28 maggio 2010
Grandi Stazioni in viaggio verso i soci privati
tesori del Demanio militare o degli enti locali, ma anche delle Ferrovie dello
Stato, appesantite da 9,5 miliardi di debiti. L'obiettivo è soprattutto fare
cassa valorizzando asset inutilizzati, ma potrebbe anche essere di dare in
mano a chi li sa gestire servizi diversi dal core business ferroviario. Come
le Grandi Stazioni, che sono ormai sempre meno piattaforme di traffico e
sempre più centri commerciali, con tutte le dinamiche a loro proprie.
Innocenzo Cipolletta, presidente delle Ferrovie, conviene che "quello che non
rende si vende". Ma per Grandi Stazioni, aggiunge, non è ancora arrivato il
momento giusto. "Non dimentichiamo che una grande stazione non è soltanto un
mall ma anche uno snodo ferroviario", puntualizza. Dopo il lungo braccio di
ferro che ha opposto l'ad del gruppo Mauro Moretti ai soci privati Benetton,
Caltagirone e Pirelli, per gli enormi ritardi accumulati sulla tabella di
marcia delle ristrutturazioni - concluso nel 2008 con la nomina del nuovo
amministratore delegato Fabio Battaggia, in quota Benetton - ora i conti vanno
meglio. Nel 2009, malgrado la crisi, sono saliti sia i ricavi operativi (207
milioni rispetto ai 180 del 2008), sia il margine operativo lordo (a 64
milioni dai 37 del 2008), sia l'utile netto consolidato a 40 milioni, in
crescita di 22. "E quindi un'ulteriore privatizzazione per ora non è
all'ordine del giorno - commenta Cipolletta - anche se nulla si può escludere
in prospettiva".
Altro discorso per Sistemi Urbani, la società del gruppo che ha il compito di
valorizzare il patrimonio del Gruppo FS non funzionale all’esercizio
ferroviario: terreni, stazioni dismesse, ex terminal cargo in abbandono. "Solo
a Milano ci sono quattro aree molto vaste che non servono più e potrebbero
essere valorizzate: lo scalo Farini, Greco, Lambrate e il lotto Porta
Romana-Porta Genova, che in tutto fanno 2 milioni e mezzo di metri quadri, con
valori immobiliari enormi", spiega Oliviero Baccelli del Certet Bocconi. A
Bologna, su un terreno delle Ferrovie è sorta la nuova sede del Comune, con
uffici per 1500 dipendenti, ma resta ancora quasi un milione di metri quadri
da valorizzare. Iniziative simili sono previste in ogni angolo d'Italia. I
rapporti difficili con i Comuni e in qualche caso la mancanza di esperienza in
materia, però, hanno fatto rallentare le dismissioni. E ora il momento non è
dei più propizi. "Da questo veicolo le Ferrovie si aspettavano entrate
ingenti, che invece non sono ancora arrivate", precisa Baccelli. Un altro
asset da valorizzare potrebbe essere Centostazioni, dove i soci privati sono
la Save-Aeroporto di Venezia - controllata dal tandem Enrico Marchi e Andrea
de Vido - e la cooperativa Manutencoop.
Ma con la crisi che continua e la concorrenza del Nuovo Trasporto Viaggiatori
che incombe, la società più facile da privatizzare rapidamente è senz'altro
Grandi Stazioni, che ha già fra i soci Francesco Gaetano Caltagirone, il
costruttore più liquido d'Italia. "Le ristrutturazioni sono molto in ritardo
e avranno bisogno ancora di pesanti investimenti: delle 13 stazioni in
programma, senza considerare quelle dell'Alta Velocità, l'unica veramente
completata è Roma Termini. A Milano e Torino c'è ancora parecchio da fare, a
Bologna e Napoli è stato fatto poco, a Venezia e Firenze quasi niente, mentre
i due scali di Genova sono appena da cominciare, solo per citare le
principali", fa notare Baccelli.
D'altra parte, la crisi colpisce i viaggiatori e la previsione di un raddoppio
dei passeggeri per l'Alta Velocità e gli Eurostar da qui al 2015, con i
prezzi che corrono, potrebbe essere azzardata. Anche perché nel frattempo
scenderanno in campo i bolidi di Montezemolo e Della Valle, proprio sulla
tratta più remunerativa. I tedeschi della Deutsche Bahn sono già sbarcati
sulla tratta Bologna-Brennero. E sul fronte del trasporto pendolari si sta
facendo avanti Giuseppe Arena, con un servizio espresso molto atteso fra
Torino e Milano. L'Authority di Antonio Catricalà chiede più concorrenza
sulle ferrovie. Ma già così i binari per Mauro Moretti si stanno facendo
bollenti.
26 maggio 2010
Da Goteborg a Los Angeles, le banchine diventano elettrificate
24 maggio 2010
Venter a caccia del batterio fotosintetico giusto
Lo stesso Venter, del resto, aveva già chiarito a suo tempo dove vuole andare a parare: "Nel giro dei prossimi vent'anni - dichiarò nel 2007 - la biologia sintetica diventerà il processo standard usato per produrre qualsiasi cosa. Dominerà completamente l'industria chimica. Dominerà, spero, in larga misura
anche il settore energetico. E' davvero urgente trovare un'alternativa all'idea di estrarre combustibili fossili, bruciarli e rimettere tutta quell'anidride carbonica nell'atmosfera. Questo è il contributo più grande che vorrei dare all'umanità". Non a caso la sua Synthetic Genomics ha ricevuto l'anno scorso un finanziamento di 600 milioni di dollari dal colosso petrolifero ExxonMobil per trovare la pietra filosofale dell'energia: un batterio capace di trasformare quello che mangia – dagli scarti agricoli ai residui industriali – in combustibile, come una minuscola bioraffineria. Ma in prospettiva, Venter vorrebbe andare ancora più in là, eliminando la materia prima di partenza: perché sobbarcarsi la fatica di mettere in piedi un processo pianta-microrganismo-carburante, quando si potrebbero creare batteri fotosintetici in grado di elaborare nei loro processi metabolici direttamente il carbonio che c'è nell'aria, utilizzando l'energia che ricevono dal sole? In questo modo, Synthetic Genomics riuscirebbe addirittura a prendere due piccioni con una fava: produrre biocarburante assorbendo anidride carbonica dall'atmosfera e quindi contrastando l'effetto serra.
11 maggio 2010
Caro Partito Democratico, sostieni il nucleare
6 maggio 2010
Due robot per fermare la marea nera
4 maggio 2010
Cloud computing, nuvola verde o nuvola grigia?
3 maggio 2010
Il solare italiano verso la grid parity
2 maggio 2010
Il 2010 anno record per il fotovoltaico mondiale
1 maggio 2010
Piccolo è bello: scende in campo il nucleare tascabile
Piccolo è bello. Il nucleare 2.0 esce dai laboratori di ricerca e fa il primo botto in Borsa, con l'annuncio dell'alleanza fra Bill Gates e Toshiba per costruire il primo “reattore portatile”, partendo dalla tecnologia sviluppata da Nathan Myhrvold, l'ex capo tecnologico di Microsoft. Sull'onda della notizia, pubblicata dal quotidiano giapponese Nikkei, il titolo Toshiba ha chiuso con un balzo del 3,6% alla Borsa di Tokio, in controtendenza sul resto del listino. La partnership fra il miliardario filantropo e l'azienda giapponese, infatti, potrebbe essere decisiva per quel segmento dell'industria nucleare che sta tentando di miniaturizzare i reattori, tagliando i costi e rendendo sempre più trascurabile il problema delle scorie radioattive.
TerraPower, lo spin out atomico della galassia di Myhrvold, che fa capo a Bill Gates, ha in mente di utilizzare come combustibile nel suo Traveling Wave Reactor (Twr) proprio le pastiglie di uranio esaurito, senza necessità di ricaricarlo per decenni. In questo modo si estenderebbero di centinaia di anni le riserve di uranio a disposizione dell'umanità. Toshiba, da parte sua, è la più avanzata delle grandi società nucleari nella realizzazione di reattori compatti: il suo prototipo 4S (Super-Safe, Small, Simple), che può operare senza interruzione per 30 anni, punta a ottenere in autunno il via libera da parte delle autorità Usa per poter iniziare la costruzione del primo reattore nel 2014. I giapponesi contano di poter sfruttare circa l'80% delle tecnologie usate dal 4S anche per il Twr, mentre resta da risolvere il nodo del combustibile. Ma Toshiba e TerraPower non sono le uniche aziende a muoversi su questo terreno. Il piccolo reattore mPower della Babcock & Wilcox sarà probabilmente il primo a vedere la luce negli Stati Uniti, dove tre grandi utilities - Tennessee Valley Authority, First Energy e Oglethorpe Power - hanno firmato il mese scorso un accordo per la sua realizzazione e hanno già avviato le procedure per ottenere la certificazione dalla National Regulatory Commission. Il reattore ha una capacità di 125-140 megawatt, circa un decimo di quelli grandi. Ma il costo è in proporzione: 750 milioni di dollari (550 milioni di euro), contro i 5-10 miliardi di dollari di un reattore dai 1100 megawatt in su. Il piccolo mPower ha anche il vantaggio di dimezzare i tempi di costruzione e non ha bisogno della presenza di grandi masse d'acqua, per cui può essere installato anche nell'arido West. E' pensato per essere interrato e ricaricato ogni cinque anni: diminuisce ulteriormente il rischio di incidenti. E può essere utilizzato in forma modulare: una centrale prevista inizialmente per pochi reattori può aumentarne gradualmente il numero a seconda delle necessità. Infine può stoccare per l'intero arco del suo funzionamento, 60 anni, le scorie che produce. NuScale ha progettato un prototipo con una potenza ancora più ridotta, sui 45 megawatt, e sta per chiedere la certificazione. Hyperion, una start up che sfrutta un brevetto dei laboratori nucleari di Los Alamos, punta addirittura su un “reattore portatile” da 25 megawatt, da spostare con un pickup, che può dare energia a 20mila famiglie. E ha già firmato un accordo per esportarlo in Russia. E' chiaro che i mini-reattori approfitteranno dei 54 miliardi di dollari stanziati dal presidente Barack Obama per rimettere in moto l'industria nucleare americana. E presto ce li ritroveremo anche da questa parte dell'Atlantico.