29 novembre 2009
Un nuovo filone: piccoli film ambientalisti crescono
All'inizio era solo catastrofismo. Roland Emmerich inaugurò il filone nel 2004, con "L'alba del giorno dopo", un kolossal dove il presidente americano in persona, sconvolto dell'onda anomala che sommerge New York, promette al mondo che mai più l'uomo cercherà di sovrastare la natura. Con un incasso globale di 543 miliardi di dollari, Emmerich mise a segno un successo leggendario: ora vuole fare il bis con "2012" (www.whowillsurvive2012.com), appena uscito. "The Age of Stupid" (www.ageofstupid.net), il film di Franny Armstrong che racconta la storia dell'ultimo sopravvissuto sulla Terra devastata dall'effetto serra, è l'esempio più recente della serie: proiettato il 21 settembre a New York con Kofi Annan come ospite d'onore, vuole farci riflettere sulla necessità di fermare le emissioni di anidride carbonica finché siamo in tempo.
Ma ormai l'eco-cinema - merce rarissima in Italia, nonostante la moda della sostenibilità - va al di là del comodo catastrofismo e spazia su molti generi diversi, dimostrando la crescente ampiezza della riflessione sul difficile rapporto dell'uomo con la natura. E' diventato un'industria a sé, su cui campano diverse case di produzione e fioriscono interi festival, da CinemAmbiente appena concluso a Torino, al Festival du Film d'Environnement di Parigi, passando per il neonato Going Green Film Fest di Beverly Hills.
Il filone più ricco è quello dei documentari sull'impronta ecologica dell'uomo moderno: "Una scomoda verità", di Al Gore, è il più famoso. “No Impact Man”, uscito pochi giorni fa negli Stati Uniti, introduce un taglio nuovo, che rispecchia la recente evoluzione nel messaggio dell'ambientalismo: non spaventiamo più la gente con le catastrofi, offriamo invece modelli positivi da imitare, nuovi modi, diversi dal consumismo, di arrivare alla felicità. Il film è il resoconto di un esperimento: Colin Beavan, autore newyorkese di saggi storici e blogger sempre in cima alle classifiche (http://noimpactman.typepad.com), racconta il suo viaggio nella sostenibilità, vissuto senza spostarsi da Manhattan, ma tentando di ridurre al minimo l'impatto ambientale della sua famiglia con una vasta serie di rinunce, dagli ascensori alla carta igienica.
Tra le pellicole più militanti, però, si fa strada un nuovo bersaglio, che rispecchia la forte preoccupazione di tutto il mondo anglosassone, a partire da Michelle Obama: l'industria agroalimentare, con i suoi effetti devastanti sull'ambiente e sulla qualità del cibo. Dopo i classici “Super Size Me” - che ha documentato i danni alla salute sofferti dall'autore Morgan Spurlock dopo un mese di pasti sistematici da McDonald's - e “Fast Food Nation”, che ci ha portato a visitare i mattatoi dove quegli hamburger hanno origine in condizioni terrificanti, il titolo che sta facendo più discutere ora è “Food Inc” (www.foodincmovie.com). Prodotto da Participant Media, come “Una scomoda verità” di Al Gore, il documentario ha due narratori d'eccezione: Michael Pollan e Eric Schlosser, autori di best seller e guru di punta del movimento che considera l'industria agroalimentare altrettanto dannosa dell'industria del tabacco.
Il film, uscito quest'estate negli Stati Uniti e due settimane fa a Londra, ha scatenato la violenta reazione delle grandi corporation di settore. Ma ha dalla sua schiere di fattorie biologiche e di mercati rionali, oltre a milioni di cittadini convinti che mangiare sano sia anche un modo per salvaguardare il pianeta: l'industria agroalimentare, infatti, è la prima fonte di emissioni di gas serra, nonché la principale causa d'inquinamento del suolo e delle acque. Il film, diviso in tre parti, colpisce e affonda la produzione industriale di carne, economicamente e ambientalmente insostenibile. Poi dimostra come la massimizzazione dell'efficienza nelle coltivazioni di grano e soja porti alla produzione di alimenti dannosi alla salute, che provocano obesità, malattie cardiovascolari e certi tipi di cancro. Infine punta il dito contro i miliardi di sussidi elargiti dal governo agli agricoltori, che contribuiscono all'altissima intensità di carbonio del sistema, sempre più dipendente dal petrolio, sia per i crescenti consumi di energia che per la produzione di concimi chimici e di pesticidi.
Se “Food Inc” fa un ottimo lavoro per spiegare cos'è che non va nell'attuale sistema di produzione agroalimentare, “Fresh”, di Ana Sofia Joanes (www.freshthemovie.com), ha scelto invece di pensare positivo, focalizzandosi sulla gente che fa la cosa giusta: agricoltori biologici e animatori di cooperative che offrono una visione positiva del cibo e un modello da seguire. “Homegrown” (www.homegrown-film.com), di Robert McFalls, è sulla stessa lunghezza d'onda: ci presenta una famiglia di Pasadena, in California, che è riuscita a far crescere un meraviglioso orto in un contesto urbano, alimentandosi con i suoi prodotti e vendendo la produzione eccedente. Un esempio che riesce a mettere di buon umore perfino nell'imminenza della fine del mondo.
26 novembre 2009
In pratica, il superuomo è già qui: siamo noi
Più grandi, più forti, più longevi. In trecento anni siamo diventati del 50% più alti e viviamo più del doppio dei nostri antenati. Ma siamo ancora uomini, nel senso di homo sapiens? Robert Fogel, 83 anni, è convinto che la storia dell'evoluzione umana non sia ancora conclusa, anzi, stia accelerando grazie alla crescente potenza della tecnologia. Premio Nobel per l'Economia nel 1993 per aver introdotto il metodo quantitativo nella ricerca storica, direttore del Center for Population Economics dell'università di Chicago, Fogel ha dedicato gli ultimi anni di studio alla sua teoria di una “evoluzione tecno-fisiologica” come forza dominante della recente storia umana, su cui sta per pubblicare un libro che farà discutere: The Changing Body: Health, Nutrition, and Human Development in the Western World since 1700 (Cambridge University Press). Questa pubblicazione è l'ultimo passo di un percorso lungo, iniziato negli anni Ottanta studiando la fisiologia dei soldati che hanno combattuto nell'esercito nordista, la Union Army, nella guerra di secessione americana. “Quei ragazzi, arruolati nel 1861 per difendere la causa del Nord, rappresentano la prima generazione di americani che abbia raggiunto i 65 anni nel Ventesimo secolo ed è anche il primo gruppo di veterani seguito dai servizi sociali fino alla morte, con la registrazione dettagliata di tutta la loro storia sanitaria, ora depositata negli archivi nazionali a Washington”, racconta Fogel. I registri sanitari della Union Army sono una fonte inesauribile di dati, alla quale Fogel si è abbeverato per una decina d'anni, confrontandoli poi con le caratteristiche fisiche degli americani di oggi. Da qui, ha allargato il suo studio al resto del mondo, sfruttando i dati già raccolti da altri studiosi, soprattutto in Europa ma anche in Cina e in India. “L'evidenza che ne abbiamo ricavato è talmente univoca da sorprendere anche me”, commenta Fogel. “L'uomo moderno non solo è molto più grande e più longevo di cent'anni fa, ma è anche più forte a livello biologico, perfino i nostri organi interni sono meglio formati e non cadono a pezzi davanti all'attacco degli agenti patogeni come un tempo”. I dati a disposizione ci dicono che all'inizio del '900 l'aspettativa di vita in Europa era di 47 anni, mentre oggi è di 80. In India, nel 1930 era di 29 anni, oggi è di 70. L'altezza media dei maschi europei è cresciuta di quasi trenta centimetri dal 1864 ad oggi. E gli anziani di oggi non sono più tormentati da una miriade di malattie croniche, dall'artrite all'ernia, un tempo molto comuni. “Tra i soldati della Union Army – riassume Fogel - solo uno su 4000 è riuscito a vivere fino a cent'anni, mentre nella generazione della mia prima nipotina, che è nata nell'81, uno su due ci arriverà. In pratica, da allora ad oggi l'aspettativa di vita è cresciuta di un anno ogni tre. E non c'è motivo per cui sia destinata a fermarsi: nel 2050 potrebbe sfiorare i cento e così avanti”. Tutto ciò, grazie al progresso tecnologico messo a segno in tutti i campi, dalla meccanica alla medicina, passando per le tecniche agricole. “Ma soprattutto – precisa Fogel - grazie a un circolo virtuoso innescato dalle sinergie fra il nostro corpo e le nuove tecnologie che si trova a disposizione: se è vero che la tecnologia ci ha rafforzati migliorando l'alimentazione e la vita quotidiana, è anche vero che la buona salute ha contribuito significativamente allo sviluppo economico e tecnologico”. Mettendo assieme i fattori fisiologici con quelli termodinamici, si può affermare che l'efficienza media del motore umano nel Regno Unito, ad esempio, sia cresciuta del 53% tra il 1790 e il 1980 e che abbia contribuito alla metà della crescita economica britannica. Le sinergie fra il progresso fisiologico e tecnologico, dunque, hanno messo in moto un fenomeno unico nell'ambito delle 7000 generazioni umane che hanno abitato la Terra, consentendo fra l'altro l'esplosione demografica che ha portato l'umanità a crescere dai 600 milioni di individui nel 1700 ai 6 miliardi e 800 milioni di oggi, verso i 9 miliardi nel 2050. Ma fanno degli esseri umani di oggi una specie nuova? Sull'imprinting genetico della sua “evoluzione tecno-fisiologica”, Fogel non ha certezze: non si spinge fino a sostenere che se potessimo accoppiarci con i nostri antenati non saremmo più in grado di procreare. Gli basta stabilire una serie di punti fermi sull'evoluzione umana recente, con cui possiamo permetterci di prevedere l'andamento futuro. “Negli ultimi due secoli l'uomo ha sviluppato, per la prima volta nella storia, la capacità di migliorare in maniera drastica le proprie prestazioni fisiche: malgrado i disagi cui andremo incontro, causati dalla relativa sovrappopolazione e dalla scarsità di risorse, è troppo semplicistico basare i nostri calcoli futuri sulle condizioni tecnologiche di oggi. Come possiamo sapere quale sarà l'effetto delle biotecnologie sull'evoluzione della nostra specie". In pratica, il superuomo è già qui. Siamo noi.
Ma siamo ancora esseri umani? Dipende...
Ma siamo ancora umani? Dipende. Certo è che l'evoluzione della nostra specie continua, anzi, sta accelerando. Il primo proto-umano, come noto, è un ominide africano chiamato Homo abilis, comparso 2 milioni e mezzo di anni fa. Da allora ad oggi nella nostra famiglia si sono susseguite almeno altre sei specie ormai estinte, dall'Homo erectus all'Homo neanderthalensis, prima di arrivare all'Homo sapiens di oggi. Ogni specie si è evoluta per conto proprio, da un gruppo di ominidi rimasto separato dal grosso della popolazione per diverse generazioni, in un ambiente nuovo, che favoriva caratteristiche diverse. Tagliati fuori dai loro ex-compagni, questi piccoli gruppi andavano per la propria strada genetica e quindi perdevano la capacità di riprodursi con la popolazione d'origine. Siamo arrivati così anche noi, circa 200mila anni fa, ma la frammentarietà dei ritrovamenti fossili non ci consente di identificare con certezza il nostro primo antenato, com'è stato fatto con Lucy, il primo australopiteco ritrovato in Etiopia quando i Beatles cantavano “Lucy in the Sky with Diamonds”. Da allora in poi la nostra specie si è sparsa nel mondo intero ed è prevalsa sulle altre: 10mila anni fa l'Homo sapiens aveva già colonizzato tutti i continenti, salvo l'Antartide. Con una presenza così estesa, si poteva presumere che l'evoluzione negli umani fosse terminata. E questa è stata la posizione di molti genetisti fino ai tempi recenti. Ma con la mappatura del genoma i ricercatori hanno potuto verificare meglio. Henry Harpending e John Hawks hanno scoperto che almeno il 7 per cento del genoma umano si è evoluto negli ultimi cinquemila anni e questi cambiamenti dipendono da condizioni ambientali diverse: tanto per fare un esempio, pochi cinesi e africani sono in grado di digerire latte fresco da adulti, al contrario di quasi tutti gli europei del Nord. Un altro studio di Pardis Sabet ha scoperto che oltre 300 regioni del genoma umano mostrano l'evidenza di mutazioni recenti, ad esempio nelle variazioni di pigmentazione della pelle o nella resistenza a certe malattie, grazie alle quali le diverse popolazioni sono riuscite a sopravvivere meglio nel loro specifico ambiente naturale Le ricerche di Harpending dimostrano che negli ultimi diecimila anni la specie umana si è evoluta cento volte più rapidamente di quanto sia avvenuto nei millenni precedenti, come spiega nel suo The 10,000 Year Explosion, scritto insieme a John Cochran e pubblicato da Basic Books all'inizio di quest'anno. I due attribuiscono la nuova accelerazione soprattutto ai cambiamenti enormi portati dallo sviluppo dell'agricoltura e dalla concentrazione nelle città. Le mutazioni più recenti, infatti, sono tutte mirate a difenderci dalla micidiale combinazione di carenze igieniche, alimentazione diversa e malattie inedite (spesso contratte da animali domestici), tipica della nuova condizione in cui ci troviamo. Malgrado le riserve di alcuni studiosi, gli umani sembrerebbero quindi in piena evoluzione. Se diventeremo Jedi o Sith, però, non lo sa nessuno.
17 novembre 2009
Verso Copenhagen: il business è già oltre la politica
C'è chi parla di 100 miliardi di dollari all'anno da qui al 2020, altri stimano molto di più. Questo è il prezzo di un accordo internazionale per tagliare le emissioni responsabili dell'effetto serra e avviare il mondo verso un'economia a bassa intensità di carbonio. E' per concordare questo prezzo che i rappresentanti di oltre 190 Paesi si riuniranno a Copenhagen dal 7 al 18 dicembre.
In pratica, a Copenhagen ci sarebbe da raggiungere un'intesa sulle percentuali di riduzione delle emissioni da parte dei Paesi ricchi - il che equivale a tagliare i consumi dei combustibili fossili, le risorse energetiche meno costose - e di convincere i Paesi in via di sviluppo, se non a tagliarle, almeno a stabilire dei parametri per frenarne la crescita. Convincerli significa finanziare il trasferimento di tecnologie per l'energia pulita e anche assistere economicamente le nazioni più povere, che sono le più colpite dagli attuali e futuri rovesci del clima. Ma è già chiaro che i leader mondiali non riusciranno ad arrivare così nei dettagli da fissare parametri vincolanti. Sarà già tanto se si accorderanno su un percorso di massima per consentire ai negoziatori di arrivare a quel risultato in seguito. Un accordo politico vero, condiviso da tutti, da tradurre poi in cifre con calma, sarebbe un grande successo. "Spero che andremo ben al di là di una semplice dichiarazione d'intenti", ha commentato Yvo De Boer, il capo della diplomazia climatica dell'Onu. Altrimenti, si rischia di arrivare alla scadenza del protocollo di Kyoto, nel 2012, senza un accordo vincolante e il negoziato sull'effetto serra rischia di trasformarsi in un altro Doha Round. Con le conseguenze sul clima che tutti possiamo immaginare.
Resta il fatto, però, cha la macchina per la riconversione dell'economia mondiale verso una bassa intensità di carbonio, messa in moto nel '97 dal protocollo di Kyoto, viaggia anche da sola. Gli europei hanno già preso la decisione di ridurre le emissioni del 20% al 2020 e la seguiranno in ogni caso. Gli americani, ex inquinatori numero uno (oggi scavalcati dalla Cina) hanno in discussione in Congresso un Climate Change Bill che nella migliore delle ipotesi fisserà un taglio delle emissioni al 20% e nella peggiore al 14%. I giapponesi hanno offerto ai negoziati una riduzione del 25%. I cinesi parlano di un taglio del 20%. E per rimettere in moto l'economia mondiale abbattuta dalla crisi si parla ormai di Green New Deal: il 15% dei piani di stimolo all'economia varati globalmente negli ultimi mesi, stimati sui 2.800 miliardi di dollari complessivi, sono diretti a interventi verdi, nella convinzione che la riconversione del sistema energetico dai fossili alle rinnovabili rilancerà l'occupazione e creerà nuove aziende innovative.
Nel grande business ci sono ormai almeno una decina di coalizioni, nate per sensibilizzare il mondo politico di fronte ai rischi del cambiamento climatico. Una di queste, il Carbon Disclosure Project, ha presentato nell'ultima riunione pre-Copenhagen alle Nazioni Unite un documento dove rivela che il 52% delle aziende dello S&P 500 abbia già adottato misure per la riduzione delle emissioni-serra, in barba alle lentezze della politica. "Le grandi aziende – ha detto Paul Dickinson, il capo del progetto – dimostrano di essere pronte, capaci e perfino desiderose di intraprendere misure per il taglio dell'anidride carbonica". "Se non ci muoviamo subito – ha detto Brad Figel, direttore degli affari pubblici della Nike – tutto diventerà più costoso, più arduo e rischioso". "Il 95% dei nostri prodotti è basato sul cotone – ha rimarcato Anna Walker di Levi Strauss, durante la presentazione del Carbon Disclosure Project – e la scarsità d'acqua potrebbe diventare un dramma". Non a caso, i mercati premiano tutto quello che è colorato di verde e l'energia pulita galoppa in Borsa come le dot-com alla fine degli anni Novanta. Ancora una volta, le grandi aziende sono più veloci del mondo della politica.
15 novembre 2009
Italia campo di battaglia per i big del nucleare
La seconda avventura italiana nel nucleare si va facendo affollata. Dopo la definizione della prima cordata Enel-Edf, che punta a costruire in Italia quattro reattori per oltre 6.000 megawatt di potenza complessiva, sono partiti i grandi lavori attorno a una seconda cordata, che potrebbe comprendere il colosso tedesco E.on e il gruppo francese GdfSuez, tutti e due navigatori di lungo corso nel mercato del nucleare civile. Per raggiungere l'obiettivo del governo di una quota del 25% di energia elettrica da fonte nucleare sul fabbisogno italiano, infatti, i 6000 megawatt di Enel-Edf non bastano, ne servirà almeno il doppio. Resta quindi ampio spazio per un secondo consorzio. E resta spazio anche all'interno del consorzio Enel-Edf, che sarà controllato al 51% dai due partner originari, ma accoglierà altri investitori con quote minori. Tra questi, la prima candidata è Edison. “Vogliamo avere una quota di nucleare proporzionale alla nostra quota di produzione elettrica sul mercato italiano”, ha detto il numero uno di Edison Umberto Quadrino. Il che significa che la società di Foro Buonaparte ha in progetto d'investire almeno 4 miliardi di euro nel consorzio guidato da Enel-Edf, per una partecipazione corrispondente al 20% dell'intera società.
E.on e GdfSuez, invece, hanno aperto un tavolo di lavoro sulla seconda tranche di centrali. “Ma dobbiamo prima vedere – spiega una fonte interna a E.on – le condizioni regolatorie delineate nei decreti attuativi previsti per febbraio, che stabiliranno i criteri per l'individuazione dei siti. Per concretizzare il nostro interesse deve emergere un forte consenso dall'opinione pubblica italiana su questo percorso”. Gérard Mestrallet, presidente e ad di GdfSuez, ha confermato a sua volta l'interesse “a entrare nel nucleare italiano”, con partner sia locali che europei. Ma è chiaro che i due colossi europei sono preoccupati dalle resistenze dell'opinione pubblica ai piani governativi italiani e in ogni caso avrebbero bisogno di un partner locale per partecipare più agevolmente alla spartizione della torta. Per GdfSuez potrebbe essere più facile, avendo già una stabile partnership con Acea, ma si parla anche di A2A e i giochi sono ancora aperti.
Sia E.on che GdfSuez, intanto, hanno scommesso sul programma di sviluppo nucleare inglese. E.on ha appena vinto insieme a Rwe la gara per la realizzazione di ben 6000 megawatt nucleari su due siti, Wylfa e Oldbury, per un investimento complessivo di oltre 15 miliardi. GdfSuez, con Iberdrola e Scottish and Southern Energy, ha vinto l'appalto per una centrale da 3600 megawatt a Sellafield. Mentre l’Italia ha scelto per il ritorno al nucleare una soluzione verticale, basata su un accordo intergovernativo con la Francia, cui è seguita un’intesa tecnologica tra le compagnie di bandiera dei due Paesi, la Gran Bretagna ha optato per un approccio diametralmente opposto: prima ha selezionato i siti in cui realizzare le nuove centrali e poi ha bandito una gara internazionale tra aziende elettriche. In questo modo, i concorrenti hanno già la certezza di avere un sito a disposizione. Ora che gli impianti da realizzare sono stati assegnati, i consorzi investitori metteranno in gara i vari specialisti nel cuore della centrale, principalmente la francese Areva e la nippo-americana Westinghouse, per scegliere quale tecnologia utilizzare nell'isola nucleare.
Per quanto riguarda l'Italia, la polemica sulle tecnologie è già scoppiata da tempo. Enel e Edf contano di replicare qui il reattore Epr che stanno costruendo insieme a Flamanville, con tecnologia Areva. Anche GdfSuez ha messo le mani avanti: sì al nucleare italiano, ma solo con l'Epr di Areva, non con l'Ap1000 di Westinghouse, Mestrallet lo ha detto chiaro. Il governo italiano, però, ha stretto anche un accordo con Washington sulla cooperazione industriale nel nucleare civile, che sembrava preludere allo sbarco di tecnologia americana nella penisola. L'Italia ha un interesse in più sull'utilizzo dei reattori Ap1000, perché Ansaldo ha la licenza Westinghouse e quindi qualsiasi commessa ai nippo-americani ci ritorna in tasca attraverso Finmeccanica. Ansaldo non sembra invece avere molte chance di entrare nell'isola nucleare dell'Epr di Areva, con cui ha aperto un contenzioso piuttosto vivace: mentre i legami con Westinghouse sono considerati “soddisfacenti dal punto di vista industriale e commerciale, con Areva le intese sono ancora insoddisfacenti”, ha detto l'amministratore delegato di Finmeccanica Pierfrancesco Guarguaglini nel corso di una recente audizione alla Commissione Industria del Senato. E' ancora tutto da vedere se Finmeccanica riuscirà a entrare nelle commesse per il nucleare di casa nostra.
Le 32 aziende italiane con le mani nell'atomo
Nel cantiere con vista sull'oceano di Flamanville, in Normandia, non c'è solo Enel a costruire insieme a Edf il primo reattore nucleare europeo di terza generazione: sono ben 32 le imprese italiane impegnate nella realizzazione dell'Epr e un'altra ventina sta lavorando al reattore gemello finlandese, in costruzione a Olkiluoto.
“La realizzazione di un impianto di queste dimensioni – spiega Livio Vido, direttore Ingegneria e Innovazione di Enel - richiede competenze vaste e complesse”. Su un costo totale di 4-4,5 miliardi di euro, la metà è imputabile alla cosiddetta “isola nucleare”, che comprende il reattore vero e proprio, i generatori di vapore e i pressurizzatori interni al contenitore principale, oltre agli impianti di sicurezza di prima istanza e alla sala manovre. Un altro 30% è imputabile all'isola convenzionale, che contiene i sistemi relativi alla conversione in energia elettrica del calore sprigionato dal reattore, come in tutte le centrali termoelettriche convenzionali: turbina, alternatore e tutti gli ausiliari. Il resto serve per le opere civili.
Le 32 imprese italiane, da Ansaldo a Dalmine, da Belleli a Mangiarotti, sono sub-fornitori dei contrattisti principali di Edf: Areva per l'isola nucleare e Alstom per la sala macchine. Il drappello più nutrito è quello lombardo, con 18 aziende coinvolte, altre 4 sono venete, 4 friulane, 4 emiliane, una piemontese e una umbra. Forniscono forgiati di turbina e componenti dell'isola nucleare, dal pressurizzatore alle pompe agli scambiatori, tutti al top degli standard di settore, per rispondere alle regolamentazioni più stringenti cui sono sottoposte le parti esposte alla radioattività del nucleo. E inoltre: serbatoi, tubazioni, apparecchiature in pressione e altre apparecchiature meccaniche per l'isola convenzionale.
“Il grosso del lavoro, quasi il 30%, va in forniture meccaniche”, precisa Vido, che è impegnato in prima persona nella realizzazione dell'Epr francese e anche sulla prospettiva di riproporre la stessa tecnologia in Italia, nei quattro reattori che si candida a costruire sempre in partnership con Edf. “Si tratta di un programma infrastrutturale da 16-18 miliardi di euro, con pochi precedenti nella storia del nostro Paese per dimensione dell'investimento”, fa notare Vido. Gli uomini Enel già inseriti nelle strutture di Edf dedicate all'Epr sono una sessantina su oltre 500. “Questo training sul campo – spiegano dall'Enel – è volto a ricreare le competenze e i profili professionali in grado di gestire l'intero ciclo di vita di un impianto, che oggi ci mancano. Ci tornerà utile per formare le squadre direttive che poi andranno a gestire le operazioni nei cantieri italiani”. E in ogni caso gli accordi con Edf prevedono un'opzione Enel per partecipare alla realizzazione dei prossimi 5 reattori Epr in Francia, opzione già esercitata sul primo della serie, quello di Penly.
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