicazione di Kyoto. E infatti il protocollo è stato ratificato da tutti i Paesi europei entro il 2002 e nel 2003 è passata la direttiva sull'Emissions Trading, da cui discendono i piani nazionali di allocazione dei permessi di emissione. Oggi il ministero italiano dell'Ambiente ha una posizione formalmente diversa: "Non pensiamo di mettere in discussione - spiega Clini - l'obbligo dell'Italia di tagliare il 6,5% delle emissioni di anidride carbonica rispetto allo status quo del '90, come vuole Kyoto". Ma Roma ha sempre mantenuto le sue riserve, coalizzandosi con la Spagna e la Finlandia per tirare il freno sull'applicazione unilaterale del protocollo. A questo punto, l'Italia spera nell'avvicendamento ai vertici dell'Unione per evitare l'obbligo di applicare i tetti rigidi richiesti dalla direttiva sull'Emissions Trading, come risulta chiaro anche dal piano di allocazione delle quote che Clini ha presentato in luglio a Bruxelles. "E' necessario - puntualizza Clini - che vengano riconosciute le diverse condizioni di partenza dell'Italia rispetto agli altri Paesi europei: da un lato abbiamo un sistema industriale che ha già raggiunto un'elevata efficienza energetica, dall'altro lato abbiamo un grave gap da colmare tra domanda e offerta di energia, che gli altri Paesi non hanno. Non possiamo pianificare il blackout elettrico del Paese". Sui possibili aumenti della bolletta elettrica legati a Kyoto si è appena pronunciata anche l'Autorità dell'energia, difendendo il piano italiano presentato a Bruxelles e minacciando rincari nell'ordine del 5% o più, se si seguisse "una mera interpretazione letterale della direttiva europea". In pratica, l'Italia chiede all'Unione maggiore flessibilità: "Vogliamo evitare ad ogni costo che tutto si riduca a interventi unilaterali di sapore dirigistico". E non fa mistero di un certo scetticismo nei confronti del meccanismo su cui dovrebbe basarsi in mercato interno delle emissioni: "Posto un tetto di emissione - descrive Clini - ogni sito produttivo disciplinato dalla direttiva otterrà un certo numero di permessi, misurati in tonnellate metriche di anidride carbonica, che potranno essere scambiati con altri sotto forma di quote. I settori più coinvolti sono quello energetico, minerario, siderurgico, cartario, le raffinerie, i cementifici, le vetrerie, i prodotti ceramici e i laterizi. Se a fine anno un'azienda oltrepasserà il numero di permessi che le è stato assegnato, sarà passibile di sanzioni di 40 euro a tonnellata nel periodo 2005-2007 e di 100 euro dal 2008. Ma dove sono finiti i meccanismi di mercato?"Per di più Roma non vuole perdere di vista il contesto internazionale, anche per motivi economici: "Preferiamo puntare sui crediti derivanti da progetti realizzati in cooperazione con i Paesi dell'Europa orientale o con quelli in via di sviluppo - insiste Clini - dove i costi sono molto più contenuti. Il costo intereuropeo di una tonnellata di anidride carbonica varia dai 15 ai 40 dollari, mentre nei Paesi meno industrializzati si aggira sui 5 dollari. Abbiamo già aperto un fondo presso la Banca Mondiale, l'Italian Carbon Fund, fatto apposta per comprare crediti fuori dall'Europa. E abbiamo già chiarito a Bruxelles che il pieno recepimento in Italia della direttiva sull'Emissions Trading è fortemente legato all’approvazione della cosiddetta Linking Directive, che regolamenterà l’uso di questi crediti, favorendo il processo di internazionalizzazione delle imprese".
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28 dicembre 2008
Vuoi cambiare gestore? Aspetta il Trova Offerte
Con il petrolio a 140 dollari al barile, l'estate scorsa, andavano di moda le offerte di energia elettrica a prezzo bloccato, che hanno portato ai penosi strascichi di due settimane fa, quando l'Antitrust ha distribuito oltre un milione di euro di multe a nove società elettriche, dall'Eni (260mila euro) a Enìa (95mila), passando per Enel, Acea e altre, che avrebbero indotto in errore i consumatori sull'entità degli sconti. Ora che il barile è sceso sotto i 50 dollari, le mode sono altre. Enel, ad esempio, ha appena lanciato una “tariffa scommessa”, capace di regalare ottimi sconti sull'elettricità se si è capaci di prevedere con sufficiente precisione i propri consumi medi, ma con il rischio di pagare ben di più se i consumi, nella pratica, risultano del 30-40% superiori o inferiori al previsto. L'offerta prevede tre taglie, dalla Small (100 kilowattora mensili, 12 euro al mese fissi per due anni, escluse le imposte) alla Large (300 kWh a 44 euro mensili). E' difficile, però, metterla a confronto con altre offerte correnti, finché non verrà lanciato, fra un paio di settimane, il Trova Offerte sul sito dell'Autorità dell'Energia, uno strumento che permetterà di chiarificare i termini e confrontare le offerte di energia elettrica (non di gas) presenti nella propria zona di residenza, sul modello dell'Energy Watch gestito dalla britannica Ofgem. Il servizio, che renderà consultabili sul web delle schede annuali di prezzo divise per categorie (ad esempio tutte le forniture di energia verde verranno separate dalle altre), consentirà di mettere a confronto le offerte del mercato libero con i prezzi regolamentati dall'Authority, già scesi nel primo trimestre dell'anno e presumibilmente ancora in discesa a fine marzo, dato l'andamento delle quotazioni petrolifere.
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26 dicembre 2008
Cabir, Lasco e l'anno dei virus mobili
In principio c'era Cabir. Ma il primo virus dei cellulari, comparso la scorsa estate, ha già un successore, ancora più pericoloso: lo chiamano Lasco. E non sarà certamente l'ultimo della serie. Il rapporto annuale di Ibm sulla sicurezza, uscito la settimana scorsa, ha eletto il 2005 ad “anno dei virus mobili”: man mano che aumenta la convergenza fra telefonini e computer, dice Ibm, crescerà anche la loro diffusione. Per ora sono esposti al virus solo gli utenti di smart phone e di telefonini di terza generazione su cui gira il sistema operativo Symbian (una delle piattaforme dominanti, usata da Nokia, Ericsson, Samsung, Panasonic, Siemens...). Un pubblico limitato, che non supera il 5% del popolo globale dei cellulari. Ma Symbian è la piattaforma che cresce più rapidamente e qualche giorno fa ha stretto un'alleanza con la rivale PalmSource per consentire una maggiore interoperabilità fra i loro apparecchi. L'epidemia dunque rischia di allargarsi in fretta. Guardiamo all'evoluzione di Cabir. Il virus – ormai diffuso sia in Europa che negli Stati Uniti e in Estremo Oriente – è stato configurato da un gruppo di hacker noto come “29A” per saltare da un cellulare all'altro utilizzando la connessione wireless Bluetooth. Se un telefono infetto arriva a una decina di metri da un altro apparecchio dotato di una connessione Bluetooth in modalità attiva, Cabir lo scopre e lo attacca. Una volta infettato, il virus può bloccare buona parte delle funzionalità dell'apparecchio. Lasco è simile a Cabir, ma ha un raggio d'azione più ampio: oltre che attraverso la connessione wireless, riesce a diffondersi anche tramite gli allegati trasmessi da un palmare a un altro. Per chi vuole evitare un incontro ravvicinato con il baco, l'unico consiglio è di tenere spenta la connessione Bluetooth nei momenti in cui non serve. Lasco è stato sviluppato da un programmatore brasiliano di 32 anni, Marcos Velasco, che gli ha prestato il suo cognome, poi abbreviato in Lasco o Lasco.A dal popolo degli hacker. Da qualche settimana il virus si può comunemente scaricare dal suo sito: http://www.velasco.com.br/. Basta scorrere tutta la homepage e cliccare sull'ultima voce: “download aqui”. Velasco, che campa della sua piccola azienda di software, abita a Volta Redonda, una città industriale a Ovest di Rio de Janeiro. Ha due bambini e una vasta collezione di vecchi computer, con cui vorrebbe un giorno allestire un museo. Ama i film con molti effetti speciali e gli piacerebbe scrivere un libro sui virus. Evidentemente di virus se ne intente, a giudicare dai commenti degli esperti sul suo interessante prodotto. “Si tratta di un vero virus, che funziona molto bene”, ha dichiarato preoccupato Mikko Hypponen, direttore della ricerca antivirus per F-Secure, una società finlandese leader in questo campo. “Il Cabir di Velasco – ha aggiunto Hypponen – è molto più virulento della versione originale, sviluppata da 29A. E' il primo virus per cellulari capace di infettare anche i file di sistema”. Per di più Velasco ha messo il suo codice in rete, consentendone l'uso al primo che passa. La diffusione del problema viene limitata dalla frammentazione del mercato: tra Symbian, Blackberry, Palm e PocketPc ci sono differenze tali da non consentire al virus di passare da un sistema all'altro. Ma la crescente penetrazione di Symbian e la progressiva omogeneizzazione dei diversi sistemi mano a mano che il mercato cresce sono i presupposti migliori per risvegliare l'interesse degli hacker. Non ci vorrà molto per cominciare a vedere in giro bachi ben più distruttivi, capaci di trafugare dati o di generare telefonate verso numeri speciali, con effetti immaginabili sulla bolletta. Gli ingredienti per cominciare una battaglia che potrebbe lasciare sul terreno morti e feriti, oltre a danni miliardari, ci sono tutti.
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25 dicembre 2008
Rete elettrica: pubblica o privata?
Con la riforma Marzano delle politiche energetiche ancora ferma al Senato, la partenza della Borsa elettrica che subisce uno slittamento dopo l' altro e le incertezze normative che frenano la costruzione di nuove centrali, nel mercato elettrico italiano avanza solo la privatizzazione di Terna, rete ad alta tensione di cui Enel deve progressivamente disfarsi per ottemperare all' obbligo di scindere la produzione dalla trasmissione. «Un passo obbligato e opportuno, anche se ho i miei dubbi che una privatizzazione integrale sia compatibile con la sicurezza del sistema», commenta Bruno Tabacci, presidente della Commissione Attività Produttive della Camera, che spezza una lancia a favore del controllo pubblico delle reti. Con il via libera del consiglio di amministrazione dell' Enel, il collocamento di metà di Terna è partito, ma l' orientamento sull' unificazione della rete con il Grtn (il gestore della rete, oggi in capo al ministero dell' Economia e candidato al matrimonio con Terna), deve ancora essere perfezionato con l' approvazione della riforma Marzano. Questo ritardo non sta diventando preoccupante? «Molto preoccupante. Il provvedimento non sta seguendo un percorso lineare al Senato. Così rischiamo di complicare il terzo passaggio alla Camera, dove la riforma dovrà comunque ritornare. Quanto all' unificazione del Grtn con Terna, avverrà sicuramente dopo la quotazione per garantire la massima trasparenza al momento del collocamento. Il progressivo scorporo della rete da Enel e la contestuale unificazione col Grtn sono una buona cosa, perché promuovono la concorrenza in un mercato ancora tutto da sviluppare e risolvono il conflitto d' interessi del proprietario della rete con il suo gestore. Quando la privatizzazione andrà a regime, anzi, sarebbe auspicabile anche un' unificazione con Snam Rete Gas. Ma alla lunga sarebbe opportuno l' ingresso di un azionista neutrale, tipo Cassa depositi e prestiti, che tenga in mano il comando del sistema». Resta il fatto che alla liberalizzazione mancano molti tasselli: la partenza della Borsa, considerata essenziale dagli operatori, slitta ormai da mesi... «Naturalmente l' avvio della Borsa è importante, ma bisogna rendersi conto che è difficile costruire un mercato efficiente in presenza di una carenza di offerta, come quella in cui ci troviamo oggi. È per questo che la partenza viene continuamente rinviata. Inoltre se i contratti bilaterali diventeranno prevalenti rispetto ai volumi scambiati sul mercato, la Borsa elettrica sarà una borsetta priva di qualsiasi rilevanza. Per dar fiato agli scambi bisognerebbe incrementare l' offerta, costruendo nuove centrali o potenziando quelle esistenti, e convogliare il più possibile l' energia disponibile verso la Borsa». Due argomenti scottanti. Da un lato le oscillazioni normative che intralciano i progetti e scoraggiano gli investimenti, dall' altro la mancanza di trasparenza sul fronte dell' offerta - ad esempio con il regime cosiddetto Cip6 o con gli incentivi ai clienti interrompibili - rischiano di bloccare la liberalizzazione del mercato. «I contrasti fra Stato ed enti locali sulle centrali sono un grave ostacolo all' incremento dell' offerta: l' energia non dovrebbe essere materia inclusa nell' articolo 117 della Costituzione, che ho anche proposto di modificare su questo punto. Almeno le centrali sopra i 300Mw dovrebbero essere considerate alla stessa stregua delle grandi infrastrutture e sottoposte solo alla potestà statale». E sulla questione del Cip6? «La Commissione attività produttive ha già invitato il governo a cambiare strada. Il Cip6 garantisce una tariffa molto più alta dei valori di mercato all' energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili e "assimilate", per incentivare la tutela dell' ambiente. Ma le fonti assimilate non sono altro che fonti convenzionali mascherate, con grande apporto di idrocarburi, che hanno ormai quasi completamente fagocitato gli incentivi, coprendo il 13-14% della produzione nazionale (le vere rinnovabili non superano il 4%). In questo modo noi dichiariamo di ottemperare all' accordo di Kyoto e invece non è vero. Ma a quale titolo può essere imposta ai cittadini e alle imprese una tassa occulta a favore dei produttori di energia da fonti assimilate stimata in oltre 30 miliardi di euro in 15 anni?». E gli incentivi ai clienti interrompibili? «Non quadrano. Bisognerebbe distinguere gli interrompibili veri da quelli finti e smettere di concedere sussidi immotivati a chi è interrompibile solo di nome». Insomma questa liberalizzazione pesta troppi piedi per aver vita facile. Che cosa bisognerebbe fare per darle una spinta? «Bisogna avanzare con decisione sulla strada delle privatizzazioni, introdurre maggiore flessibilità nelle autorizzazioni ai nuovi impianti e rendere più chiari i rapporti nella catena di comando del sistema».
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Britsh Gas: fateci lavorare o ce ne andiamo
Abbiamo «scelto Brindisi per la sua posizione favorevole nel centro del Mediterraneo e per la presenza sulla costa di un sito già destinato all' energia, tra la centrale Edipower e il Petrolchimico. Un impianto di rigassificazione collocato in quella posizione è il modo migliore per collegare in maniera flessibile i giacimenti del Nord Africa con l' Europa, senza le rigidità tipiche dei metanodotti. British Gas costruisce impianti di questo tipo in tutto il mondo. Per Brindisi e per il mercato italiano del gas sarebbe un gran peccato se decidessimo di andarlo a fare altrove, magari in Spagna». Armando Henriques, amministratore delegato di British Gas Italia, è strabiliato, più che arrabbiato. La costruzione del vostro impianto è bloccata da due anni. Perché? «Intralci burocratici di tutti i tipi: in due anni l' impianto avrebbe potuto già essere pronto, invece siamo appena riusciti a cominciare i lavori di colmata». Ma le autorizzazioni le avete? «Il processo autorizzativo è finito nel 2003, con un decreto ministeriale emesso in accordo con la Regione, dopo una Conferenza servizi che ha coinvolto oltre venti istituzioni locali e nazionali. Nel decreto è scritto che possiamo costruire qui un rigassificatore da 8 miliardi di metri cubi l' anno, un decimo del fabbisogno italiano. Con quel documento in mano, abbiamo avviato le gare d' appalto in Italia e siamo andati a costruire sulla costa egiziana, a Idku, il terminale di liquefazione del gas destinato ad alimentare Brindisi con il metano che estraiamo dai nostri giacimenti egiziani. Quell' impianto di liquefazione è già pronto da tempo. Ma manca ancora il terminale gemello, in Puglia». Che cos' è successo nel frattempo? «Niente. Non è successo niente. Nessun grave incidente a qualche rigassificatore, che del resto sarebbe difficile, visto che il gas viene conservato in serbatoi sicurissimi a pressione ambiente, escludendo rischi di esplosione. Nessuna nube tossica, poiché il metano non inquina. Nessun caso di marea nera: eventuali versamenti di gas liquefatto in mare darebbero luogo solo a evaporazione, senza lasciare residui». Dev' essere pur successo qualcosa per ritardare di due anni «Le elezioni. I nuovi eletti in Comune, Provincia e Regione, Domenico Minnitti, Michele Errico e Nichi Vendola, vogliono spazzare via il lavoro dei predecessori. Ci hanno messo i bastoni fra le ruote in tutti i modi, con ricorsi al Tar e alla magistratura, ispezioni, blocchi, manifestazioni. Abbiamo dovuto muovere perfino l' ambasciatore britannico, sir Ivor Roberts, che è sceso a Brindisi prima di Natale per cercare un accordo. Non so perché vogliano ritirare la parola data, ma se il governo lo consentisse non sarebbe un grande esempio di credibilità». E voi? «Andiamo avanti. La pressione degli enti locali non può annullare il decreto di autorizzazione e il blocco del Tar è stato eliminato in ottobre da una sentenza del Consiglio di Stato, con cui si faceva notare che tutti questi ostacoli burocratici sono strumentali e stanno causando danni rilevanti alla società. Se ci lasciano lavorare, l' impianto sarà pronto nel 2008». Gli enti locali dicono che Brindisi aspira a rilanciare la propria vocazione turistica e vorrebbero spostare il terminale in qualche località dei dintorni. «Impossibile, dovremmo ricominciare daccapo con le autorizzazioni. Del resto ai fini turistici la localizzazione del terminale è ottima: nella zona industriale del porto esterno, a oltre tre chilometri dal porto interno, dove la città si affaccia sul mare. Il traffico di navi metaniere, 100 all' anno, interesserà solo la zona esterna per 70-80 minuti alla settimana. A Barcellona, nel centro del porto, c' è un terminale che accoglie 230 navi metaniere l' anno. E il turismo prospera. Questo impianto, un investimento da 390 milioni, è una grande opportunità di sviluppo per il territorio: dalla creazione di posti di lavoro alla formazione di competenze distintive, dagli investimenti indiretti ai servizi portuali e industriali connessi. Non c' è motivo di spostarlo».
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24 dicembre 2008
E' un telefonino, ma anche un portafoglio
Con i cellulari ormai si scattano foto, si naviga in rete, si ascolta musica. Perché non usarli anche come portafoglio digitale? La tecnologia esiste, in Giappone e in Corea si fa già, ma per essere accettato in Occidente il sistema ha ancora molta strada da fare. Alcuni degli ultimi cellulari – in particolare i Sony e i Nokia, due aziende che hanno scommesso da tempo su questo business – sono già dotati di un chip che consente di trasformarli in un portafoglio digitale. Caricati a dovere, questi telefonini possono assolvere al ruolo di una carta di credito semplicemente avvicinandoli a un parchimetro, a un distributore automatico di snack o a un registratore di cassa e dando l'indicazione dell'importo da pagare. Un'abitudine ancora sconosciuta in Occidente, ma il fenomeno merita una certa attenzione: secondo Juniper Research, infatti, il commercio tramite cellulare è destinato raggiungere un giro d'affari da 88 miliardi di dollari nel 2009. Resta il fatto che il chip da inserire nel telefonino è solo un lato dell'equazione: finché i commercianti non si decideranno ad investire nei lettori capaci d'interfacciarsi con questi cellulari e la tecnologia non sarà più diffusa, i consumatori non s'imbarcheranno in quest'avventura.
I primi ad avviare un esperimento di massa sono stati i giapponesi di Ntt DoCoMo, che hanno lanciato in luglio diversi telefonini dotati del chip necessario a diventare un portafoglio digitale. Il servizio, chiamato I-Mode FeliCa, consente di registrare una certa cifra sul telefonino, che può essere poi usata per fare acquisti in diverse catene di grandi magazzini, da McDonald's o per comprare i biglietti dei treni e degli aerei di alcune compagnie. In Norvegia, la Telenor ha avviato un sistema analogo poche settimane fa.
La tecnologia utilizzata è un'estensione del sistema Rfid (Radio Frequency Identification), un metodo di trasmissione dati a distanze modeste che viene già ampiamente applicato nella logistica della grande distribuzione. Il colosso olandese Philips è l'azienda produttrice più avanzata in questa tecnologia, chiamata Near Field Communication (Nfc) e ha annunciato all'inizio di quest'anno diversi accordi con Samsung, Sony e Nokia per inserire un chip Nfc in tutti i loro nuovi modelli. Oltre al protafoglio virtuale, gli analisti elencano miriadi di altre applicazioni, dalla registrazione della carta d'imbarco per abbreviare i tempi morti negli aeroporti all'archiviazione dei dati sanitari per portarseli sempre dietro.
Ma ogni sistema di pagamento comporta una vasta rete di cooperazione fra soggetti diversi: la tecnologia Nfc richiede d'inserire un sistema di lettura specifico nei terminali dei negozi per la trasmissione dati delle carte di credito e quindi il coinvolgimento delle società di emissione delle carte, oltre che dei commercianti. Visa, che sta lavorando da due anni con Philips per sviluppare questo sistema, è il prima colosso del credito che si muove con decisione in questo senso. Secondo Debbie Arnold, vicepresidente di Visa e responsabile per i sistemi non convenzionali di pagamento, il portafoglio virtuale è una logica evoluzione sia per le carte di credito che per i telefonini. “In quest'epoca di trasmissione dati ad alta velocità, di cellulari sempre più potenti e di commercio virtuale sempre più diffuso, è molto strano che le alternative digitali ai contanti stentino ancora a prendere piede”, fa notare Arnold.
Una spiegazione potrebbe essere la sicurezza. Che cosa succede quando un telefonino con migliaia di dollari registrati, o con altri dati riservati, va perso o viene rubato? Prima di affidarli al suo cellulare, l'utente vorrà almeno avere la certezza che l'accesso a questi dati non possa essere utilizzato da altri in maniera fraudolenta. Per ottenere questo risultato, alcuni produttori come Ericsson, Intel o Nokia stanno ricorrendo alla sicurezza biometrica e puntano su mini-scanner delle impronte digitali, talmente piccoli da poterli inserire in un telefonino. Così gli utenti saranno in grado di chiudere l'accesso ai dati e renderlo davvero esclusivo. Una soluzione che per ora resta però a livello sperimentale.
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23 dicembre 2008
Dal web 2.0 all'auto 2.0
Dal web 2.0 all’auto 2.0. E’ questo il percorso di Shai Agassi, arrivato ai vertici del gigante tedesco del software gestionale Sap e passato di colpo a un altro mondo, proprio quando stava per sedersi sulla poltrona di amministratore delegato. Sembra un percorso tortuoso, ma Shai invece è convinto di essere capitato nel posto giusto al momento giusto. La gente è stanca del vecchio motore a combustione interna e infatti i tre colossi dell’auto yankee, che non l’avevano capito, stanno morendo. La risposta a questo nuovo bisogno di viaggiare senza inquinare è produrre veicoli che non brucino petrolio: l’auto elettrica. Qualche tentativo c’è già stato, senza grande successo. Da un lato i veicoli prodotti finora sono troppo costosi per diventare auto di massa, dall’altro lato manca l’infrastruttura per ricaricare le batterie. Ma le grandi rivoluzioni non vengono mai dall’interno. La svolta epocale per reinventare l’industria automobilistica dovrà venire dall’esterno: solo una mentalità da informatico potrà riuscire a soddisfare le nuove esigenze di mobilità. Se Shai ha ragione, è in arrivo la “next big thing”.
L'uovo e la gallina
Ora come ora, il problema dell’auto elettrica assomiglia a quello dell'uovo e della gallina. La domanda è: non ci sono auto perchè mancano le stazioni di ricarica, o non ci sono le stazioni perchè mancano le auto? L’hardware esiste già da decenni, non ha bisogno di grandi progressi scientifici per funzionare. Eppure non riesce a prendere piede. Che cos'è che blocca l'auto elettrica? L’alto costo della batteria e l'autonomia limitata. Come risolverli? La risposta dell’auto ibrida, spinta al massimo dell’efficienza da Toyota, non funziona: malgrado gli incentivi statali, resta troppo costosa e ancora dipendente dal petrolio. Per risolvere il problema alla radice, bisogna inventare un nuovo modello di business, che non riproponga le stesse logiche della rete di distribuzione attuale.
Chilometri al posto di minuti
Il modello inventato da Shai si rifà alla telefonia cellulare e si regge su un piano di ricarica: un contratto flat per chilometri illimitati oppure piani tariffari per numero di chilometri. Invece di comprare minuti, si comprano chilometri, sotto forma di elettroni. La rete di ricarica (Electric Recharge Grid Operator) è intelligente, riconosce la macchina in carica, il piano tariffario sottoscritto e così via. E’ diffusa in tutte le aree di parcheggio, pubbliche e private. Ricaricare la macchina però richiede tempo. E se devo uscire per un imprevisto mentre la macchina è sotto carica? Nessun problema: la batteria non è di proprietà dell’utente, ma dell’operatore ed è sostituibile automaticamente con una già carica in apposite stazioni di servizio in pochi secondi. Archiviato il sistema dell’auto di proprietà e il carburante da comprare “on demand”, il trucco è questo: dividere la macchina dalla batteria e trattarle separatamente, visto che in un’auto elettrica la batteria costa molto più di tutto il resto. In questo modo l’auto (carrozzeria + motore) può essere comprata a un prezzo ragionevolissimo e il resto, batteria compresa, rientra in un piano tariffario certamente più economico della spesa che lo stesso automobilista dovrebbe affrontare comprando benzina o gasolio.
Carlos Ghosn è della partita
In pratica, Shai vede emergere dalle macerie dell’industria automobilistica un sistema nuovo, articolato in due categorie: i produttori di auto elettriche e gli operatori di network. Come dire una categoria di Nokia e una categoria di Vodafone. Lui vuole fare il signor Vodafone, mettere su la rete di distribuzione, le “elettrostazioni” di scambio delle batterie e vendere questi servizi a chilometraggio. La sua azienda, Better Place, dovrà assicurare la forza propulsiva necessaria per circolare a tutte le auto elettriche abbonate al servizio. A prezzi modici e senza petrolio. Shai, insomma, è convinto che la storia dell’uovo e della gallina vada risolta mettendo prima la rete e poi le auto. Ma ha già un partner importante, disposto a fornire l’hardware giusto per il suo network: Carlos Ghosn, il leggendario amministratore delegato di Renault e Nissan. A partire dall’anno prossimo, le due compagnie si sono impegnate a sfornare nelle quantità necessarie una serie di modelli simili a quelli più popolari oggi, dalla Mégane in su, dotati di un motore elettrico. E come tutte le startup, che hanno bisogno di una versione beta su cui sperimentare, Shai ha anche trovato un Paese disposto a fare da collaudatore al suo network: Israele.
Il re è nudo
Tutto ciò è stato fatto in meno di un anno. Fino al marzo 2007, Agassi era ancora il responsabile della strategia esecutiva di Sap e il delfino dell’amministratore delegato Henning Kagermann. In maggio, si era dimesso per lanciare il progetto Better Place. In pochi mesi, il progetto ha raccolto 200 milioni di dollari di finanziamento. Nel gennaio successivo, l’annuncio in Israele, con il primo ministro Ehud Olmert e il presidente Shimon Peres. Per consentire un lancio in grande stile dell’auto elettrica - che faciliterebbe l’affrancamento del Paese dalla pesante tassa agli sceicchi - Israele ha introdotto un incentivo fiscale che abbassa le imposte sui veicoli a emissioni zero dall’80 al 10%. Alla conferenza stampa Peres, il primo dei suoi fan, ha paragonato Agassi alla figura del bambino nella favola dei vestiti nuovi dell’imperatore. “Per introdurre questo drammatico cambiamento, abbiamo bisogno di un bambino che ci dica: guardate, l’imperatore è nudo! Noi tutti lo vediamo da soli, eppure nessuno lo dice. Ci vuole un bambino per mettere in moto la ribellione. Il bambino di questa storia, naturalmente, è Shai Agassi”.
Dopo Israele, la Danimarca
Un piano folle? Tutt'altro. Poco dopo aver convinto Israele, Better Place ha attirato l'interesse di una grossa utility danese, alla ricerca di un modo per sfruttare il surplus di energia prodotta dal vento. In quattro e quattr’otto, Agassi ha già stretto con il governo di Copenhagen un accordo analogo a quello firmato in Israele. La rete israeliana sarà operativa già l’anno prossimo e quella danese nel 2011. Poi si sono aggregate le Hawaii, il primo degli Stati americani a rompere il ghiaccio: molto adatte, essendo uno Stato-isola. Nel 2012 dovrebbe essere la volta dell'Australia e ci sono già trattative avanzate con il Giappone, dove la Subaru si è fatta avanti come partner per fornire le auto.
L'impresa di Agassi è decollata perché la sua idea ha convinto finanziatori, governi, compagnie automobilistiche, ma anche molti ingegneri e manager, che hanno lasciato posti sicuri per tentare la nuova avventura senza nemmeno conoscere il business plan della società, che si è installata a Palo Alto, a fianco dei giganti della Silicon Valley che la considerano una di loro. Divenuto ormai una celebrità — per gli analisti di Deutsche Bank il suo sistema rivoluzionerà l'industria dell'auto e potrebbe portare addirittura all'estinzione del motore a benzina — Agassi affronta ora la sfida più dura: quella del mercato americano. Le sue missioni a Washington non hanno dato grandi frutti: i politici sono sensibili alle energie alternative che riducono la dipendenza Usa dal petrolio d'importazione, ma temono che la schiavitù della benzina sia sostituita da quella delle batterie, visto che l'America oggi non produce questo tipo di accumulatori. Il buco nell'acqua a livello federale, però, è compensato dall'attenzione dei sindaci, che vogliono sperimentare il nuovo sistema a New York, a San Francisco, a Los Angeles e in alcune città del Michigan.
Sarà davvero energia pulita? Qualcuno potrà obiettare: mettendo in giro milioni di auto elettriche si smetterà forse di bruciare petrolio in ogni singolo motore a cambustione interna, ma la stessa energia dovrà pur essere prodotta da qualche altra parte e non sarà certo più pulita di prima. Anche su questo, Agassi non ha risposte dirette. Così come non vuole produrre auto, non vuole nemmeno produrre energia. Ma vuole stringere accordi di fornitura “il più possibile” con produttori di energia da fonti rinnovabili, così come si vede nell’esempio danese. In Israele, si è messo d’accordo con un imprenditore che sta costruendo una grande centrale solare termodinamica nel deserto del Negev, offrendo di ritirare tutta l’energia che sarà capace di produrre. Lo stesso sta facendo alle Hawaii. Per un operatore elettrico, ovviamente, è molto conveniente sapere già dove andrà a finire la sua produzione. Elimina un fattore di rischio insito nella costruzione di qualsiasi infrastruttura: l’incertezza dell’utenza. In ogni Paese dove stenderà la sua rete, Better Place tenterà di trovare forniture di energia verde. La presenza di Agassi, quindi, dovrebbe funzionare da catalizzatore per la produzione di energia da fonti rinnovabili.
Sarà la community a fare il grosso del lavoro E’ chiaro che ogni modello ha tanti punti deboli e anche Better Place mostrerà i suoi non appena verrà applicato nella pratica. Ma resta il fatto che Agassi ha colto un’esigenza ormai molto marcata nella società industriale e sta raccogliendo attorno a sé una community sempre più vasta, animata dalla speranza di emanciparsi da un’abitudine sporca e costosa senza dover per forza tornare indietro al carro a cavalli o alla bicicletta. Uno dei suoi discorsi preferiti, quando parla ai suoi collaboratori, suona così: “Continuiamo a pensare che siamo noi a vendere qualcosa a loro, ma non è vero. Non siamo noi che diamo loro qualcosa, sono loro che la danno a noi. La gente vuole che questo accada, noi ci troviamo solo sul loro percorso, più o meno per caso, e cerchiamo di assecondarli. Non stiamo creando niente di nuovo. Siamo dei facilitatori, non dei creatori. Sarà la community a fare il grosso del lavoro. Saranno loro a spingere sui politici. Saranno loro a vendere le auto. Noi dobbiamo solo accompagnarli e farci da parte al momento giusto”.
La dieta sul palmare
Dopo le feste, è tempo di rimettersi in forma. Per chi ha uno smart phone in tasca, può essere più facile. Una delle ultime novità in materia di diete tecnologiche è il programma prodotto della Weight Watchers in alleanza con Palm, che consente l'accesso via cellulare a tutti i dati relativi alla propria dieta, depositati in un elaboratore centrale. Weight Watchers On-the-Go, lanciato a metà dicembre, permette agli abbonati di consultare la lista dei cibi e di utilizzare una serie di strumenti interattivi per non perdere il conto dei punti mentre sono in giro. I fan della dieta Atkins, invece, dovranno attendere ancora qualche giorno. Atkins2Go, una guida ai carboidrati che misura anche l'aderenza alla tabella di marcia pasto per pasto, partirà alla fine di questo mese, con due versioni diverse sviluppate da NoviiMedia, una per i cellulari tradizionali e una più adatta agli smart phone. Atkins si sta mettendo d'accordo con i vari operatori mobili per consentire agli abbonati di pagare il servizio con un semplice sovrappiù sulla bolletta telefonica. E la mossa di Weight Watchers sta smuovendo tutto il mercato: anche South Beach Diet, una società specializzata in consigli nutrizionali meno famosa ma molto seguita negli Stati Uniti, si sta mettendo sulla stessa strada. Per gli appassionati di diete che sono spesso fuori casa, dunque, la vita si fa più facile.
"Così non è più necessario portarsi dietro il solito libretto con la tabella di marcia e i valori nutrizionali dei vari cibi", spiega Scott Parlee, il responsabile del programma Weight Watchers On-the-Go. "Al ristorante o in palestra, ora gli abbonati possono controllare direttamente quanti punti ha perso o ha guadagnato e quali sono i cibi compatibili con il suo regime. Questo li spinge a non eccedere anche quando sono lontano da casa”, precisa Parlee. Soprattutto per chi viaggia molto, il cellulare o lo smart phone sono diventati compagni inseparabili: con il nuovo sistema non ci sono più scuse per uscire dai binari. La risposta delle “cavie” usata nel periodo dei test è stata entusiastica. Manager, viaggiatori di commercio o inviati, abituati a mangiare quasi sempre al ristorante, ora possono navigare in un database di 25mila voci, che classifica alimenti, ristoranti e cibi confezionati, in base al programma dell'abbonato. In pratica, è come avere un sistema di posizionamento veloce sul terreno accidentato del mangiare sano.
Ma Weight Watchers non è la prima azienda a offrire contenuti di questo tipo sulle antenne dei telefonini: Handango, una società che vende applicazioni per cellulari e palmari, ha già venduto negli ultimi mesi 400mila programmi per maniaci della forma. Scaricare Diet & Exercise Assistant costa 20 dollari ed è ormai uno delle applicazioni più vendute: è specializzato nel monitoraggio della calorie assunte, che mette in relazione con quelle bruciate facendo del movimento. “Tutti i grandi consumatori di diete ormai sono sempre in giro con un cellulare o uno smart phone in tasca: un mercato gigantesco per questo tipo di contenuti”, commenta Clint Patterson, vice presidente di Handango. “Un cellulare – aggiunge Patterson - può gestire la tua dieta molto meglio di una moglie o un marito, perché è sempre con te”.
Weight Watchers ha capito dal successo di Fandango che era ora di muoversi: uno degli scogli principali della dieta, infatti, è il lavoro di contabilità che si deve fare per seguirla. Un avido misuratore di calorie farebbe di tutto per liberarsi da questo lavoro e delle applicazioni capaci di svolgerlo al suo posto rappresentano un ottimo motivo per mettersi in linea con il cellulare. Lo stesso concetto si può applicare agli strumenti per facilitare l'esercizio fisico, come i vari apparecchi che aiutano gli appassionati dello jogging a misurare la propsia performance con un sistema di posizionamento satellitare Gps. La Nike ne ha lanciato uno qualche mese fa in partnership con Philips: MP3RUN, che misura i chilometri percorsi e anche il battito cardiaco. Tutti sistemi che potrebbero essere facilmente integrati in un cellulare e in alcuni casi sperimentali lo sono già.
L'ampia area dei contenuti salutistici non è ancora diffusa in Europa, ma prima o poi lo sarà: non a caso il 60% dei decessi nel mondo industrializzato, secondo i dati dell'Oms, dipendono da malattie legate a una dieta poco sana o alla mancanza di esercizio.
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21 dicembre 2008
Gli operatori wireless hanno scoperto Dio
Lo strumento più diabolico del creato si converte sulla via di Damasco. Sms pubblicitari, musica da scaricare o tv sul telefonino non bastano più: ora gli utenti dei cellulari hanno trovato Dio. Dalla cupola di San Pietro alle atmosfere New Age, dai minareti di Dubai ai templi indù di Bombay, dalle guglie metodiste di Manchester al Muro del tempio di Gerusalemme, la svolta spirituale degli operatori wireless si percepisce a tutte le latitudini. Per soddisfare le esigenze di ogni fede, servizi di messaggistica religiosa spuntano come funghi ai quattro angoli del globo.
Per i seguaci dell'Islam, che già da anni hanno imparato a sfruttare in chiave ideologica i potenti mezzi della tecnologia, saranno disponibili entro la fine dell'anno in India, Bangladesh, Indonesia e Malesia dei telefonini prodotti dalla società LG Electronics, insieme all'operatore Ilkone Mobile Telecom di Dubai, che ricordano le ore delle cinque preghiere quotidiane, contengono in memoria il calendario lunare, oltre a una serie di versetti del Corano, e indicano la direzione della Mecca. Ma anche gli islamici che non vogliono cambiare il telefonino possono utilizzare i servizi di diverse società specializzate per “islamizzarlo”: ad esempio con il “muezzin digitale” della MyAdhan, che manda a chiunque lo richieda un sms con gli orari giusti per pregare nella sua area geografica, o attraverso il portale francese MobIslam, che offre loghi e suonerie islamiche, oltre al solito servizio di segnalazione degli orari di preghiera.
Il Vaticano non è da meno: Verizon ha appena lanciato il Pensiero del giorno del Papa – già disponibile da tempo in Irlanda e Regno Unito attraverso Vodafone - che arriva sul telefonino ai suoi utenti americani per la modica cifra di 30 cent a messaggino. Il Vaticano partecipa all'affare confezionando gli sms attraverso il provider italiano Acotel. Ora si sta pensando anche alla diffusione di mms con le immagini della messa domenicale in San Pietro. Sempre negli Stati Uniti, da settembre la californiana SMS Media Group offre il servizio Mfaith, che invia ogni giorno verso le 11 un sms con un versetto del Nuovo Testamento. Un servizio analogo è già disponibile da tempo in Australia, attraverso la locale Bible Society. In Russia la diocesi di Voronezh ha lanciato una “scuola di Bibbia” gratuita per sms, inviando ogni giorno, a chiunque lo chieda, qualche frase dell'Antico Testamento con allegati i compiti per casa.
Nelle Filippine, la società Smart Communications ha inventato un “rosario mobile” per aiutare a tenere il conto delle preghiere: ogni volta che si clicca sul telefonino si avanza di un grano. E' disponibile anche una “Via Crucis mobile” con delle immagini adatte a ognuna della 14 stazioni, che servono d'ispirazione all'utente in preghiera. Le autorità cattoliche filippine hanno vietato invece le confessioni per sms, che cominciavano a diffondersi. In Olanda l'episcopato locale offre 15 diverse suonerie con inni cattolici a 1,15 euro ciascuno. Nel Regno Unito l'Unione delle chiese metodiste ha lanciato qualche mese fa una campagna per chiedere ai giovani d'inventare un nuovo comandamento per il 21° secolo, da aggiungere ai dieci già noti, ed è stata sommersa da migliaia di sms con i suggerimenti più svariati. "Non devi adorare falsi idoli pop" è il comandamento che ha vinto il concorso, guadagnandosi in premio un videotelefonino.
Anche in India si può trovare l'ispirazione religiosa via cellulare attraverso l'operatore BPMobile, che invia le preghiere dei suoi utenti, mandate per sms, a un tempio di Bombay dove vengono offerte al Dio indù Ganesh. Lo stesso procedimento viene usato da una società israeliana per soddisfare l'antica usanza ebraica di infilare le proprie preghiere scritte su un bigliettino nelle fessure tra le antiche pietre del Muro del tempio di Salomone a Gerusalemme: un rabbino s'incarica di trascrivere gli sms e piazzarli nel luogo più sacro all'ebraismo mondiale.
Perfino gli insegnamenti New Age del guru Deepak Chopra si possono ricevere quotidianamente, abbonandosi per 3,25 dollari al mese a un servizio chiamato le Sette Leggi Spirituali, dal titolo del suo libro più famoso. Il servizio, disponibile solo negli Stati Uniti attraverso due operatori telefonici, fornisce un aforisma quotidiano e una serie di consigli dietologici. "E' straordinario - ha commentato recentemente lo stesso Chopra - che la gente possa trovare sollievo in frasi così brevi. Forse basta un piccolo richiamo quotidiano per non dimenticare il senso profondo della vita".
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20 dicembre 2008
Lubiana minaccia di chiudere il rubinetto
Allarme sulle importazioni di energia elettrica dall' estero: da un lato gli sloveni minacciano l' interruzione del flusso sul confine orientale, dall' altro Edf mette in discussione i contratti con Enel sulla frontiera occidentale, il che causerebbe all' Italia un danno da 150 milioni di euro. Parigi avrebbe deciso infatti di mettere all' asta questa energia, a prezzi sicuramente crescenti rispetto agli attuali, per uniformarsi a una direttiva europea. Ma la protesta ufficiale di Lubiana per la disparità di trattamento riservata dall' Italia agli operatori sloveni rispetto a quelli francesi e svizzeri, potrebbe causarci un danno ancora maggiore: «Vi chiediamo di rivedere i criteri di attribuzione delle capacità garantite sulle singole frontiere elettriche italiane per l' anno 2006, portando quella sul confine sloveno a 800MW», scrive Djordje Zebeljan, direttore generale del ministero sloveno dell' Industria, al suo omologo italiano Sergio Garribba. E tra le righe si capisce l' intenzione di puntare i piedi senza complimenti, anche interrompendo i flussi con misure strumentali, come la manutenzione «mirata» degli impianti. Il fatto è che il gestore della rete (ora Terna) tiene ferma da anni una delle due linee di collegamento con la Slovenia, perché sulle 18 interconnessioni tra la rete italiana e i Paesi limitrofi, una dev' essere sempre sgombra per fronteggiare le emergenze. In questo modo gli operatori sloveni possono usare solo una terna da 400MW per esportare in Italia, pur avendo a disposizione una capacità di carico ben superiore. Per di più la seconda terna, lungi dal restare sgombra, finisce per ospitare tutti i flussi in eccesso provenienti dagli operatori francesi e svizzeri che non riescono a passare sulle altre. Zebeljan suggerisce di riequilibrare i flussi, mettendo in riserva la nuova linea d' interconnessione con la Svizzera, appena inaugurata. «Favorendo il sovraccarico elettrico sulle altre frontiere - spiega Boris Peric di Kb, la società che rappresenta gli interessi degli operatori sloveni danneggiati - si determina di fatto una posizione dominante degli operatori elettrici francesi e svizzeri a discapito di quelli austriaci e sloveni, proprio nel momento in cui Enel sta estendendo la propria capacità produttiva nell' Europa dell' Est». Data la rilevanza dell' import di energia, che alimenta quasi un quinto del fabbisogno italiano, l' interruzione dei flussi dal confine orientale sarebbe una catastrofe per il sistema.
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Auto mangiapetrolio: stiamo salvando un cadavere?
Ha scelto una fabbrica della Renault, nel Nord della Francia a Douai, per annunciare un vasto piano di rilancio dell'economia: il presidente francese Nicolas Sarkozy ha reso pubblico un programma da 26 miliardi di euro, che comprende un robusto pacchetto a favore dell'industria automobilistica. Sarkozy incide così la prima crepa nella diga europea contro gli aiuti all'auto e da qui in poi si può star certi che si apriranno le cateratte. L'auto impiega infatti in Francia, direttamente o indirettamente, il 10% della popolazione attiva, all'incirca 2 milioni e mezzo di persone. E i costruttori, di fronte al crollo verticale delle vendite, avevano già previsto una serie di tagli ai posti di lavoro: 2.000 per Renault e 3.400 per Psa. Ora con il piano anti-crisi, Sarkozy offre un incentivo di mille euro alla rottamazione, un fondo statale d’investimento da 300 milioni per aiutare i fornitori del settore automotive e una linea di credito da un miliardo per le finanziarie che fanno credito all’acquisto di vetture.
GERMANIA E ITALIA Ma questo è solo il primo passo. La cancelliera tedesca Angela Merkel è sottoposta a un pressione fortissima in queste settimane da parte dei governatori regionali più coinvolti nei tagli occupazionali che stanno colpendo il settore anche in Germania. Chiedono a gran voce un pacchetto di aiuti simile a quello varato in Francia. E Sergio Marchionne, capo della Fiat, l'ha detto chiaro: gli aiuti devono essere per tutti o per nessuno, altrimenti si introduce uno squilibrio industriale nel mercato, che falsa la concorrenza. Il problema dei finanziamenti statali all'industria è proprio questo: in un mercato così globalizzato, appena un Paese li concede sono costretti ad andarci dietro anche gli altri, altrimenti l'industria nazionale rischia di rimanere l'unica strangolata dalla crisi globale. Lo stesso discorso vale anche per gli americani.
LE BIG THREE CON IL CAPPELLO IN MANO Che tristezza vedere i vertici di General Motors, Chrysler e Ford, una volta potentissimi, elemosinare aiuti federali davanti al Congresso, facendo leva sul ricatto morale dei posti di lavoro che andrebbero perduti e del disastro sociale che si abbatterebbe su Detroit. Tutto vero, ma qualcuno dovrebbe chiedergli perché non ci hanno pensato prima ai posti di lavoro che stavano distruggendo, quando continuavano a sfornare Suv e auto di vecchia concezione per un mercato che prima o poi si sarebbe saturato (e loro lo sapevano). Perché non hanno cercato di imitare i giapponesi, che hanno investito su motori di nuova generazione, per esempio? Non sapevano che prima o poi il petrolio avrebbe creato qualche problema? Patetica anche l’offerta dei manager di ridurre il loro stipendio a un dollaro al giorno se si approvasse il salvataggio. Ma fino a ieri quanti soldi guadagnavano? Ora il Congresso deve decidere se sborsare i 34 miliardi di aiuti pubblici che chiedono. Ma c'è chi dubita che bastino. General Motors, la più grossa, è messa malissimo. Chiede una linea di finanziamento immediata di 4 miliardi e altri 8 nel primo trimestre del 2009, solo per sfuggire alla bancarotta. Il suo capo Rick Wagoner ha detto alla Commissione bancaria del Senato che il tempo a disposizione per salvare il gigante di Detroit è ormai agli sgoccioli, l'ossigeno finanziario può durare solo fino alla fine dell'anno.
MA E' GIUSTO? Le crisi hanno questo di salutare: servono anche a far morire aziende vecchie o produzioni obsolete per le quali la domanda scarseggia. Riaccendere questa domanda artificialmente con aiuti pubblici è spesso dannoso. Il presidente Barack Obama è molto legato all'industria automobilistica: Michigan e Illinois sono Stati contigui e sui Grandi Laghi la solidarietà con i lavoratori dell'auto è un luogo comune. Ma è giusto resuscitare a colpi di trasfusioni di sangue, spremuto dal bilancio federale, un gruppo di colossi industriali che hanno sbagliato a fare i conti con la storia?
LE ORIGINI Basta rileggersi le origini dell'industria automobilistica americana per capire quanto sia importante per i governi schierarsi dalla parte giusta dei processi storici, facilitando il passaggio dal vecchio al nuovo. Cent'anni fa, Ford e GM erano i pionieri di un'industria che ancora non esisteva. Con la loro capacità di mettersi al servizio delle masse, hanno travolto una pletora di marchi creati solo per il jet set dai rampolli dell'alta borghesia di Detroit, che non avevano capito i bisogni dei contadini e dei commercianti: volevano un'auto anche loro, ma non potevano permettersi le Packard, le Wayne, le Willys-Overland, le King o le Studebaker. Tutte aziende che in breve sono state spazzate via dalle catene di montaggio di Henry Ford e dalla formidabile segmentazione introdotta in General Motors da Alfred Sloan, l'inventore di quel sistema progressivo di marchi a qualità e prezzo crescente - al servizio della mobilità sociale americana - ancora oggi prevalente nell'industria automobilistica mondiale. Mettersi di traverso non serve a niente, si rischia solo di buttare fondi federali nella fossa già scavata per ospitare un cadavere. Illustre quanto si vuole, ma pur sempre un cadavere.
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19 dicembre 2008
Cinema, dal maxischermo al cellulare
Se sui telefonini si possono riversare le immagini erotiche della fidanzata lontana o le mappe in 3D del navigatore Gps, perché non i cartoni animati di Topolino o di Nemo? E' quello che stanno pensando le multinazionali americane dell'entertainment, come Time Warner o Walt Disney, che cercano d'inserirsi nel grande mercato della telefonia mobile passando dalla finestra dei contenuti. Ed è quello che pensa Victoria Weston, fondatrice della casa di produzione indipendente Zoie Films, che ha appena lanciato il primo festival del cinema su cellulare del mondo.
Mano a mano che la velocità di trasmissione aumenta, la qualità dei contenuti, offerti dai vari operatori mobili, diventa più importante. Il mercato della telefonia cellulare rischia così di diventare la nuova frontiera di scontro fra le società che offrono servizi via cavo e le compagnie telefoniche. Negli Stati Uniti, i due rivali Time Warner e Cox Communications hanno deciso di aggiungere i servizi wireless nelle loro offerte a pacchetto, che includono servizi di telefonia fissa, di Internet veloce e tv via cavo. Don Logan, il capo di Time Warner Cable, ha recentemente dichiarato la sua intenzione di arrivarci entro l'anno, sollevando non poca agitazione tra i sei operatori mobili che si spartiscono la torta mobile nordamericana. C'è invece chi preferisce la strada di fornire i propri contenuti agli operatori mobili già esistenti. Disney, ad esempio, ne sta parlando con Sprint, che però ha già un fornitore eccellente: il gruppo Virgin, del miliardario britannico Richard Branson, che ha una sua etichetta discografica e una catena di megastore musicali molto conosciuti. Virgin Mobile sta attirando una vasta audience, soprattutto fra i giovani nordamericani, con l'offerta sui cellulari di servizi musicali targati Virgin o Mtv via Sprint.
Usando tattiche analoghe, il gruppo Disney potrebbe rivolgersi agli appassionati di sport, trasmettendo sui cellulari i contenuti del principale network di tv sportive degli Stati Uniti, Espn, oppure ai bambini, passando dai cartoni animati. Da qui a mettere il proprio marchio su un telefonino, che potrebbe essere offerto ai piccoli clienti con un menu incorporato di video adatti alla loro giovane età, il passo è breve. Si può star certi che le famiglie americane preferiranno delimitare chiaramente l'accesso dei propri figli ai servizi video offerti dagli operatori mobili. E cosa c'è di più sicuro di Topolino? Disney sta realizzando un modello di questo tipo in Giappone, dove ha cominciato a vendere i suoi contenuti in partnership con NTT DoCoMo già dal lontano 2000. Ma la battaglia della telefonia mobile negli Stati Uniti sarà molto più sanguinosa.
Anche Fox si è avviata sulla strada degli accordi con gli operatori mobili, quando ha chiesto ai suoi abbonati di votare via cellulare per il concorso alla base di American Idol. Ma per ora il network televisivo di Rupert Murdoch non ha ancora una partnership definitiva e non sembra avere fretta di entrare nell'arena. Il segreto, secondo gli esperti del mercato americano, sarà di offrire un servizio molto focalizzato a un target molto preciso, come già accade nel mondo della tv via cavo. Ma non è escluso che prima o poi il telefonino diventi addirittura un veicolo per trasmettere dei veri e propri film.
Sarà difficile che l'aggeggio tanto amato dagli italiani mostri in tempi brevi epopee della portata di "Via col vento", ma Victoria Weston - una pasionaria della cinematografia digitale indipendente e dei festival online - è convinta che anche su uno o due pollici si possa lavorare di fantasia. "L'importante è tenere bene a mente il tipo di audience e le dimensioni dello schermo con cui si ha a che fare: il ritmo dev'essere rapido e le inquadrature molto ravvicinate", commenta Weston. Meglio evitare storie complicate o elaborate scene di guerra: un pesciolino che sfreccia in un acquario stile Pixar o un'animazione da videogioco vanno benissimo.
"Se si può seguire un videogioco su quella macchinetta, si potrà anche seguire un breve filmato", sostiene Weston. Certo è che il festival, di cui sono già aperte le iscrizioni, porterà i creativi a cimentarsi su un nuovo territorio, ancora del tutto inesplorato. I clip, da inoltrare entro la fine d'ottobre, non possono superare la durata di cinque minuti, ma Weston incoraggia i mini-registi a sbizzarrirsi componendo serie da cellular-soap o da cellular-sitcom su diverse puntate, da un minimo di 8 a un massimo di 13. La società di Atlanta si attende un centinaio di proposte (www.zoiefilms.com/cellularcinema), da cui verranno selezionate le più sofisticate. Il festival comincia all'inizio di dicembre e il vincitore sarà premiato con un viaggio di una settimana nei mari del Sud, ma soprattutto con la soddisfazione di salire su un podio da pioniere assoluto.
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18 dicembre 2008
Informatica in ritardo, ma il futuro non è nero
Un miliardo di fatturato bruciato in quattro anni. E l' involuzione dell' industria informatica italiana continua: dopo un annus horribilis come il 2004, il 2005 non si annuncia molto migliore. «Solo il mondo consumer fa crescere l' hi-tech italiano - spiega Roberto Schisano, amministratore delegato di Getronics -. Mentre l' amministrazione pubblica continua a battere la fiacca e le imprese stanno ancora alla finestra, accumulando un ritardo sempre più vistoso rispetto all' Europa». Le famiglie italiane hanno speso quest' anno circa 33 miliardi di euro per le nuove tecnologie, con un incremento dell' 8,4% rispetto al 2004. E anche sull' anno prossimo le previsioni sono buone, con un aumento della spesa del 7,1%. Ma la domanda di hi-tech per intrattenimento domestico e personale non basta a tenere su il mercato. Alla fine del 2005, secondo dati Eito (European information technology observatory), la crescita della domanda italiana d' informatica sarà dell' 1,5% contro il 3,5% europeo, con una spesa pro capite di 1.064 euro contro una media europea di 1.487 e americana di 2.240. Se poi dai dati di settore si separano le tlc, il ritardo appare ancora più marcato. Non a caso il 10% delle 85 mila aziende che gravitano sul comparto è in crisi, cioè in fallimento o in liquidazione. «Sono evidenze - precisa Schisano - che non possono essere ridotte a questioni di settore, perché i Paesi che più investono in Ict sono anche i più competitivi e in crescita». Il letargo del sistema industriale italiano si vede in particolare sul comparto dei software e servizi, che rappresentano la vera anima del mercato It, non solo per la loro rilevanza sul totale, pari a poco meno del 70%, ma anche perché rappresentano il vero motore dei progetti e della domanda. «Il clima che si respira oggi in Italia sembra confinare l' innovazione a fattore di sopravvivenza piuttosto che di sviluppo: mentre l' hardware prosegue la sua corsa, spinto soprattutto dalla domanda di pc da parte delle famiglie - spiega Alberto Tripi, presidente di Federcomin, la federazione di settore più concentrata sui servizi -, il mercato dei software è sostanzialmente piatto e i servizi vanno indietro, con un calo che continua da anni». Tripi, il «re dei call-center», si è imbarcato quest' anno nell' avventura della sua vita, rilevando da Telecom Finsiel, cioè tutto quel che resta dell' informatica italiana di Stato, per accorparla al suo gruppo Cos. Con questa acquisizione, l' Italia ha messo la parola fine al sogno, vagheggiato a lungo, di creare un campione nazionale, fondendo Finsiel con le altre realtà più importanti della tradizione informatica nostrana, da Elsag (gruppo Finmeccanica) a Engineering, passando forse per Getronics, che ha inglobato l' eredità di Olivetti. Il progetto del grande polo informatico nazionale si è infranto proprio sulle difficoltà attraversate dal comparto, che bloccano le grandi ristrutturazioni. Ma Tripi vede buone prospettive di crescita: «Pensiamo alle crescenti esigenze d' informatizzazione delle amministrazioni locali, così come al gap d' innovazione da colmare per le piccole e medie imprese. Pensiamo a quei processi di convergenza tra settori differenti dell' Ict, che sull' esempio di realtà straniere molti gruppi italiani stanno perseguendo nella ridefinizione del loro business. Su questa strada le imprese informatiche possono trovare nuove opportunità di business». Insomma, qualcosa si muove sotto la cenere. Ma soprattutto per le piccole realtà, più flessibili e rapide nel cogliere le occasioni al volo. «La pressione in atto sui prezzi, tipica di un mercato in contrazione, favorisce le piccole imprese più innovative», spiega Luciano Marini, presidente di SoftPeople, azienda che l' anno scorso ha stupito il mercato mettendo a segno una crescita record, passando da 53 a 78 milioni di euro, e quest' anno arriva a quota 100. Dalle sei sedi sparse sul territorio, Softpeople fornisce ai propri clienti servizi abbastanza eterogenei, dalle soluzioni software per le imprese pubbliche e private alle infrastrutture di sicurezza e tlc, fino alla comunicazione via web e all' outsourcing della gestione della clientela. Il segreto della crescita sta in un' organizzazione aziendale davvero non comune: tante piccole Srl che agiscono sul mercato come delle business unit vere e proprie, ma con ampia libertà di manovra. Su un' organizzazione snella e flessibile punta anche Enterprise Digital Architects, uno spin-off italiano di Ericsson che si sta cimentando su tutti i settori più nuovi dell' Ict, dal Voip al digitale terrestre, dalla sicurezza all' outsourcing. «Per star dietro al ritmo dell' innovazione - spiega Luigi Caruso, amministratore delegato di Enterprise - bisogna seguire un' altra logica rispetto a quella pachidermica delle grandi aziende». Caruso, che dirigeva l' unità di business Enterprise prima ancora dello spin-off, concepisce il distacco dal colosso scandinavo come un' emancipazione necessaria per adeguarsi ai nuovi ritmi: «Le nuove piattaforme tecnologiche modificano rapidamente la domanda e richiedono un cambiamento fortissimo nella risposta delle imprese». Per questo Enterprise, che ha raddoppiato in quattro anni da 350 a 700 addetti, con un fatturato di 300 milioni, rifugge le strutture rigide e organizza il lavoro a progetti, concentrando l' operatività dei dipendenti su temi anche molto diversi a seconda delle necessità. E la contaminazione incrociata per stimolare intuizione e creatività ha già dato qualche frutto: Enterprise è stata la prima impresa in Italia a occuparsi di digitale terrestre ed è una delle poche aziende ad avere già ultimato la sperimentazione del WiMax, disseminando di antenne Roma e Torino. Commenta Caruso: «C' è una bella rivoluzione in atto».
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17 dicembre 2008
Conad, il pieno di burocrazia
Le questioni di viabilità vanno affrontate con Comune e Provincia, i problemi urbanistici con la Regione. Poi si deve passare attraverso l' Asl, i Vigili del fuoco, l' Agenzia regionale per la protezione dell' ambiente, l' Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro, l' Ufficio metrico della camera di commercio, l' Agenzia dogane e l' Agenzia nazionale delle scorte. A ogni passaggio si rischia il veto di un funzionario. Nel frattempo, cambiano le leggi. «Da quando abbiamo istruito la prima pratica fino all' inaugurazione dell' impianto, le normative regionali che regolano la materia sono cambiate tre volte: oggi la Toscana proibisce tout-court di aprire una pompa di benzina in un centro commerciale come quello di Gallicano, perciò, se avessimo dovuto cominciare adesso, non avremmo nemmeno avviato la trafila» spiega Roberto Dessì, segretario generale di Conad, l' insegna della grande distribuzione che ha inaugurato la settimana scorsa il suo primo discount della benzina in Garfagnana. «La smettano di dire che è impossibile aprire un nuovo benzinaio» sbotta da parte sua Luca Squeri, presidente Figisc, l' organizzazione dei distributori aderenti a Confcommercio. Ma, se in teoria tutto è possibile, nella pratica le barriere all' ingresso di nuovi entranti nel business dei carburanti sono davvero altissime. Pur avendo a che fare con un' amministrazione comunale molto efficiente, Conad Tirreno ci ha messo quattro anni e dieci diversi pareri legali per sfondare il muro delle resistenze. E non è finita qui: «Dopo tutto questo lavoro, ora ci attendiamo le cause, anche se abbiamo fatto il massimo per ottemperare a ogni cavillo normativo», commenta Dessì. I gestori, in effetti, già minacciano un esposto all' Antitrust. Non a caso benzina e gasolio in Italia restano i più cari d' Europa. «Gli ostacoli principali sono il problema delle distanze minime dagli altri distributori, la questione del formato dell' impianto e le limitazioni di orario», precisa Dessì. Per la grande distribuzione l' imperativo categorico è l' efficenza: solo così è possibile offrire prezzi bassi. Ecco perché è stato scelto il formato self service post pay, che consente di pagare all' uscita dal piazzale, sul modello di quanto avviene in qualunque casello autostradale. Proprio questo, guarda caso, è il formato più penalizzato dalle normative, che impongono distanze ancora maggiori dagli altri distributori. «Ma, se avessimo dovuto tenere una distanza minima da ogni negozietto, nelle città italiane non ci sarebbero supermercati» obietta Dessì. Problemi anche per il posizionamento in prossimità di due elettrodotti: «Su ricorso del sindacato gestori, ci hanno mandato gli ispettori per controllare che non ci fossero dispersioni di corrente» racconta Dessì. Per fortuna era tutto a posto, altrimenti la pompa, già costruita, avrebbe dovuto essere smantellata. «E come si fa a tagliare i costi se siamo costretti ad avere orari sfalsati rispetto all' ipermercato?» si chiede Dessì. A Gallicano, il distributore è obbligato a chiudere all' ora di pranzo, mentre l' ipermercato ovviamente è aperto. Per trovare un fornitore, poi, è stato un incubo. «Le compagnie petrolifere ci hanno fatto delle offerte vergognose - rileva Dessì - e quindi siamo andati a cercarci la benzina in Francia». Malgrado i costi aggiuntivi di trasporto, la benzina comprata da Siplec, compagnia di distribuzione di Leclerc, è molto più competitiva di quella italiana. Ma importare carburante dalla Francia non è roba da tutti i giorni: ci vuole la licenza. E giù carte bollate...
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16 dicembre 2008
Il tramonto del company man
Credevamo che ormai gli eroi del nostro tempo fossero fatti come Homer Simpson, l’intraprendente capofamiglia dei Simpsons che passa da un’invenzione all’altra e non si lascia scoraggiare nemmeno quando finisce per radere al suolo la sua casa sperimentando un nuovo martello a motore, con cui peraltro fara’ fortuna. Da un episodio all’altro Homer si trasforma da magnate della birra in re delle zucche, fino alla classica fondazione di una internet company, dimostrando una fantasia imprenditoriale non da poco. E’ lui, ci dicevamo nei simposi universitari, il simbolo di quest’epoca sempre in movimento, dove le gerarchie aziendali sono andate gambe all’aria e le carriere lunghe una vita stanno gradualmente scomparendo. Sbagliato.
In realta’, dagli studi piu’ recenti sembra dimostrato che l’uomo-azienda esiste ancora. Anzi, semmai i tempi di permanenza medi dei dipendenti in una stessa societa’ si stanno addirittura allungando, perlomeno nel mondo anglosassone, che era quello apparentemente piu’ colpito dall’affermazione di una cultura aziendale piu’ frammentaria e dinamica. Secondo una monumentale ricerca sul futuro del lavoro condotta dall’Economic and Social Research Council e pubblicata dal British Journal of Industrial Relations (Blackwell) a cura di Peter Nolan e Stephen Wood, che insegnano all’Universita’ di Leeds e di Sheffield, il mondo del lavoro si presenta oggi con caratteristiche molto piu’ convenzionali di quanto si tenda a credere ed e’ percorso da trend che vanno addirittura in direzione opposta ai miti piu’ affermati. Ad esempio l’impiego full time nel mondo anglosassone resta ampiamente dominante e interessa nove dipendenti su dieci. Le lunghe carriere interne a un’azienda non sono affatto scomparse, anzi: la permanenza in uno stesso incarico si e’ addirittura allungata da sei a sette anni e mezzo nell’ultimo decennio. Non emerge inoltre un aumento dell’imprenditorialita’: mentre i lavoratori indipendenti erano aumentati rapidamente dal 5 all’11% del totale tra il ’79 e l’84, oggi siamo ridiscesi al 7%. Questi e altri trend individuati da Nolan e Wood dimostrano che la rivoluzione digitale, pur nel suo dirompente impatto sulle organizzazioni aziendali a tutte le latitudini, in fondo ha avuto meno conseguenze di quanto si credesse comunemente.
In particolare il famoso “company man”, dato per morto gia’ nel ’95 da Anthony Sampson, uno dei futurologi piu’ seguiti dagli studiosi di gestione aziendale, e’ ancora vivo e sembra piu’ in forma che mai. Nel suo famoso libro “Company Man: the Rise and Fall of Corporate Life” (HarperCollins), Sampson descriveva lo sfaldamento della cultura aziendale tipica delle grandi corporation, basata su una rigida struttura piramidale lungo la quale si riusciva ad ascendere piu’ facilmente per carriera interna piuttosto che paracadutandosi ai piani alti dall’esterno. Oggi, diceva Sampson in piena rivoluzione digitale, l’uomo-azienda che si identifica completamente con la filosofia della sua corporation e raggiunge una simbiosi perfetta con il suo ambiente di lavoro, tanto da perdere di vista la sua identita’ individuale, non potrebbe piu’ esistere, data la profonda trasformazione imposta dalle nuove tecnologie alla vita delle aziende. Ormai e’ il dinamismo, il talento individuale, la capacita’ di distinguersi dagli altri che vengono privilegiati sulla fedelta’ e la capacita’ di uniformarsi a un modello imposto dall’alto. In effetti, bastava fare un giro a Silicon Valley o dalle parti di Redmond per rendersi conto che la struttura classica dell’organizzazione tentacolare che non lascia spazio all’individuo era scomparsa. Ma non completamente.
Ad esempio alla Bbc, un colosso nel mondo dei media globali con 27mila dipendenti e un bilancio annuale di oltre due miliardi e mezzo di sterline, si annidava ancora un uomo-azienda di energia non comune, Will Wyatt, che malgrado la rivoluzione digitale e tutte le altre rivoluzioni precedenti di cui ormai nessuno si ricorda e’ riuscito a rimanere al suo posto per ben 34 anni, scalando la piramide interna fino a diventare vice-direttore generale sotto John Birt e registrando con puntigliosita’ anglosassone tutti i trionfi e le carognate della mitica emittente pubblica britannica. Le sue osservazioni sono appena uscite in un capolavoro della cultura aziendale sulle rive del Tamigi, “The Fun Factory” (Aurum Press), che potrebbe essere preso ad esempio come un peana del concetto di uomo-azienda. Nel rivelare i complotti interni (tutti falliti) rivolti ad impedire al candidato esterno Greg Dyke di diventare il nuovo direttore generale, Wyatt si tradisce con una frase che andrebbe eletta a inno del company man: “Spesso penso che la Bbc trovi difficile assimilare i nuovi venuti”.
La sua estrema diffidenza nei confronti degli esterni ci rimanda – mutatis mutandis - all’autobiografia di Jack Welch (“Jack Straight from the Gut”, Warner Business Book). Il mitico amministratore delegato di General Electric è stato un tipico uomo-azienda: approdato fresco di laurea, nel ’60, al regno delle apparecchiature elettriche per occuparsi dell’espansione di GE nella plastica, Neutron Jack ha scalato l’intera piramide aziendale fino a raggiungere la cima nell’81, per restarci poi vent’anni esatti, nei quali ha decuplicato gli utili e trasformato General Electric in una conglomerata che tocca praticamente tutti gli aspetti della vita umana. Imbevuto fino alle ossa di cultura aziendale, Welch l’ha modellata dal di dentro a sua immagine e somiglianza, per passare poi il testimone al suo clone Jeffrey Immelt, a sua volta un uomo-azienda che lavora in GE dall’82 e ha succhiato la cultura aziendale con il latte, visto che suo padre ci ha lavorato per ben 38 anni.
Tutto il contrario del “manager volante” che si era affermato negli anni Novanta, quando una carriera tutta interna era diventata un incomodo più che un vanto per chiunque aspirasse alla cima. Tipico esempio di quest’attitudine è stata la nomina alla guida di Ibm di Lou Gerstner, un uomo di McKinsey che si era girato diverse blue chip (da American Express a Nabisco) prima di approdare a Big Blue nel ’93. Nel suo libro “Who Says Elephants Can’t Dance” (HarperBusiness), uscito alla fine dell’anno scorso, Gerstner sostiene a spada tratta che nessuno venuto dall’interno avrebbe potuto salvare Ibm, come – modestia a parte – è riuscito a fare lui. Fatto sta che il suo successore, Sam Palmisano, è in Ibm dal 1973. E che negli ultimi tempi Big Blue non gode di buona stampa su alcuni affarucci gestiti disinvoltamente ai tempi di Gerstner.
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15 dicembre 2008
Tornado Cina sulle materie prime
È la Cina, naturalmente! Dal petrolio al carbone, dall' oro ai diamanti, tutti i movimenti sul mercato delle materie prime quest' anno e negli anni a venire hanno un solo motore principale: la fame di crescita del colosso asiatico. L' effetto traino del boom che sta interessando il celeste impero, accoppiato a quello dei vicini indiani, farà aumentare d' ora in poi la domanda mondiale di energia dell' 1,6% all' anno, un ritmo ben più sostenuto degli anni scorsi, fino a raggiungere il 50% in più rispetto al fabbisogno attuale nel 2030. Di pari passo cresce il consumo di combustibili fossili, dal petrolio al gas naturale, passando per il carbone. La stessa Cina che spinge la domanda, per fare un esempio, ha in programma l' installazione di nuove centrali a carbone per 50 mila megawatt, una dimensione quasi equivalente alla potenza complessiva di generazione disponibile in Italia. Secondo il World Energy Outlook 2005, il rapporto annuale dell' Agenzia internazionale per l' energia, saranno necessari ben 17 mila miliardi di dollari d' investimenti (sarebbe a dire 1,86 miliardi al giorno), nel prossimo quarto di secolo per far fronte all' aumento del fabbisogno. Il petrolio resterà la principale fonte di energia primaria e la domanda mondiale, oggi a 85 milioni di barili al giorno, salirà a 115 milioni nel 2030. Il gas naturale, per cui l' Aie prevede una crescita folgorante del 75% (a un tasso medio annuo che supera il 2%), scavalcherà il carbone come fonte di energia primaria, mentre la quota percentuale del nucleare è prevista costante e quella delle fonti rinnovabili si manterrà irrisoria, sotto il 2%. In questo scenario si calcola che il prezzo del petrolio sia destinato a scendere un po' sulle prime, attorno ai 35 dollari, per poi stabilizzarsi a 39, un livello più alto rispetto agli ultimi quindici anni, ma non drammatico. «A patto - specifica Faith Birol, capo economista dell' Aie - che i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa siano in grado di estrarre ed esportare le maggiori quantità di idrocarburi richieste dal mercato». In caso contrario, lo scenario prevede che l' aumento dei prezzi cui abbiamo assistito quest' anno diventi strutturale, stabilizzando le quotazioni del greggio sui 52 dollari. Anche se poi la conseguenza sarebbe una contrazione della domanda e il rallentamento del Pil mondiale. Quanto sia cruciale il ruolo dell' area mediorientale nella produzione di idrocarburi si è dimostrato nelle ultime settimane, con la crisi del mercato del gas britannico, dove i prezzi hanno raggiunto in pochi giorni valori 10 volte superiori al normale e di conseguenza le quotazioni dell' elettricità sono schizzate a 80 sterline per megawattora, ben oltre i salatissimi prezzi italiani. «Le cause - spiega Davide Tabarelli del Rie - sono semplici: la capacità produttiva si riduce in presenza di continua crescita della domanda. La produzione del Mare del Nord, che fra il ' 95 e il 2000 era raddoppiata a 105 miliardi di metri cubi, da due anni è in sensibile calo e quest' anno si avvicinerà ai 90 miliardi. Al contrario, la domanda continua stabilmente a salire oltre i 100 miliardi». Sbalzi simili nel prezzo del gas sono accaduti negli stessi giorni anche in Germania e in Francia. Qui non ancora, ma l' Italia è l' unico Paese al mondo che abbia scelto di affidarsi al gas per gran parte della produzione elettrica, circa il 60% nel 2010, mentre negli altri Paesi industrializzati si continuerà ad usare abbondantemente il carbone e il nucleare. La vasta diffusione del carbone in diverse aree del globo ne fa un combustibile sempre più popolare, al riparo dalle incertezze geopolitiche mediorientali: i cinesi, al primo posto nella graduatoria dei produttori, quest' anno ne hanno consumato talmente tanto da far salire l' import del 30%, passando dalla parte degli importatori netti e imprimendo una netta impennata alle quotazioni mondiali. Il fenomeno potrebbe ripetersi anche nel 2006, ma sul lungo periodo la produzione cinese di carbone crescerà, fino a raggiungere nel 2010 la cifra record di 2,4 miliardi di tonnellate. È sempre Pechino ad alimentare l' aumento dei prezzi delle altre commodities: le quotazioni record dell' alluminio subiscono la pressione di una crescita annua dei consumi cinesi del 7,2%, mentre la corsa dell' oro va di pari passo con l' apertura dello Shanghai Gold Exchange e la liberalizzazione del commercio dell' oro nel celeste impero. Per la prima volta in oltre cinquant' anni, i cinesi possono accedere a una forma d' investimento considerata fino a ieri «degenerata» dal partito comunista, che l' aveva severamente proibita fin dai primi giorni del suo regime, nel lontano 1949. Il buon momento dell' oro, dell' argento e del platino, naturalmente, dipende anche dalla loro attrazione generale come beni rifugio contro la minaccia dell' inflazione. Perfino i diamanti, spinti dalla domanda cinese e indiana, brillano più che mai: i prezzi delle gemme grezze continuano a salire e l' offerta non riesce a tenere il passo, mentre i tradizionali centri di taglio soffrono la concorrenza spietata delle nuove realtà asiatiche.
Etichette: petrolio
13 dicembre 2008
Produrre energia in proprio dà fiato alle imprese
Investire in un impianto a energie rinnovabili, con gli incentivi attuali, può dare dei rendimenti che vanno dall'8% del fotovoltaico al 37% delle biomasse. E' un investimento ideale per un piccolo imprenditore, sia che abbia bisogno dell'energia prodotta per far andare i suoi impianti, sia che preferisca venderla alla rete elettrica nazionale. Alessandro Nova, docente di Finanza Aziendale alla Bocconi, ha fatto un po' di calcoli e li ha messi nello studio "Investire in energie rinnovabili – La convenienza economica per le imprese", realizzato in collaborazione con Centrobanca.
Mi faccia un esempio.
"Prendiamo un piccolo impianto idroelettrico, in grado di produrre 2 milioni di kilowattora l’anno e con una vita utile di 30 anni. Un impianto così, da sempre tipico di zone molto ricche d'acqua come la Lombardia, è capace di assicurare un tasso interno di rendimento ben superiore al costo del capitale investito, sia che l’energia sia completamente utilizzata per i processi produttivi industriali, sia che parte di essa (o al limite, tutta) sia venduta alla rete nazionale. In questo tipo di investimento, nel caso del 100% di autoconsumo, il tasso interno di rendimento raggiungerebbe il 18,3%. Anche calcolando un costo del capitale alto, al 7,5%, si ottiene una rilevante generazione di valore. Il periodo di rientro dell’investimento sarebbe di 8 anni. Se invece l'energia va in rete, tutta o in parte, il rendimento scende leggermente e il periodo di rientro si allunga di un anno". E per il fotovoltaico, che si può installare su qualsiasi capannone, o anche sul tetto di casa? "Il fotovoltaico è un impianto molto più costoso e quindi ha periodi di rientro più lunghi, nell'ordine dei 17-19 anni, ma anche per l'energia del sole c'è un rendimento notevole, che si aggira sull'8-9%, sempre superiore al costo del capitale. Se poi si vende alla rete il rischio è nullo e quindi il finanziamento può essere anche meno caro, nell'ordine del 5%. In questo caso il rendimento aumenta al 10% o anche oltre". Perché il rischio è nullo? "Grazie alla legislazione vigente, la rete è obbligata a ritirare tutta l'energia rinnovabile prodotta dai privati, pagandola a un prezzo di favore giù prefissato. Si tratta di una condizione particolarmente favorevole, sempre più rara nel panorama industriale contemporaneo: di solito quando un'azienda costruisce un impianto elettrico non sa a che congiuntura andrà incontro e quindi non ha la certezza di vendere l'energia prodotta, né a che prezzo la venderà. Oggi, ad esempio, i prezzi stanno scendendo. Ma questo non penalizza in alcun modo i produttori di energia da fonti rinnovabili, che sono protetti dall'incentivazione per tutta la vita dell'impianto". Perché il rendimento è più alto in caso di autoconsumo? "Quando l'impresa vende a se stessa c'è anche un dato di costo evitato. L'imprenditore paga in media l'energia 12,5-13 centesimi al kilowattora, il costo più alto d'Europa, escluse le tasse che sono equivalenti per tutti. Vende l'energia alla rete per 8 centesimi al kilowattora. Se invece di venderla la consuma in casa, evita quel costo in più di 4-5 centesimi al kWh. Se questo tipo di impianti fossero più diffusi, il sistema industriale italiano recupererebbe quel gap di competitività che ora lo distanzia dalle imprese estere sul costo dell'energia".
Etichette: fonti rinnovabili
12 dicembre 2008
Eni, la nuova strategia di Scaroni
Nulla sarà più come prima. Il punto di svolta, per l' Eni di Paolo Scaroni, è il caso Gazprom. La lezione del brutto accordo russo - firmato in maggio dal direttore della divisione Gas & Power Luciano Sgubini, disfatto in ottobre con un blitz a Mosca da Scaroni in persona e riproposto in questi giorni in veste «ripulita», come Scaroni ha anticipato settimana scorsa nel «memorandum»in Turchia - porterà a San Donato una nuova politica del gas e nei prossimi mesi anche un avvicendamento al vertice fra Sgubini e Vincenzo Cannatelli, che ha lasciato la guida del mercato e del gas in Enel. Le mosse di Scaroni, che con il suo gesto ha dato corpo alla svolta, puntano tutte nella stessa direzione: allargare la torta del gas ad altri mercati di sbocco piuttosto che combattere, come si è fatto fino a oggi, per mantenere a tutti i costi il monopolio assoluto sul mercato italiano, controllando i rubinetti d' entrata per non far arrivare troppo metano. L' inversione di rotta comporterà un progressivo sbottigliamento dell' import, fino a trasformare l' Italia in un hub del gas europeo, com' era l' Olanda prima che i giacimenti nel Mare del Nord fossero sfiatati, e com' è oggi la Svizzera per il mercato elettrico continentale. A pilotare la svolta, secondo voci sempre più insistenti, dovrebbe essere proprio Cannatelli, che ha guidato fino a pochi giorni fa la scelta espansiva di Enel nel gas, trasformando l' ex monopolista elettrico nel secondo operatore del metano in Italia, con l' 11% del mercato. Le condizioni per saltare sul treno dell' export di gas ci sono tutte: il fabbisogno di metano in Europa sta crescendo rapidamente, di pari passo con la proliferazione di centrali elettriche a gas, e il Belpaese è piazzato proprio in mezzo al Mediterraneo, in posizione strategica di raccordo fra l' Europa continentale e i giacimenti di gas del Nord Africa e dell' Asia Centrale. Due metanodotti, più altri due in costruzione, ci collegano alla sponda sud del Mediterraneo, e altri due si dipartono a nord verso Russia e Olanda. Al centro della ragnatela, l' Italia può diventare il punto privilegiato d' interscambio, agendo sulle leve dell' import e dell' export a seconda delle convenienze. In questo quadro l' alleanza con Gazprom - rafforzata dal preaccordo in via di definizione, che allarga la collaborazione anche al petrolio - è altamente strategica: il Tag, infatti, attraversa tutto il Centro Europa e basterebbe mettersi d' accordo con i russi per piazzare insieme un po' del loro gas nei mercati intermedi, cammin facendo. Ma Scaroni non si accontenta dei tubi: «L' Italia - ha detto recentemente - si liberi dalla dipendenza dalle pipeline», costruendo impianti di rigassificazione per il gas naturale liquefatto (Gnl). Anche questa è una novità: dagli anni ' 60, quando è stato costruito il terminale di Panigaglia, l' Eni si è tenuta alla larga dai rigassificatori, considerati veicoli di concorrenza su un mercato in cui l' offerta doveva rimanere contenuta per non rischiare di abbattere i prezzi. Che cos' è successo nel frattempo? Sotto la guida di Vittorio Mincato, l' Eni è diventata la sesta potenza petrolifera mondiale e ha aumentato il suo output del 70% a 1,8 milioni di barili (olio e gas) al giorno. E d' ora in poi, con il caro greggio che manda i prezzi in orbita, crescere ai ritmi del passato sarà complicato. Perciò Scaroni preferisce aprire a nuovi orizzonti.
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11 dicembre 2008
Solare? In Italia incentivati solo i furbi
Esempio pratico: «Per un impianto fotovoltaico da 50 KW: energia prodotta annualmente circa 65 mila kwh (Centro Italia); guadagno complessivo circa 36 mila euro/anno, cioè 700 mila euro in 20 anni; costo dell' impianto "chiavi in mano" 260/300 mila euro. Si metta in contatto con noi per avere un' offerta individuale che rispecchi le Sue esigenze. Le facciamo avere, in tempi brevi, un preventivo per la realizzazione della Sua centrale fotovoltaica». Questa è Suneon, una delle imprese che hanno fatto man bassa degli incentivi al fotovoltaico messi in palio dal Gestore del sistema elettrico, che dovevano far decollare il mercato italiano del solare. L' azienda bolzanina è nata in marzo, sull' onda dei nuovi contributi in conto energia, e ha già 50 progetti in pipeline - dicono i due soci Alexander Berger e Reinhold Gabloner - per 49,5 MW in tutto, ben più dell' attuale parco solare complessivo italiano. Ma neanche uno realizzato. A un anno dalla partenza del nuovo sistema d' incentivazione, in effetti non si è mossa foglia: su 185 MW di progetti incentivati, finora non c' è nemmeno 1 MW in funzione. E solo per 27 MW è stato notificato l' inizio dei lavori. «Se non arriviamo neanche a 10 MW installati entro la fine del 2006, l' Italia ci fa davvero una figuraccia e rischia di perdere gli investimenti delle grandi aziende del settore», spiega Gianni Chianetta di Bp Solar, uno dei giganti mondiali dell' energia del sole. Chianetta - che è anche presidente di Assosolare, la neo costituita associazione dell' industria fotovoltaica - punta il dito da un lato su un sistema decisamente mal congegnato, dall' altro su un assalto di incompetenti attratti dal guadagno facile. «Il punto dolente sta nei tetti annuali di potenza, che hanno spinto le aziende a fare incetta di autorizzazioni», precisa Chianetta. Ma da qui a realizzare i progetti autorizzati, ce ne passa. Suneon, ad esempio, ha rastrellato insieme alla siciliana Ste.da decine di autorizzazioni nella gara tenuta in marzo dal Gestore del sistema elettrico sui progetti più grossi, di potenza superiore a 50 KW. Il meccanismo era quello dell' asta al ribasso: i progetti che potevano essere realizzati con il minore esborso per lo Stato sono stati autorizzati. Con il risultato di assegnare tutta la quota annuale a un paio di aziende che si offrivano di realizzare gli impianti anche accontentandosi di un incentivo ventennale di 30 centesimi a kwh, contro una base d' asta di 49 centesimi. Un bel risparmio del 40%. Ma così l' impianto non è remunerativo. Hai voglia di tentare di rivendersi l' autorizzazione a chi era rimasto fuori: nessuno ci è cascato. Di conseguenza, al momento di presentare le fidejussioni bancarie (un milione di euro a MW), per realizzare i progetti, tutti si sono tirati indietro. Risultato: alla fine di settembre, al Gestore del sistema elettrico non è rimasta altra scelta che andare a riaprire la graduatoria e ammettere altri trenta progetti. E via a scalare. Finché alla fine, prima o poi, si troverà qualcuno che si accolla il rischio. Ma intanto si è perso un anno. «Ora si riparte con prospettive solide e obiettivi ambiziosi», annuncia il consigliere del ministro Bersani, Gianni Silvestrini, che sta disegnando il nuovo decreto d' incentivazione, destinato a sostituire il vecchio sistema dal 1° gennaio. «Puntiamo a semplificare al massimo l' accesso all' incentivo, per evitare ogni tipo di speculazione - puntualizza Silvestrini -. Toglieremo il tetto annuale ed elimineremo il sistema delle fidejussioni, spostando la concessione dell' incentivo al momento dell' entrata in esercizio dell' impianto». In sostanza l' impianto sarà automaticamente ammesso all' incentivazione, con diversi livelli di incentivo a seconda della tipologia: più alto per gli impianti piccoli e integrati negli edifici, più basso per quelli grandi a terra. Ma se è vero che cadranno i tetti annuali, nel testo attuale del nuovo decreto si parla comunque di un tetto complessivo, che non è stato ancora fissato. La cifra più accreditata, 1.500 MW al 2012, è già un obiettivo ambizioso: in pratica, darebbe via libera all' installazione di 250 MW di pannelli all' anno, quando fino ad oggi in Italia non si supera una potenza installata di 40 MW in tutto. «Se riusciremo a raggiungere questo ritmo di crescita sarei davvero molto soddisfatto - commenta Silvestrini -. Il nostro obiettivo è dare vita anche qui a un' industria del solare, che nel resto del mondo cresce a ritmi vertiginosi mentre in Italia, il Paese del sole, è ancora ferma». In Germania, con un milione di pannelli solari installati, sono nate 5 mila aziende che danno lavoro a 25 mila addetti. Nel futuro del Belpaese, Silvestrini vede la nascita di un «Italian Solar Design», capace di incidere sui nuovi standard architettonici mondiali, dove ormai la sostenibilità ambientale degli edifici è diventata un must. «Ma per fare questo dobbiamo muoverci in fretta - fa notare Chianetta - e liberarci dalle pastoie delle autorità locali, che trattano gli impianti fotovoltaici come se fossero centrali nucleari e impongono mille pareri prima di concedere la licenza edilizia: nel nuovo decreto questo problema non viene risolto». Altrimenti l' Italia rischia ancora una volta di restare al palo.
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