25 dicembre 2009
Natale? E' uno stress per il pianeta
La stagione delle feste è il periodo più stressante dell'anno per il pianeta. Consumi alle stelle, viaggi aerei e una montagna di rifiuti allargano a dismisura l'impronta umana sulla natura. Basti pensare che in dicembre il mondo industrializzato produce il 25% di monnezza in più rispetto alla media degli altri mesi. E lo stress non colpisce solo l'ambiente: "digerire" l'enorme quantità di oggetti che ci scambiamo in questa stagione spesso mette in difficoltà anche i fortunati destinatari e la statica delle loro abitazioni. Contro l'ansia da monnezza, l'unica difesa è il riciclo. Ma per offrire un dono veramente sostenibile, bisogna cominciare a pensarci prima ancora dell'acquisto.
Shopping online. Gli acquisti online sono decisamente più verdi dello shopping nei negozi reali, sia in termini di carburante consumato (tante macchine in giro per la città contro un singolo camion), sia in relazione all'impronta ambientale complessiva dei singoli dettaglianti rispetto alla filiera del commercio online. Se si tratta di una spedizione via terra, un dono comprato online consuma in media un decimo, via air mail la metà del carburante bruciato comprandolo personalmente.
Riciclo. Per un regalo verde vanno privilegiati gli oggetti facili da riciclare, di materiali biodegradabili, come un libro. Ma se proprio ci si sente in dovere di soddisfare la fame di gadget elettronici dell'amico smanettone, bisogna almeno includere una nota con le istruzioni per il riciclo, indicando precisamente dove e come liberarsi in maniera sostenibile dell'oggetto in questione quando non serve più. I marchi che offrono già un programma di riciclo ben organizzato, come ad esempio Vodafone per i cellulari, naturalmente sono da preferire.
Ri-dono. Rimettere in circolazione come dono all'amica new-age la candela aromatica regalataci da una lontana cugina, che mai useremo, era considerato in passato un gesto di cui vergognarsi, indice di animo gretto e insensibile. Oggi, con le dovute cautele, può invece diventare prova di autentica sensibilità ambientale. A fine stagione, c'è perfino chi mette apertamente all'asta i regali superflui, fra amici o su eBay.
Packaging sostenibile. Riutilizzare carta già usata consente di salvare 17 alberi per ogni tonnellata, 26 metri cubi di acqua, 4.000 kilowattora di elettricità e 2 barili di petrolio, equivalenti a 630 chili di CO2. Il regalo verde, quindi, non va mai impacchettato con carta nuova di zecca. Può essere avvolto in carta di giornale, carte geografiche da gettare, il cartoccio del panettiere o altre carte, meglio se assemblate in maniera creativa. Può essere infilato in una borsa di carta riutilizzabile o in una borsa di stoffa, oppure impacchettato in un altro regalo, come una sciarpa, un foulard o uno strofinaccio da cucina. Un bel fiocco e via.
Batterie. Il 40% di tutte le batterie si vende in dicembre: meglio comprarle riciclabili e magari includere un bel caricatore!Alberi di Natale. Ogni anno si vendono 30-35 milioni di alberi di Natale in Nord America e altrettanti in Europa. Prima di acquistarne uno bisognerebbe decidere cosa farne dopo le feste: se lo si compra in vaso poi si potrà ripiantare in un bosco o in un parco, sennò si pone il problema di trasformarlo in composto organico o in pacciamatura, altrimenti finirà in discarica a produrre CO2. Conviene informarsi in un vivaio o in Comune.
18 dicembre 2009
Dave Keeling: la fatica di setacciare l'aria
Il vulcano di Mauna Loa emerge di colpo dall'oceano e sale su drammatico, un cono alto più di 4000 metri. In cima l'aria è straordinariamente pura: siamo in mezzo al Pacifico, niente traffico o ciminiere all'orizzonte. Ogni tanto il vulcano si risveglia, ma di rado, l'ultima eruzione risale al 1984. E' da qui sopra, da un piccolo laboratorio costruito negli anni Cinquanta, il Mauna Loa Observatory, che Charles "Dave" Keeling ha misurato giorno dopo giorno, per quasi cinquant'anni, la concentrazione di CO2 nell'atmosfera terrestre, tracciando così la famosa Keeling Curve, oggi considerata la teoria della relatività del riscaldamento globale. La prima misurazione risale al marzo 1958: quell'ampolla d'aria conteneva 316 parti per milione di CO2. Al tempo nessuno, nemmeno Keeling stesso, aveva la più pallida idea di quanto ci sarebbe tornato utile questo monitoraggio. Nel 2005, anno della sua morte, la concentrazione era salita a 378 parti per milione. A fine 2009, siamo arrivati a 386 parti per milione. Oggi i climatologi ritengono che 500 parti per milione sia il limite massimo che non possiamo permetterci di oltrepassare, se vogliamo evitare eventi catastrofici.
L'osservatorio di Mauna Loa, con il suo combattivo staff di dieci scienziati, ha continuato a funzionare regolarmente anche dopo la scomparsa del suo paladino. Steve Ryan continua a misurare quotidianamente la concentrazione di anidride carbonica e di metano nell'atmosfera (i due principali gas serra), il monossido di carbonio, l'anidride solforosa (causa principale delle piogge acide) e controlla settimanalmente la concentrazione dell'ozono con dei palloni sonda. Ma nella curva di Keeling c'è un buco di qualche mese, nel '64, a testimonianza di quanto sia stato difficile mantenere in vita per mezzo secolo questa struttura modesta, eppure rivelatasi così importante per il futuro dell'umanità. Prima della nascita dell'osservatorio di Mauna Loa, si sapeva poco o niente della CO2 presente in atmosfera. Keeling cominciò a studiarla nel '56, quand'era ancora un postdoc al CalTech, per puro interesse nella geofisica. Riuscì ad avere un primo finanziamento dalla Los Angeles Weather Pollution Foundation e poi dall'US Weather Bureau, spiegando genericamente che voleva individuare "i fattori che controllano la presenza di CO2 nell'atmosfera".
Dave Keeling cominciò a prendere campioni in giro per la California, mentre un gruppo di scandinavi stava facendo lo stesso in Svezia. Raffinando laboriosamente le sue tecniche di campionatura con strumenti sempre più sofisticati e ingegnosi, si rese conto che più le località erano isolate e più i valori misurati erano stabili e affidabili. Il suo mentore al CalTech, il geochimico Harrison Brown, era uno dei pochi scienziati ad aver studiato le possibili influenze sul clima derivanti dall'aumento di CO2 in atmosfera. Ma non aveva alcuna speranza di finanziamento per un programma di lungo periodo. Il monitoraggio "in situ" è la Cenerentola della scienza, poco amata e miseramente finanziata. Ancora oggi è così: per il gigantesco programma europeo Global Monitoring for Environment and Security, ad esempio, destinato programmaticamente a incrociare i dati registrati dai satelliti con quelli raccolti a terra, sono stati stanziati ben 3 miliardi di euro fino al 2013. Ma i finanziamenti sono destinati solo ai progetti satellitari, neanche un centesimo andrà nelle misurazioni a terra. Le agenzie che gestiscono i fondi sono sedotte dalla ricerca di base solo se consente una verifica di ipotesi già delineate, rapidamente "spendibili", o comporta lo sviluppo di tecniche spettacolari. Nessuna di queste motivazioni anima il banale monitoraggio a terra e la soddisfazione di requisiti analitici severi non è vista come un valore in cui valga la pena d'investire. Gli svedesi, non a caso, lasciarono perdere quasi subito. Keeling, invece, ebbe un colpo di fortuna.
Nel '56 si stava preparando l'Anno Internazionale della Geofisica e due scienziati già famosi, Roger Revelle e Hans Suess, portarono l'argomento all'attenzione del comitato incaricato dal governo americano di organizzare l'evento. L'importanza di capire i "possibili effetti sul clima dell'aumento nella produzione industriale di CO2 previsto nei prossimi 50 anni" fu accettata dal comitato e Revelle invitò il giovane ricercatore a proseguire le sue misurazioni all'istituto di oceanografia che dirigeva, lo Scripps, a La Jolla, vicino a San Diego. Keeling rimase poi affiliato allo Scripps per tutta la vita. Ma non si fermò lì. Riuscì a farsi comprare dal comitato una serie di spettrofotometri, macchinari costosi e considerati del tutto eccessivi per la sua missione, ma rivelatisi poi essenziali per un monitoraggio accurato, e li piazzò in Antartide e a Mauna Loa, dove si stava costruendo l'osservatorio. Nel '58 cominciarono a fluire i primi dati. Man mano che le curve dei dati si allungavano, emergevano modelli. I cambiamenti stagionali e le differenze tra emisferi tracciavano il respiro della biosfera, dominato dall'inspirazione primaverile di CO2 e dall'espirazione autunnale dell'emisfero Nord, il più ricco di vegetazione. Keeling misurò l'abbondanza isotopica del carbonio 13 nella CO2 per dimostrare che le variazioni stagionali erano causate dalle piante presenti sulla superficie terrestre. Il primo rapporto di Keeling è una pietra miliare, che documenta il ciclo stagionale e l'aumento costante della CO2 su base annuale. Entro gli anni '70, divenne chiaro il nesso fra fenomeni catastrofici ricorrenti come El Niño e l'alterazione del ciclo stagionale della CO2. E l'aumento della CO2 venne attribuito al consumo crescente di combustibili fossili, dimostrando che una frazione consistente di CO2 aggiunta dalle attività umane rimane nell'atmosfera e non viene rimossa dalla biosfera.
Malgrado la portata dei risultati, il lavoro di Keeling fu continuamente minacciato, come dimostra il salto registrato nel 1964, quando il blocco dei finanziamenti fermò per breve tempo le misurazioni. A un certo punto, gli fu richiesto di garantire due scoperte l'anno, come scrsse nel '98 nel resoconto delle sue tribolazioni, "Rewards and Penalties of Monitoring the Earth". Ma la sua testarda costanza è riuscita a prevalere anche oltre la morte: Ralph Keeling, scienziato come il padre, dirige oggi il programma di monitoraggio della CO2 di Scripps.
15 dicembre 2009
Copenhagen, una città che va a vento
Uscendo in barca dal canale del vecchio porto di Copenhagen, il panorama che si offre al visitatore non poterbbe essere più rappresentativo della rivoluzione industriale messa a segno da questa città negli ultimi vent'anni. Sulla sinistra un'infilata di pale eoliche macinano allegramente kilowattora nel vento forte e nelle acque basse del Baltico. Da qui arriva l'energia che fa girare Copenhagen: nei giorni di festa, quando i negozi sono chiusi, il suo milione e mezzo di abitanti va a vento. Sulla destra, l'impianto di smaltimento e termovalorizzazione dei rifiuti che fornisce energia e calore a 150mila famiglie, bruciando le immondizie di mezzo milione di cittadini. Questo è il cuore del sistema di smaltimento della città, dove arriva ogni giorno da otto stazioni di riciclaggio quel 26% di rifiuti che non può essere riutilizzato, per alimentare la centrale di Amagerforbraending.
L'impianto, praticamente nel centro di Copenhagen, sulla riva dello stretto di Oeresund, di fronte al teatro dell'Opera, smaltisce 500mila tonnellate di materiale all'anno, il 10% di tutti i rifiuti della Danimarca e riscalda così buona parte della città. "Mostrare ai cittadini, senza ipocrisie, dove vanno a finire le loro immondizie è un monito sempre utile, per aiutarli a sprecare di meno e a procedere in maniera responsabile con i materiali che gettano via", spiega la direttrice Ulla Roettger, che ospita spesso scolaresce e comitive in visita. L'impianto, del resto, non inquina più di una qualsiasi centrale termoelettrica a combustione, come sanno bene gli abitanti di molte altre città vicine e lontane, da Vienna a Tokio, che ne ospitano uno tra le vie del centro.
Copenhagen, Porto dei Mercanti nell'antico dialetto basso tedesco che poi si è trasformato in danese, è oggi la città più verde d'Europa, secondo l'European Green City Index stilato da Siemens sulla base delle performance e delle politiche ambientali delle trenta più importanti città europee. Questo riconoscimento non stupisce per nulla i suoi abitanti, che ci lavorano da vent'anni. Quando la Danimarca ha deciso di emanciparsi dall'oro nero degli sceicchi, dopo la batosta della crisi petrolifera dei primi anni Ottanta, tra le scelte più importanti c'è stata quella di sfruttare una risorsa che in mezzo al mare non potrebbe essere più abbondante: il vento. Da allora a oggi, il piccolo Paese baltico è diventato leader mondiale dell'eolico: "La metà delle pale piantate per terra e per mare in giro per il mondo è fatto da noi", spiega con fierezza Connie Hedegaard, ministra danese e neo-commissaria europea al Clima. La compagnia danese Vestas, infatti, è leader mondiale nella produzione di turbine eoliche e uno dei pilastri della green economy danese.
La capitale ha condiviso con entusiasmo questa scelta, diventando la vetrina di un Paese che sta uscendo dall'economia del carbonio. "Il nostro obiettivo è diventare la prima città carbon neutral del mondo, entro il 2025", precisa Klaus Bondam, assessore all'Ambiente di Copenhagen. Sia Bondam, un ex attore di 46 anni, che Hedegaard, 49 anni, ex giornalista, non sono due politici verdi: lei fa parte del partito conservatore oggi al governo, lui è un liberale che fa politica con i radicali a livello cittadino. Bondam non limita le parole quando parla della sua città: "Qui a Copenhagen siamo alla ricerca di soluzioni per salvare il mondo. Vogliamo diventare un modello per motivare le altre città a muoversi nella stessa direzione". Bondam, opportunamente, non parla di una città carbon free, ma carbon neutral. Non è un venditore di patacche. Sa benissimo che una città di queste dimensioni avrà sempre bisogno, seppure in piccola parte, di bruciare qualche combustibile con relative emissioni di carbonio, se vuole mantenere il suo stile di vita attuale. Ma vuole fare di tutto per comprimere al massimo queste emissioni inevitabili. E poi vuole compensarle piantando alberi.Il piano è chiaro e segue un percorso già segnato dai suoi predecessori: "Vent'anni fa Copenhagen era una città molto povera, piena di vecchi e di studenti. La gente se ne andava. Ma la mia generazione ha deciso di restare dopo aver finito gli studi". Sono i mitici anni di Christiania, la città libera inventata dagli squatters fra i magazzini anseatici del vecchio porto e le costruzioni militari abbandonate a ridosso degli antichi bastioni difensivi. "Pensavamo che Copenhagen avesse delle caratteristiche uniche e volevamo inventarci una città nuova a partire da queste", racconta Bondam. Al centro di questo percorso, ci sono i cittadini e la loro qualità della vita. Da allora ad oggi il vecchio porto, ormai obsoleto, è stato spostato da un'altra parte e l'area riqualificata: il tratto di mare fra le due isole maggiori di Copenhagen è di nuovo balneabile e la costa è diventata un polo d'attrazione outdoors, con giardini e due spiagge libere. Una terza spiaggia è in via di apertura. "Oggi il nostro primo obiettivo è dare al 90 per cento dei cittadini una zona verde o una spiaggia nel raggio di 15 minuti a piedi", ragiona Bondam, che cita come suo ispiratore principale l'urbanista Jan Gehl, teorico degli spazi pubblici, che ha contribuito a liberare dalle macchine e pedonalizzare parte del centro di Londra, New York e Sydney. La nuova infrastruttura verde comprende 14 piccoli parchi e la piantumazione di 14mila alberi, che faranno parte di una rete verde in divenire. Per diluire la presenza delle auto, sarà ampliata a 110 chilometri la rete di piste ciclabili, già estesa e trafficatissima, molto usata dagli stessi ministri del governo danese. Il terzo elemento è l'alimentazione: metà del cibo consumato nelle strutture pubbliche cittadine è biologico e si vuole arrivare al 90%. "Non vogliamo solo rendere Copenhagen carbon neutral al 2025 - fa notare Bondam - ma anche il miglior ambiente urbano del mondo entro il 2015". E sono già a buon punto.
9 dicembre 2009
L'ecologia vale 23 miliardi sul listino inglese
Gli esiti del vertice di Copenhagen sul futuro verde del mondo non preoccupano i guru del mercato. Gli indici della Borsa di Londra legati al green business - dal Ftse4Good Index al Ftse Environmental Opportunities Index - hanno una capitalizzazione complessiva di 23 miliardi di euro e sono ormai da anni il segmento del mercato che cresce più in fretta. “Ma non siamo che all'inizio”, precisa Will Oulton, responsabile del Ftse Group per gli investimenti sostenibili. La carica della finanza verde è appena partita, concorda Peter Dickson, responsabile del Fortis Clean Energy Fund. “E non è una bolla - aggiunge - anzi, l'impatto della rivoluzione sostenibile si allarga e influenza già diverse categorie di asset correlate, dalle materie prime all'immobiliare”. Sono queste le idee raccolte a una conferenza organizzata dalle banche più coinvolte nel green business a margine del vertice di Copenhagen. "Le società che salteranno per prime sul treno andranno lontano, le altre resteranno a piedi", prevede Eric Borremans, capo degli investimenti sostenibili di Bnp Paribas. I dubbi della politica non sono entrati in sala, perché tutti sanno che il business corre più veloce. “L'evoluzione darwiniana – rileva Oulton – si applica anche alle aziende, oltre che alle specie animali: non sono le più forti a sopravvivere, né le più intelligenti, ma quelle che si adattano meglio ai cambiamenti”. Basta osservare i numeri per capire quali saranno i settori che nei prossimi anni avranno i tassi di crescita più marcati. In ordine di rilevanza, secondo uno studio di New Energy Finance: le fonti di energia alternative ai combustibili fossili, l'efficienza energetica, i servizi di supporto ambientale, le tecnologie e infrastrutture idriche, le tecnologie di gestione dei rifiuti, le tecniche di controllo dell'inquinamento. New Energy Finance stima che gli investimenti globali nelle energie pulite dovranno spingersi fino a 500 miliardi di dollari l'anno, quasi il triplo del livello raggiunto nel 2008 (comunque già triplicato rispetto alla quota del 2005), se vogliamo ottenere una stabilizzazione delle emissioni di CO2, principale responsabile dell'effetto serra, e un declino dopo il 2020. Tutti i Paesi industrializzati, chi prima e chi poi, vanno in questa direzione. Lo schema europeo 20-20-20, già vincolante a prescindere dagli esiti di Copenhagen, mira a coprire entro il 2020 il 20% del fabbisogno di energia primaria con le fonti pulite, che oggi non arrivano neanche al 10%. Lo spazio di crescita, dunque, è enorme. Per centrare l'obiettivo, ogni Paese dovrà aumentare l'utilizzo di fonti rinnovabili nell'elettricità, nel riscaldamento e nei trasporti. Solo sul fronte dalla produzione elettrica pulita, gli investimenti europei dovrebbero passare da 3 a 8 miliardi l'anno. Va da sé che le fonti più interessate a questa crescita saranno l'eolico, il solare e le biomasse: nei prossimi dieci anni ci vorranno 6 miliardi d'investimenti per potenziare l'eolico, 16 miliardi per il solare e altri 16 per le biomasse. Ma l'Europa non è sola. Il Congresso americano si appresta a varare una legislazione analoga e il Giappone ha già messo in cantiere tagli del 30%. La Cina, primo inquinatore mondiale, sta facendo rapidi passi avanti sulla via delle fonti pulite e ormai è leader nella produzione di pannelli solari. Perfino la Corea del Sud, unico fra i Paesi in via di sviluppo, ha deciso un taglio delle emissioni del 4% entro il 2020. Su questa base funzionano diversi mercati di scambio dei crediti di carbonio, a partire da quello europeo. “Chi teme di trovarsi di fronte a una bolla può stare tranquillo”, spiega Peter Dickson di Fortis. “Il quadro legislativo internazionale è già a un livello avanzato di sviluppo, con meccanismi di remunerazione stabili e mercati trasparenti di scambio dei crediti di carbonio. Le tecnologie sono provate e sempre più efficienti. La crescita sui mercati globali è costante”. Il settore presenta caratteristiche anticicliche, come s'è visto nella continua crescita anche in questo periodo di vacche magre. E risponde a spinte di lungo periodo, che prescindono dagli esiti del vertice di Copenhagen: l'aumento della domanda energetica causato dalla crescita della popolazione mondiale, la necessità di emanciparsi da fornitori inaffidabili e dai prezzi volatili dell'energia, l'esigenza di migliorare la qualità dell'aria. “Attenzione, quindi, a non sottovalutarlo”, ammonisce Dickson. Chi continua a finanziare l'economia del carbonio, rischia prima o poi di rimanere con il cerino in mano.
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