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16 dicembre 2008
Il tramonto del company man
Credevamo che ormai gli eroi del nostro tempo fossero fatti come Homer Simpson, l’intraprendente capofamiglia dei Simpsons che passa da un’invenzione all’altra e non si lascia scoraggiare nemmeno quando finisce per radere al suolo la sua casa sperimentando un nuovo martello a motore, con cui peraltro fara’ fortuna. Da un episodio all’altro Homer si trasforma da magnate della birra in re delle zucche, fino alla classica fondazione di una internet company, dimostrando una fantasia imprenditoriale non da poco. E’ lui, ci dicevamo nei simposi universitari, il simbolo di quest’epoca sempre in movimento, dove le gerarchie aziendali sono andate gambe all’aria e le carriere lunghe una vita stanno gradualmente scomparendo. Sbagliato.
In realta’, dagli studi piu’ recenti sembra dimostrato che l’uomo-azienda esiste ancora. Anzi, semmai i tempi di permanenza medi dei dipendenti in una stessa societa’ si stanno addirittura allungando, perlomeno nel mondo anglosassone, che era quello apparentemente piu’ colpito dall’affermazione di una cultura aziendale piu’ frammentaria e dinamica. Secondo una monumentale ricerca sul futuro del lavoro condotta dall’Economic and Social Research Council e pubblicata dal British Journal of Industrial Relations (Blackwell) a cura di Peter Nolan e Stephen Wood, che insegnano all’Universita’ di Leeds e di Sheffield, il mondo del lavoro si presenta oggi con caratteristiche molto piu’ convenzionali di quanto si tenda a credere ed e’ percorso da trend che vanno addirittura in direzione opposta ai miti piu’ affermati. Ad esempio l’impiego full time nel mondo anglosassone resta ampiamente dominante e interessa nove dipendenti su dieci. Le lunghe carriere interne a un’azienda non sono affatto scomparse, anzi: la permanenza in uno stesso incarico si e’ addirittura allungata da sei a sette anni e mezzo nell’ultimo decennio. Non emerge inoltre un aumento dell’imprenditorialita’: mentre i lavoratori indipendenti erano aumentati rapidamente dal 5 all’11% del totale tra il ’79 e l’84, oggi siamo ridiscesi al 7%. Questi e altri trend individuati da Nolan e Wood dimostrano che la rivoluzione digitale, pur nel suo dirompente impatto sulle organizzazioni aziendali a tutte le latitudini, in fondo ha avuto meno conseguenze di quanto si credesse comunemente.
In particolare il famoso “company man”, dato per morto gia’ nel ’95 da Anthony Sampson, uno dei futurologi piu’ seguiti dagli studiosi di gestione aziendale, e’ ancora vivo e sembra piu’ in forma che mai. Nel suo famoso libro “Company Man: the Rise and Fall of Corporate Life” (HarperCollins), Sampson descriveva lo sfaldamento della cultura aziendale tipica delle grandi corporation, basata su una rigida struttura piramidale lungo la quale si riusciva ad ascendere piu’ facilmente per carriera interna piuttosto che paracadutandosi ai piani alti dall’esterno. Oggi, diceva Sampson in piena rivoluzione digitale, l’uomo-azienda che si identifica completamente con la filosofia della sua corporation e raggiunge una simbiosi perfetta con il suo ambiente di lavoro, tanto da perdere di vista la sua identita’ individuale, non potrebbe piu’ esistere, data la profonda trasformazione imposta dalle nuove tecnologie alla vita delle aziende. Ormai e’ il dinamismo, il talento individuale, la capacita’ di distinguersi dagli altri che vengono privilegiati sulla fedelta’ e la capacita’ di uniformarsi a un modello imposto dall’alto. In effetti, bastava fare un giro a Silicon Valley o dalle parti di Redmond per rendersi conto che la struttura classica dell’organizzazione tentacolare che non lascia spazio all’individuo era scomparsa. Ma non completamente.
Ad esempio alla Bbc, un colosso nel mondo dei media globali con 27mila dipendenti e un bilancio annuale di oltre due miliardi e mezzo di sterline, si annidava ancora un uomo-azienda di energia non comune, Will Wyatt, che malgrado la rivoluzione digitale e tutte le altre rivoluzioni precedenti di cui ormai nessuno si ricorda e’ riuscito a rimanere al suo posto per ben 34 anni, scalando la piramide interna fino a diventare vice-direttore generale sotto John Birt e registrando con puntigliosita’ anglosassone tutti i trionfi e le carognate della mitica emittente pubblica britannica. Le sue osservazioni sono appena uscite in un capolavoro della cultura aziendale sulle rive del Tamigi, “The Fun Factory” (Aurum Press), che potrebbe essere preso ad esempio come un peana del concetto di uomo-azienda. Nel rivelare i complotti interni (tutti falliti) rivolti ad impedire al candidato esterno Greg Dyke di diventare il nuovo direttore generale, Wyatt si tradisce con una frase che andrebbe eletta a inno del company man: “Spesso penso che la Bbc trovi difficile assimilare i nuovi venuti”.
La sua estrema diffidenza nei confronti degli esterni ci rimanda – mutatis mutandis - all’autobiografia di Jack Welch (“Jack Straight from the Gut”, Warner Business Book). Il mitico amministratore delegato di General Electric è stato un tipico uomo-azienda: approdato fresco di laurea, nel ’60, al regno delle apparecchiature elettriche per occuparsi dell’espansione di GE nella plastica, Neutron Jack ha scalato l’intera piramide aziendale fino a raggiungere la cima nell’81, per restarci poi vent’anni esatti, nei quali ha decuplicato gli utili e trasformato General Electric in una conglomerata che tocca praticamente tutti gli aspetti della vita umana. Imbevuto fino alle ossa di cultura aziendale, Welch l’ha modellata dal di dentro a sua immagine e somiglianza, per passare poi il testimone al suo clone Jeffrey Immelt, a sua volta un uomo-azienda che lavora in GE dall’82 e ha succhiato la cultura aziendale con il latte, visto che suo padre ci ha lavorato per ben 38 anni.
Tutto il contrario del “manager volante” che si era affermato negli anni Novanta, quando una carriera tutta interna era diventata un incomodo più che un vanto per chiunque aspirasse alla cima. Tipico esempio di quest’attitudine è stata la nomina alla guida di Ibm di Lou Gerstner, un uomo di McKinsey che si era girato diverse blue chip (da American Express a Nabisco) prima di approdare a Big Blue nel ’93. Nel suo libro “Who Says Elephants Can’t Dance” (HarperBusiness), uscito alla fine dell’anno scorso, Gerstner sostiene a spada tratta che nessuno venuto dall’interno avrebbe potuto salvare Ibm, come – modestia a parte – è riuscito a fare lui. Fatto sta che il suo successore, Sam Palmisano, è in Ibm dal 1973. E che negli ultimi tempi Big Blue non gode di buona stampa su alcuni affarucci gestiti disinvoltamente ai tempi di Gerstner.
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