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30 aprile 2009

Kyoto non basta: apriamo un ombrellone nello spazio?

Ridurre le emissioni umane di CO2 non è il solo modo per combattere il riscaldamento del clima. Ci sono altri interventi possibili, che vengono comunemente chiamati geoengineering e ricadono in due grandi categorie: rimuovere attivamente l'anidride carbonica dall'atmosfera oppure riflettere i raggi del sole verso lo spazio. Uno scienziato inglese, Tim Lenton, ha studiato le diverse tecniche e misurato le loro potenzialità di raffreddamento in uno studio, riassunto nello schema qui sotto.

1. Aerosol di zolfo nella stratosfera. L'obiettivo è creare uno schermo riflettente per far passare meno radiazioni solari, come succede con le eruzioni vulcaniche di vaste dimensioni, in modo da raffreddare la Terra quel tanto necessario a controbilanciare il riscaldamento creato dall'effetto serra. Un risultato analogo si otterrebbe con schermi riflettenti messi in orbita attorno alla Terra.

2. Produzione di nuvole. Con un sistema meccanico: spruzzando acqua di mare arricchita si confezionano nuvole con un'albedo più potente, che riflettono la luce del sole. Con un sistema biologico: si aggiunge solfuro dimetile, che ha funzione aggregante nei confronti delle particelle di vapore e provoca la formazione di nubi.

3. Potenziamento dell'albedo terrestre. Ricoprire i deserti non sabbiosi, molto poco riflettenti, con un foglio di poliuretano bianco foderato di alluminio. Selezionare o ingegnerizzare piante più riflettenti e diffonderle nelle praterie o nei campi coltivati. Dipingere gli insediamenti umani con colori chiari.

4. Sequestro dell'anidride carbonica. Usando dei prodotti chimici che assorbono la CO2, si può estrarla dai fumi delle centrali o dall'aria e poi sequestrarla in depositi geologici. La separazione della CO2 è fattibile e già praticata in via sperimentale, ma il problema del sequestro non è ancora stato risolto.

5. Afforestazione e riforestazione. Il migliore deposito per la CO2 sono le piante: piantando alberi in maniera massiccia o almeno rimpiazzando le foreste danneggiate, si aumenta la quantità di anideride carbonica assorbita naturalmente dal mondo vegetale. Queste sono tecniche già praticate e riconosciute dal protocollo di Kyoto.

6. Fertilizzazione degli oceani. Aggiungendo ferro, azoto o fosforo là dove manca, si scatena la produzione di fitoplancton, che assorbe CO2 come le piante e poi la seppellisce sul fondo. Lo stesso risultato si ottiene aspirando in superficie, con una pompa, le acque profonde, molto più ricche di sostanze nutrienti.

7. Produzione di biochar. Carbonizzando gli scarti agricoli o qualsiasi altra biomassa in assenza di ossigeno, il carbonio contenuto nelle piante non si disperde nell'atmosfera come in una combustione normale, ma si fissa all'interno del biochar, che poi può essere distribuito sui campi come fertilizzante.

Venti ragioni per diffidare del geoengineering

Da uno studio del climatologo americano Alan Robock:

1. Danni ai climi regionali. Dall'eruzione dei vulcani sappiamo che l'immissione di particelle di zolfo nell'atmosfera può causare gravi siccità localizzate.

2. Danni all'ecosistema marino. L'acidificazione degli oceani distrugge le barriere coralline e il fenomeno si accentuerà assorbendo altra CO2.

3. Riduzione dell'ozono. Le particelle spruzzate nella stratosfera scatenano reazioni chimiche analoghe a quelle che sono all'origine del buco nell'ozono.

4. Danni al mondo vegetale. Meno raggi solari, meno fotosintesi clorofilliana: cosa succederebbe alle piante e alle coltivazioni ad uso alimentare?

5. Piogge acide. Spruzzando particelle di zolfo nell'atmosfera, aumenta l'acidità dell'aria mano a mano che questo materiale si depone, danneggiando l'ambiente.

6. Formazione di cirri. L'aerosol causa la formazione di cirri, che cambiano la riflettività in tutte e due le direzioni in modi che ancora non si capiscono.

7. Cieli bianchi, tramonti rossi. Come nell'Urlo di Edvard Munch, dipinto nel 1883, dopo l'eruzione del Krakatau in Indonesia. Ci mancheranno i cieli azzurri?

8. Meno sole per i pannelli. Dopo l'eruzione del Pinatubo nelle Filippine, le radiazioni solari sono calate del 35%, tagliando la produzione fotovoltaica.

9. Inquinamento dall'industria geoingegneristica. Le migliaia di aerei o di cannoni navali utilizzati per spruzzare aerosol avrebbero un enorme impatto ambientale.

10. Riscaldamento rapido se si blocca il sistema. Una crisi potrebbe interrompere un progetto geoingegneristico a metà, con il rapido annullamento dei suoi effetti.

11. Impossibile tornare indietro. Possiamo sparare particelle nell'atmosfera, ma non riprendercele se l'eruzione di molti vulcani causasse una glaciazione.

12. Errori umani. Da Chernobyl alla Exxon Valdez, sappiamo che l'uomo spesso sbaglia: possiamo giocarci il futuro della Terra affidandoci a sistemi così complessi?

13. Indebolimento della volontà di tagliare i gas serra. Se la gente scopre che la CO2 si può nascondere sotto il tappeto, smetterà d'impegnarsi nei tagli alle emissioni.

14. Costi. Gli schermi solari proposti da Roger Angel costerebbero "alcune migliaia di miliardi". Non converrebbe usarli per produrre energia pulita?

15. Controllo commerciale della tecnologia. Chi controllerebbe questi sistemi? I governi? O le aziende proprietarie dei brevetti sulle varie tecnologie?

16. Usi militari. Gli Stati Uniti allungarono la stagione dei monsoni in Vietnam per impantanare il nemico, chi ci garantisce che qualcuno non lo rifarebbe?

17. Conflitti con gli accordi in vigore. L'Environmental Modification Convention vieta l'uso di tecniche che potrebbero modificare il clima di una regione.

18. Controllo del termostato. Come faremo a mettere d'accordo i vari Paesi sul clima ideale? Se la Russia volesse un paio di gradi in più e l'India in meno?

19. Questioni di etica. Conoscendo gli effetti dei gas serra, abbiamo il diritto di continuare a emetterli? E come giudicare il diritto di controllare il clima?

20. Chi paga le conseguenze inaspettate? Gli scienziati non hanno certezze su tutte le complesse interazioni che modificano il clima. Se qualcosa va storto, chi paga?

Datemi una tonnellata di ferro e vi darò una glaciazione

"Datemi una nave cisterna piena di fertilizzante a base di ferro e vi darò una glaciazione". Questo era lo slogan di John Martin, un oceanografo americano padre della "teoria del ferro", con cui voleva disseminare le zone morte degli oceani, per scatenare una fioritura di microalghe capaci di assorbire tonnellate di anidride carbonica dall'atmosfera. L'eredità di "Iron Man", scomparso nel '93, è stata raccolta da una startup californiana, Climos, fondata da Dan Whaley, veterano di Silicon Valley, con al suo attivo la più importante transazione cash della Net Economy, quando vendette nel 2000 la sua prima creatura, GetThere, per 750 milioni di dollari. Climos, così come la startup australiana Ocean Nourishment, spera di riuscire a commercializzare la fertilizzazione degli oceani, guadagnando crediti di carbonio, analogamente a quanto succede con i progetti di riforestazione. La teoria del ferro parte dalla constatazione che già oggi il fitoplancton assorbe con la fotosintesi clorofilliana altrettanta anidride carbonica di tutte le foreste della terra. Martin, mosso dalla convinzione che il mare potrebbe aiutare l'uomo meglio della terra a rallentare il riscaldamento del clima, con i suoi studi ha aperto la strada a uno dei primi esperimenti di geoengineering mai tentati. Nel '93, pochi mesi dopo la sua morte, la Columbus Iselin arrivò in un'area del Pacifico equatoriale che i cartografi ottocenteschi chiamavano la Zona Desolata, portando con sé 23 scienziati e mezza tonnellata di solfato ferroso, che fu disseminato su 25 miglia quadrate di oceano. I risultati furono buoni, ma non ottimali: un satellite della Nasa segnalò una produzione di clorofilla notevole, ma inferiore a quella che ci si attendeva. Nel '95 si fece il bis, distribuendo il ferro più lentamente: stavolta la fioritura fu impressionante e produsse una biomassa equivalente a 100 sequoie adulte. Da allora si sono ripetuti una decina di esperimenti analoghi. L'ultimo risale al mese scorso, quando una spedizione indo-tedesca ha "fertilizzato" 300 chilometri quadrati di oceano meridionale. In questo caso la fioritura c'è stata, ma le alghe non erano quelle giuste. L'oceanografo Victor Smetacek ha spiegato che il fitoplancton è stato subito divorato dai crostacei, dimostrando che l'area prescelta non era adatta. Il trucco, infatti, sta nello scegliere aree povere di ferro ma ricche di silicio, dove crescono soprattutto diatomee, provviste di un minuscolo astuccio siliceo che le protegge dai predatori. "Il sistema è più complesso di quanto credessimo", ha commentato Smetacek, deluso. Ma i fautori della fertilizzazione non si danno per vinti e vorrebbero continuare, nonostante le critiche degli ambientalisti, preoccupati dai danni che le fioriture indotte dall'uomo potrebbero causare all'ecosistema marino.

L'aspirapolvere dell'anidride carbonica

Ripulire l'aria dalla CO2 in eccesso è sempre stato un pallino fisso della Nasa: in una navicella spaziale, troppa anidride carbonica significa morte certa per gli astronauti. Impianti "aspira CO2", dunque, esistono fin dai tempi dell'Apollo. Ma non erano mai usciti da quell'ambito. Klaus Lackner, un geofisico della Columbia, li ha tirati fuori da là e vorrebbe piantarli in giro come grandi alberi artificiali, molto più efficienti di quelli veri. Dai suoi esperimenti è nata una startup, la Global Research Technologies, di Tucson, che spera di raggiungere presto un risultato commerciale. Il primo prototipo è recentissimo e consiste in un cassone delle dimensioni di un armadio, aperto su due lati e pieno di fogli molto sottili posizionati verticalmente. I fogli sono spalmati di un composto chimico che assorbe la CO2 e "lavati" da un altro composto che la estrae per immagazzinarla. Il bilancio energetico è positivo: per estrarre una tonnellata di CO2, la macchina consuma 100 kWh di energia, corrispondenti a un'esmissione di circa 35 chili di CO2 (3,5% di una tonnallata). Lackner è convinto che si potrebbe cominciare a installarle dovunque serva dell'anidride carbonica per uso industriale: estrarla dall'aria sarebbe sempre più economico che produrla chimicamente e farla arrivare da lontano.

Si può salvare il pianeta con il lievito per dolci?

Si può combattere il riscaldamento del clima con il lievito per dolci? Joe David Jones è convinto di sì. Il fondatore di Skyonic, una startup texana, ha inventato un processo industriale chiamato SkyMine, che cattura il 90% dell'anidride carbonica emessa da qualsiasi combustione e la fissa con l'idrossido di sodio per produrre bicarbonato, utilizzato comunemente come lievito sintetico. Il suo sistema rimuove anche il 97% dei metalli pesanti e gran parte degli ossidi di zolfo e di azoto. In pratica, è un filtro dei fumi inquinanti, ma nel contempo fissa l'anidride carbonica. La prima versione pilota è già in funzione in una grossa centrale a carbone dell'utility texana Luminant. Con un sistema analogo, la GreenFuel dell'imprenditore israeliano Isaac Berzin sta ripulendo dalla CO2 i fumi dell'Arizona, ma non ci fa lievito per dolci. Quell'anidride carbonica gli serve per alimentare tonnellate di alghe, con cui produce biocarburante. Il sistema GreenFuel ha attratto l'attenzione dell'europea Aurantia, che lo sta applicando in un cementificio spagnolo. L'idea di fondo, per tutti, è sempre la stessa: perché produrre anidride carbonica sinteticamente, quando è possibile catturarla dalle emissioni delle centrali, guadagnando anche crediti di carbonio?

16 aprile 2009

Da Buster Keaton a Barack Obama: viva il treno!

«Sono invidioso dei vostri treni, perché non possiamo avere anche noi la vostra alta velocità?» Detto, fatto. Obama, che nel primo viaggio in Europa da presidente aveva espresso a cuore aperto tutta la sua invidia per i treni del Vecchio Continente, prende la bacchetta magica e tira fuori dal cappello l’alta velocità per l’Amtrak, stanziando 8 miliardi di dollari per la rivoluzione verde del sistema dei trasporti americano. «I treni ad alta velocità che collegano le città e aprono nuove opportunità economiche sono una realtà che si sviluppa da decenni - ha detto il presidente - sono stati fatti, ma non da noi: Paesi come la Francia, la Spagna, la Cina e il Giappone hanno dimostrato il successo di questo sistema di traporto». Una novità assoluta per un Paese che non ha certo il mito del treno nel suo immaginario popolare. Bisogna risalire alle scene di assalto ai treni nel selvaggio West, ai film di Buster Keaton o all’epopea degli hobo, i vagabondi senza casa cantati da Woody Guthrie e da Bob Dylan, per capire le aspirazioni visionarie di Obama. Niente James Dean e motori rombanti per Barack, niente nastri d’asfalto infiniti in mezzo al deserto, benzinai arrostiti dal sole, né Harley-Davidson da Hells Angels. La sua America è fatta di altri panorami. Come quelli che si attraversano salendo su Zephyr, il mitico treno che collega Chicago a San Francisco, passando attraverso i campi di grano del Midwest, le Rocky Mountains del Colorado e la Sierra Nevada: 2.130 miglia da percorrere, dice l’orario dell’Amtrak, in 51 ore e 20 minuti, contro le 30 ore di macchina regolamentari. Un viaggio bellissimo, ma per chi ha fretta non c’è storia. Negli Stati Uniti, oggi i treni più veloci vanno a 90 miglia (145 chilometri) all’ora. Ma ora arriva Obama: dopo il primo investimento di otto miliardi, il presidente ha spiegato che chiederà altri 5 miliardi da essere stanziati nei prossimi cinque anni. «E’ un piano realistico in due fasi - ha spiegato - la prima prevede che venga modernizzata l’attuale rete e la seconda che si provi la costruzione di nuove linee leggere». Auguri.

12 aprile 2009

Jean-Paul Fitoussi

«Non andiamo verso la catastrofe», come si temeva. Ma secondo l’economista francese Jean-Paul Fitoussi, presidente dell’Osservatorio sulla congiuntura economica, «la recessione in Europa sarà più profonda che negli Stati Uniti e il risanamento più lento».
Perché?
«E’ semplice: i governi europei non reagiscono abbastanza, mentre il governo americano sta facendo molto e rapidamente».
Si può già vedere dai numeri?
«Certamente. Nel 2008 l’economia nordamericana è cresciuta più dell’economia europea e nel 2009 l’economia europea subirà una contrazione almeno del 3%, mentre quella americana del 2% o poco più. Nel 2010 l’Europa crescerà al massimo di mezzo punto, gli Usa di un punto almeno».
Non è una novità...
«E’ vero, è sempre così. Le crisi globali cominciano negli Stati Uniti, ma poi siamo noi europei che ce le becchiamo in pieno. E le ragioni sono sempre le stesse».
Quali sono?
«I Paesi europei sono sposati, ma insistono a vivere in stanze separate. Tra i governi manca il coordinamento, per non dire che talvolta si fanno addirittura la guerra fra di loro. Ognuno sta attento solo agli interessi nazionali e nessuno tutela quelli complessivi dell’Europa. Ma siccome a livello macroeconomico gli interessi europei contano di più di quelli dei singoli Paesi, alla fine ne soffrono tutti».
Si riferisce anche alla politica monetaria?
«La Bce reagisce troppo lentamente e in maniera poco incisiva, ma mi riferisco soprattutto alla povertà degli stimoli governativi ai consumi».
Perché manca lo stimolo ai consumi?
«Nessun governo europeo vuole stimolare i consumi, perché i suoi cittadini tendono a comprare molti beni prodotti negli altri Paesi d’Europa: così lo stimolo andrebbe a finanziare l’import più che le imprese nazionali. Ma è un ragionamento miope, che invece andrebbe fatto a livello continentale: se tutti i governi stimolassero i consumi, tutti i Paesi ne trarrebbero un beneficio».
Cosa bisognerebbe fare?
«Ci vuole una gestione più coraggiosa della macroeconomia, bisogna spendere di più. Mentre gli Stati Uniti prendono provvedimenti, in Europa si aspetta l’intervento di un misterioso destino. Gli europei sono troppo prudenti, si spaventano subito per un disavanzo del 5%, ma gli Stati Uniti avranno un disavanzo del 12% e nessuno si preoccupa! Negli Usa sono stati stanziati quasi mille miliardi, in Europa solo trecento, cioè un terzo. E poi ci si chiede perché qui la recessione dura di più?»
Eppure qualche segno di ripresa si vede...
«Ma anche diversi segni di approfondimento della crisi. La disoccupazione, ad esempio, sta crescendo molto rapidamente. Causerà enormi sofferenze sociali e una ulteriore riduzione dei consumi. Se nel 2010 l’economia europea crescerà solo di mezzo punto percentuale, non sarà sufficiente a ridurre la disoccupazione. Ci vuole uno stimolo più forte per arrivare a una svolta».

10 aprile 2009

La lunga battaglia dei biocarburanti sostenibili

Bp si allea con Verenium, azienda americana molto innovativa nella sperimentazione dell'etanolo cellulosico, e con D1Oil, specializzata nella coltivazione di jatropha, una pianta oleaginosa tossica, con cui si produce biodiesel senza interferire nella catena alimentare. Shell ha sposato Iogen, che ha già un impianto dimostrativo da 700mila litri di etanolo cellulosico all'anno, non ancora a livello commerciale. Chevron si è alleata con Solazyme, pioniera californiana del biodiesel dalle alghe. E la lista delle compagnie aeree che stanno testando biocarburanti da alghe si allunga tutti i giorni: sia i motori da jet Rolls Royce che GE Aviation li usano. Cosa hanno in comune tutti questi progetti? L'obiettivo è svincolarsi dai biocarburanti di prima generazione, accusati di aver provocato uno sconquasso nei prezzi delle granaglie e di causare danni ambientali e sociali addirittura superiori all'estrazione dei combustibili fossili: vaste aree di foresta tropicale abbattute per far posto alle coltivazioni di canna da zucchero, di palma da olio o di soia, popolazioni intere spossessate dei loro terreni, specie animali e vegetali minacciate di estinzione. Ma con quali parametri un biocarburante può essere definito sostenibile? La prima società di certificazione indipendente che si è avventurata su questo terreno è la Société Générale de Surveillance, leader mondiale della certificazione con sede a Ginevra, controllata al 15% dall'Ifil. "L'attuazione di un sistema di certificazione obbligatorio sarebbe uno strumento efficace per distinguere i biocarburanti buoni da quelli cattivi - spiegano alla Sgs - ma una certificazione obbligatoria potrebbe essere considerata una barriera commerciale dalla Wto. Al momento attuale, solo una certificazione volontaria può essere presa in considerazione su larga scala". Questo distingue nettamente la certificazione di sostenibilità dei biocarburanti dai vari bollini di qualità obbligatori. Ma non ne riduce il valore. La prima fornitura di biocarburante garantito da Sgs è stata prodotta a fine 2008 da Sekab, un'azienda scandinava che copre il 90% del fabbisogno di etanolo della Svezia, dove un'auto su tre va a biofuel. Sekab ci ha messo un anno e mezzo per ottemperare a tutti i parametri necessari, lavorando con dei coltivatori brasiliani di canna da zucchero decisi a mettersi in regola con i parametri di sostenibilità. Ha scelto con attenzione le piantagioni, ha meccanizzato il raccolto e dichiara, con il sigillo di Sgs, di produrre un carburante che fa risparmiare almeno l'85% di emissioni di gas serra rispetto alla benzina. Ora diversi Paesi stanno studiando una legislazione per concedere sconti fiscali solo ai biocarburanti considerati sostenibili. L'Unione Europea ha pubblicato in gennaio le linee guida per una direttiva che dovrebbe escludere dagli sconti fiscali tutti i biocarburanti che non consentano di risparmiare almeno il 35% di emissioni di gas serra rispetto ai combustibili fossili, esaminando l'intera filiera produttiva, dal campo alla pompa. E anche gli Stati Uniti sono sulla buona strada. Ma le legislazioni allo studio taglierebbero fuori dal mercato europeo circa metà del biocarburante attualmente utilizzato, prevalentemente quello prodotto con materia prima proveniente dai Paesi in via di sviluppo, tanto che otto Paesi - dal Brasile alla Malaysia - hanno già protestato con Bruxelles. Sarà una lunga battaglia.

8 aprile 2009

No alle New Town, sì agli eco-quartieri

Una grande tragedia. Ma anche una grande opportunità. «Quella di agganciarsi al treno degli eco-quartieri, che l’Italia ormai stava perdendo». Mario Cucinella, architetto bolognese pluripremiato per i suoi progetti di case eco-sostenibili, non fa fatica a immaginare dei quartieri modello al posto delle case crollate come un castello di carte: blindati dal punto di vista della sicurezza anti-sismica, all’avanguardia sul fronte della salubrità e dei consumi energetici.
Difficile parlare di futuro davanti alle macerie, ma non si può fare a meno di immaginare una realtà nuova al posto di queste case che non hanno protetto nessuno...
«Sarà anche difficile, ma è molto urgente. Bisogna dare a queste popolazioni una soluzione rapida e sicura perché possano ricostruire la loro normalità. L’importante è non riutilizzare gli stessi materiali e gli stessi modelli edilizi che hanno portato a questo disastro. Stavolta abbiamo l’opportunità di far vedere al mondo un Paese che reagisce non solo con l’assistenza, ma con la qualità e la creatività. E’ una grande opportunità per migliorare l’immagine cialtrona dell’Italia».
Lei parla di nuovi quartieri più che di nuove città...
«Non è pensabile sradicare completamente gli abitanti di queste zone dal contesto in cui vivevano. E del resto il concetto di new town è molto superato. Quello che invece si potrebbe inserire molto bene in questo contesto sono i nuovi quartieri eco-sostenibili, che crescono come funghi in tutta Europa e in Italia mancano del tutto».
Proviamo a fare qualche esempio?
«Mi riferisco a insediamenti come BedZed, un piccolo quartiere a Sud di Londra, realizzato nei primi anni Duemila in materiali naturali e riciclati, con un ottimo bilancio energetico grazie ai pannelli fotovoltaici e alla buona esposizione. Oppure il quartiere Vauban di Friburgo, realizzato in una zona di caserme abbandonate a costi bassissimi e tutto composto da edifici passivi, che assicurano il benessere termico senza alcun impianto di riscaldamento convenzionale».
Il suo progetto di una casa da 100mila euro sarebbe adatto alle esigenze della ricostruzione?
«La mia casa da 100mila euro si costruisce in otto mesi con materiali molto leggeri, che rispondono bene alle esigenze antisismiche del luogo. Quindi soddisfa le necessità di rapidità e sicurezza delle popolazioni colpite. E’ una casa che si avvale di tutte le tecnologie disponibili per limitare i costi di costruzione senza compromettere la qualità. E’ capace di produrre energia utilizzando ogni strategia passiva e attiva per rendere l’edificio una macchina bioclimatica. Anzi, una parte dell’energia prodotta può anche essere venduta alla rete, generando un microreddito».
Potrebbe essere la soluzione ideale.. .
«Ma non è l’unica soluzione. Bisogna dare spazio alla creatività italiana per riportare alla luce un modello di convivenza che si adatti bene al nostro territorio, senza abbandonare le popolazioni colpite alla speculazione. Il grande ostacolo nei processi di ricostruzione è la burocrazia. E’ giusto abbattere le barriere burocratiche introducendo delle deroghe, ma nel contempo ci vuole una profonda regia del governo, per non lasciare questo grande compito al caso».
Se il progettista fosse lei, che cosa privilegerebbe?
«La rapidità e la qualità dei materiali».

6 aprile 2009

Il "biomassologo" non esiste

Il segmento più in espansione nel mondo delle energie verdi è quello delle bioenergie, ma in realtà non esiste ancora una figura professionale ad hoc, una specie di "biomassologo", esperto di bioenergie. Finora il mercato si è rivolto a figure ibride, al confine tra agraria, biologia e ingegneria, in grado di sviluppare competenze trasversali. Le professionalità più richieste dalle aziende dovrebbero conoscere le logiche del mercato, i principi della sostenibilità ambientale, l’ingegneria meccanica ed energetica e un po’ di agraria. In pratica, dovrebbero saper applicare i principi della termodinamica a diverse materie prime. Ma il mondo della formazione, in Italia, resta molto frammentario. Attualmente le bioenergie sono presenti nel programma di diversi corsi di studio: scienze forestali, agraria, ingegneria, la preparazione di base è così disseminata in modo trasversale su più fronti. La specializzazione, invece, viene affidata ad alcuni master. Il più attivo è il master internazionale in Bioenergia e Ambiente (Imes), organizzato dal Centro interdipartimentale di ricerca per le energie alternative e rinnovabili dell’Università di Firenze (Crear): giunto quest'anno alla sua quarta edizione, il master focalizza la sua attenzione sulle problematiche legate ai biocombustibili e alla qualità dell’aria, senza tralasciare la legislazione in materia. Si svolge in collaborazione con la Universidade Nova de Lisboa e l’attività didattica è supportata da seminari in videoconferenza con università europee e americane.Poi c'è il master in Gestione delle biomasse e dei processi per la produzione di energia, promosso dal Centro nazionale delle ricerche (Cnr), in particolare dall’Istituto di Biologia e Biotecnologia Agraria. Fra gli iscritti dell'anno scorso, il 50% ha trovato subito un impiego, mentre gli altri avevano già un'attività, cha volevano ampliare inserendo nelle loro competenze la consulenza tecnica sulle bioenergie. Le aziende del settore (soprattutto impiantistiche) contribuiscono al master con borse di studio per formazione di proprio personale. A Padova, che vanta un centro di agraria tra i più avanzati d’Italia (l’Agripolis di Legnaro), il master in Bioenergia invece non è stato più riattivato, dopo la prima edizione, per mancanza di risorse. La prima edizione era stata avviata grazie ad alcuni fondi, appartenenti al progetto nazionale ProBio che finanziava sia la formazione che per la ricerca. Oggi questi fondi non ci sono più.

5 aprile 2009

Con le biomasse energia a 4 milioni di famiglie

Sorgerà nel Galles, avrà una potenza di 300 megawatt e quando sarà completato, nel giro di un paio d'anni, sarà il più grande impianto a biomasse del mondo, capace di fornire energia a migliaia di famiglie per almeno 25 anni bruciando trucioli di legno. Malgrado le resistenze, legate a una materia prima che viene pur sempre dalle amate foreste, le biomasse sono una fonte alternativa con un bilancio neutro in termini di emissioni e rappresentano il 5% del consumo totale di energia in Europa, con punte del 10-15% in Paesi come la Finlandia, la Svezia e l'Austria. In Italia, tra i primi a crederci è stato il fondo di private equity Clessidra, guidato da Claudio Sposito. Agli inizi del 2008, è entrato con una quota del 30% nella Global Wood Holding, società registrata in Svizzera cui fa capo la Preenergy Power, che sta costruendo il mega-impianto del Galles. Al gruppo Gwh fanno capo anche una serie di società internazionali attive nella produzione forestale, agricola e proprietarie di navi, che esauriscono l'intera catena produttiva dell'energia da residui della lavorazione del legno. Nel libro soci della holding - presieduta da Fabrizio Palenzona, vice presidente di UniCredit, e guidata dall'amministratore delegato Giorgio Casnati - figurano la Sfch, società che fa capo alle famiglie italiane Costa e Bonaldi, e la Tmt Global, uno dei principali gruppi armatoriali privati del mondo, con sede a Taipei. Ma la scommessa di Sposito non è isolata. A distanza di soli dodici mesi dall'avvio del progetto Gwh, un altro gruppo, l'inglese Drax, ha avviato il più grande investimento al mondo nelle biomasse, che prevede la costruzione di 3 impianti da 300 Mw con l'obiettivo di coprire nel 2012 il 15-16% della produzione da fonti rinnovabili nel Regno Unito e circa il 2% dei consumi nazionali. Quanto all'Italia, oggi gli impianti energetici a biomasse si attestano sui 2mila MW e sono cresciuti del 10% nel 2008. Ma i dati diffusi da Itabia (Italia Biomass Association) indicano un notevole potenziale di sviluppo per questi impianti, che possono usare non soltanto legno, ma anche molti scarti delle produzioni agricole. Le biomasse disponibili nel nostro Paese, essenzialmente residui vegetali, potrebbero fornire già oggi energia, in impianti di teleriscaldamento, riscaldamento e acqua calda, per 4 milioni di abitazioni. La sola Sicilia produce circa due milioni di tonnellate di residui potenzialmente utilizzabili. Il Piemonte ne produce 1,6 milioni. La Lombardia 1,5 milioni. I nuovi incentivi del governo, che ha applicato anche alle biomasse un sistema analogo a quello del conto energia per il fotovoltaico, innalzando la tariffa da 22 a 28 centesimi per kilowattora per gli impianti inferiori a un megawatt di potenza, dovrebbero promuovere la crescita di questa fonte. L'incentivo è cumulabile con altri contributi pubblici, purché in totale non si superi il 40% del costo dell'investimento. Non a caso le centrali a biomasse si stanno moltiplicando, ma da noi restano terreno di caccia per le aziende più piccole o per la generazione diffusa. In Calabria ci sono due tra i più innovativi impianti a biomasse d'Europa, a Strongoli (con una potenza di 40 MW) e Crotone (20 MW). In Toscana, nelle Marche e in Friuli ci sono varie esperienze di paesi che utilizzano il teleriscaldamento da una centrale a biomasse. E il gruppo Maccaferri sta riconvertendo alcuni dei suoi zuccherifici alla produzione di energia da biomasse. Ma mancano i grandi impianti sul modello di Gwh o di Drax, che invece in Italia potrebbe essere di notevole interesse, per convertire a biomasse vecchie centrali ancora alimentate a gasolio, come quella di Enel a Rossano Calabro, sempre meno utilizzata per il costo spropositato del combustibile.

1 aprile 2009

Fonti rinnovabili, in Italia meglio dei Bot

Sole, vento, maree, biomasse, calore della Terra. Con il progresso scientifico e le economie di scala, le fonti rinnovabili sono sempre più efficienti e meno costose. E la corsa alla “green economy” non si arresta nemmeno davanti alla recessione globale. Anzi. I governi di Europa, Usa, Cina, Giappone puntano su questa industria nascente per farne una delle carte cruciali nei loro pacchetti di stimolo antirecessivi. L'obbiettivo, per tutti, è di sostenere un nuovo ciclo innovativo e di posti di lavoro, per il 2009 e il 2010, tale da alimentarsi da sé anche negli anni successivi, quando alcune tecnologie chiave avranno raggiunto il punto di pareggio con il costo delle fonti fossili, anche se queste ultime, secondo un diffuso consenso tra gli esperti, ritorneranno a salire nei prezzi ai primi segnali di ripresa dell'economia mondiale. L'Italia è particolarmente favorita nel cammino planetario verso l'economia a bassa intensità di carbonio: tecnologie come il fotovoltaico, il geotermico, le biomasse, l'idroelettrico e il solare termico ben si sposano con il clima italiano e uno studio di Ernst&Young ci pone tra i Paesi europei con un potenziale naturale per le rinnovabili superiore all'obiettivo da raggiungere con il Pacchetto 20-20-20. Non a caso, nel 2008 il fotovoltaico è cresciuto del 170% e l'eolico del 35%. Oggi disponiamo di un conto energia per il solare tra i più generosi al mondo e la formula della tariffa incentivata è stata recentemente estesa anche al minieolico, alle biomasse, alla geotermia e all'energia ottenuta da moto ondoso. Investire in un impianto a ritorno garantito per vent'anni, che azzera la bolletta elettrica e genera reddito, è quasi meglio che mettere i soldi nei Bot. Il recente pacchetto anticrisi ha poi confermato l'esenzione fiscale del 55% per l'efficienza energetica abitativa che, secondo l'Assistal, ha già mosso investimenti per 1,8 miliardi nel 2008 e 2,9 miliardi prevedibili quest'anno. E ci sono ancora margini per crescere. Per esempio sulle fonti di calore rinnovabili, come quelle geotermiche, l'Italia potrebbe quintuplicare. A patto di sbloccare la burocrazia. E a patto d'investire in una rete elettrica di nuova generazione. Per supportare l'instabilità delle fonti rinnovabili, ci vuole una smart grid, capace di gestire con intelligenza la generazione verde e compensarla con quella tradizionale, ottimizzando lo storage di energia - in Italia attraverso i pompaggi nei bacini idroelettrici - per metterla in rete quando più serve. Sia negli Usa che in Europa, poi, si moltiplicano le idee e i progetti per creare "autostrade elettriche" a lunga distanza, persino transcontinentali (Europa verso Africa del Nord) tramite potenti cavi a corrente continua, capaci di portare gli elettroni rinnovabili da una costa all'altra degli Usa, o dai campi eolici del Mare del Nord al Vecchio Continente, fino a farli equilibrare con quelli provenienti dalle centrali solari del Sud-Europa o persino nel deserto del Sahara. La rivoluzione verde avrà un forte impatto anche sul mercato del lavoro: il rapporto Green Jobs delle Nazioni Unite stima in 20 milioni nel mondo, mezzo milione in Italia, i lavoratori che entro il 2030 troveranno spazio nel business delle eco-energie, dall’edilizia al riciclo dei rifiuti alle vetture eco-compatibili, con un investimento globale nel settore di 630 miliardi di dollari. In Germania, per esempio, le tecnologie ambientali negli ultimi anni sono quadruplicate e hanno raggiunto il 16% della produzione industriale totale, compreso il settore automobilistico. Negli Usa le “clean technologies” sono già al terzo posto per il venture capital, dopo l’informatica e le biotecnologie, mentre in Cina il green venture capital è più che raddoppiato, raggiungendo negli ultimi anni il 19% del totale degli investimenti. Siamo ancora solo all’inizio della salita, ma già da quest’altezza, si possono vedere i vantaggi in prospettiva: se Danimarca e Germania hanno le imprese leader nell’eolico e nel solare, è solo perché l’hanno deciso oltre dieci anni fa.