4 maggio 2010
Cloud computing, nuvola verde o nuvola grigia?
Sarà una nuvola verde o una nuvola grigia?
Uno dei principali paradossi del cloud computing è proprio la naturalezza con cui i suoi fautori lo hanno già dipinto di verde a prescindere da qualsiasi misurazione. Istintivamente, viene da dargli ragione. In fondo, l'outsourcing dei database dovrebbe portare maggiore efficienza nel sistema e quindi un risparmio di energia: invece che avere un milione di piccoli server mezzi vuoti sparsi qua e là, ne avremo uno grosso tutto pieno, molto più efficiente e risparmioso. E' lo stesso concetto dell'auto elettrica: con la sua diffusione non sostituiremo necessariamente una fonte di energia con un'altra più pulita, ma concentreremo lo sfruttamento dei combustibili fossili da un milione di motori a combustione interna a una singola centrale, più efficiente e quindi meno inquinante, da cui ogni veicolo caricherà poi la sua batteria per circolare. La produzione concentrata, come la memoria concentrata, è sempre più conveniente. Ma...
Il cloud computing non è soltanto un'azione di sostituzione (invece di comprare uno storage interno affitto uno spazio virtuale), ma anche di enorme ampliamento delle potenzialità di memoria. Ora abbiamo la possibilità di far girare le nostre applicazioni su migliaia di server, cosa che prima non era nemmeno pensabile. E quando nasce una possibilità nuova, la nostra tendenza naturale è sfruttarla. Per riprendere la metafora di prima, come noto, più autostrade si costruiscono e più macchine si metteranno in marcia. In altre parole, immagazzinare i dati tutti assieme in un grosso server ci consentirà sì di consumare l'80% di energia in meno per ciascuna unità di memoria, ma se avremo mille volte più capacità di prima, tenderemo a sfruttarla e quindi alla fine il bilancio energetico andrà decisamente in rosso.
Anzi, è quello che sta già accadendo: il rapido aumento di servizi online, che coinvolgono lo stile di vita di tutti noi oltre alle aziende piccole e grandi, sta portando il settore a livelli di consumo energetico analoghi a quelli delle industrie più energivore. Tra il 2000 e il 2006 il fabbisogno energetico della rete è raddoppiato e le emissioni dell'information technology hanno una loro “legge di Moore”, tanto che ormai sono quasi equivalenti a quelle del trasporto aereo. Flickr e Picasa, GMail e Facebook, passando per le applicazioni mobili e tutto il software as a service, stanno innalzando l'impatto ambientale del settore più di quanto stimato in precedenza. Greenpeace, nel nuovo rapporto Make IT Green, stima che i data center e le reti di telecomunicazione, all'attuale tasso di crescita, consumeranno quasi duemila miliardi di kilowattora di elettricità nel 2020. È oltre il triplo del loro consumo attuale e più del consumo elettrico di Francia, Germania, Canada e Brasile messi insieme.
Greenpeace mette in luce una dimensione spesso nascosta agli occhi degli utenti, i quali vedono soltanto il risultato finale dell'elaborazione, senza avere esatta conoscenza delle dinamiche che reggono l'alimentazione delle immense web farm dedicate alla gestione dei dati. E così scopriamo che i tanto decantati vantaggi ambientali del cloud computing sono più che altro un'operazione di marketing. La problematica non è sfuggita agli IT manager, che nell'ultimo Green Survey di Rackspace si sono divisi sulla questione: solo il 21% resta ancora convinto che il cloud computing sia una scelta decisamente verde, mentre il 19% si è reso conto che le potenzialità verdi del cloud computing non si sono ancora realizzate, il 25% si dice infastidito da tutta l'enfasi verde che lo circonda e il 35% ha dichiarato di non essere per niente convinto dei suoi vantaggi ambientali.
Ma non tutto è perduto, per la nuvola verde. La concentrazione dei database in effetti potrebbe portare dei vantaggi ambientali, se i giganti del settore, da Google a Amazon, optassero per un'alimentazione sostenibile dei loro server, utilizzando solo energia da fonti rinnovabili o altri sistemi per abbattere in maniera consistente i consumi di energia da fonte fossile.
Un fulgido esempio di comportamento virtuoso in questo senso ci arriva da Helsinki. Nella capitale finlandese, dove la penetrazione della banda larga è fra le più alte del mondo e quindi la memoria virtuale ha il suo peso, è stata avviata all'inizio di quest'anno una web farm davvero straordinaria, collocata in un ex rifugio antiaereo scavato nella roccia sotto la cattedrale Uspenski per mettere al sicuro i membri del governo durante la seconda guerra mondiale, in caso di attacco russo. Centinaia di server hanno trovato sede al fresco, nelle sale di roccia viva. E già così hanno ovviato a una parte del problema. In una tipica web farm, infatti, solo il 40-45% dell'energia consumata viene utilizzata per l'attività di elaborazione dati vera e propria. Il resto si consuma per raffreddare i server, che lavorando emettono molto calore. Nel caso del data center sotto la cattedrale Uspenski, questo calore verrà sfruttato per contribuire al teleriscaldamento cittadino, trasformandolo nella web farm più verde del mondo. Il progetto, realizzato dalla multiutility locale Helsingin Energia, è molto semplice: basta connettere la web farm con il sistema di tubazioni che trasportano l'acqua scaldata centralmente a tutte le case della capitale. Quello prodotto dai server ospitati sotto la capitale basterà per scaldare e dare acqua calda a 500 famiglie: non è moltissimo, ma è certamente meglio uno scambio vantaggioso per tutti piuttosto che consumare altra energia per raffreddare i server.
Sono azioni di questo tipo, innescate da una visione sostenibile molto più ampia della nostra, che aiuteranno il cloud computing a riguadagnare le sue credenziali verdi, sempre più appannate.
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