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29 marzo 2011

Elettricità dai rifiuti industriali: una macchina contro le eco-mafie

I rifiuti industriali, più o meno tossici, sono l'incubo principale dell'industria manifatturiera. Cari da smaltire, complicati sul piano burocratico, ingombranti dal punto di vista ambientale. L'incubo numero due è la bolletta elettrica, sempre più alta e dipendente dalla volatilità dei mercati delle materie prime. Nse Start offre una soluzione innovativa per tutti e due i problemi. Con questa tecnologia di pirogassificazione, per ora unica al mondo, una media impresa può smaltire in loco ogni tipo di rifiuto industriale, anche pericoloso, producendo al tempo stesso energia elettrica o termica. Il primo impianto è in costruzione a Castelfranco di Sotto, in provincia di Pisa, per la West Recycling, una piattaforma per la selezione e il trattamento dei rifiuti industriali, che così chiuderà il ciclo con lo smaltimento sul posto.

Nse, che sta per New Sustainable Energy, è stata fondata da un gruppo di imprenditori toscani, guidato da Nicla Pucci, dopo tre anni di studio per l'industrializzazione del prodotto. Il primo finanziamento viene dal fondo di venture capital 360° Capital Partners (1,5 milioni di euro), insieme a Toscana Innovazione e altri investitori (1 milione): il progetto industriale, sviluppato a partire da un'idea dell'inventore Enzo Morandi, consiste nella realizzazione di piccoli impianti flessibili, trasportabili e modulari, da installare direttamente nei siti industriali dove gli scarti vengono generati, evitando così la necessità di trasferirli verso centri di stoccaggio, discariche o inceneritori di terzi e concretizzando l'obiettivo dei "rifiuti a chilometro 0", un risultato molto interessante soprattutto per un Paese dove la tracciabilità dei rifiuti non è certo al top e dove lo smaltimento degli scarti industriali è spesso infiltrato dalle ecomafie.

Il brevetto, che protegge l'invenzione di Morandi sia a livello europeo che internazionale, si basa su un sistema innovativo per sfruttare la pirolisi, quel processo di decomposizione dei materiali organici che avviene a temperature elevate ma senza fiamma, in completa assenza di ossigeno. Solitamente però la pirolisi dei rifiuti utilizza temperature comprese tra 400 e 800°C, con rilevanti problemi di inquinamento. L'innovazione tecnologica dell'impianto Nse si basa sull'integrazione fra la pirolisi e il processo di gassificazione. Le altissime temperature di esercizio (1600°) consentono di decomporre del tutto le molecole organiche e di vetrificare i residui, eliminando così le problematiche relative all'inquinamento: la macchina non emette composti gassosi tossici come diossine, furani o ceneri e diventa perciò un ottimo modo per trattare pneumatici, Pvc, rifiuti ospedalieri e altri rifiuti industriali.

Tanto per fare un esempio, un impianto Nse ha la potenza di 12 camion pesanti di cilindrata medio-alta, ma emissioni in atmosfera minori di uno solo di questi camion. Il pirogassificatore, che può lavorare in un anno 10-12mila tonnellate di materiale, sviluppa 6,5 milioni di kilowattora elettrici o 3,8 milioni di kilocalorie termiche e appena il 3-5% di ceneri inerti da utilizzare come sottofondo stradale. Consiste in 7 container standard, che si possono collocare all'aperto e non occupano più di 800 metri quadri di spazio. Ha un costo fra i 5 e gli 8 milioni di euro, con un rientro previsto in 4-5 anni, grazie ai risparmi sui costi di smaltimento, che si aggirano su un milione di euro all'anno per quella quantità di materiale, e di mancato acquisto di metano, un altro milione all'anno. "Non vogliamo solo vendere una macchina, ma portare valore aggiunto alle imprese e riqualificare il trattamento dei rifiuti industriali in Italia", spiega Nicla Pucci, ad di Nse. "Ci occupiamo di tutto: la verifica della collocazione, il rilascio delle autorizzazioni e la formazione di base per la gestione della macchina", aggiunge. "I nostri impianti sono piccoli, flessibili, si montano in 2-3 mesi e sono facilmente smontabili: si prestano anche all'utilizzo temporaneo, ad esempio in un grosso cantiere di bonifica, che poi potrebbe smontarli e portarli da un'altra parte, o per risolvere i problemi estivi delle isole, che vengono sommerse di turisti solo per un breve periodo all'anno". In pratica, il cliente prima di tutto. E l'ambiente ne guadagna.


26 marzo 2011

Petrolio: la crisi libica costerà cara all'Italia

Costerà cara, all'Italia, la crisi in atto nel Nord Africa. Ma l'embargo voluto da Berlino è solo la ciliegina su una torta già amarissima. Le esportazioni di idrocarburi dalla Libia, infatti, sono ridotte al lumicino da settimane. Per quanto riguarda il gas, sono a zero dopo la chiusura del metanodotto Greenstream, che forniva all'Italia un quinto del suo fabbisogno. Quelle di greggio sono quasi ferme perché le petroliere non vanno a caricare nei terminali di imbarco, la maggior parte dei quali si trova nella parte orientale.

Vale la pena di ricordare che la Libia, membro dell'Opec, era il quarto produttore di petrolio dell'Africa, dopo Nigeria, Algeria e Angola, con una produzione di quasi 1,8 milioni di barili al giorno e riserve valutate per circa 42 miliardi di barili. Dall'inizio della guerra la sua produzione di greggio è calata ad appena 400mila barili, di cui 280mila destinati al mercato interno. Dalla Libia arrivava poco meno di un quarto del totale del petrolio importato dall'Italia: 376mila barili al giorno su un consumo complessivo di 1,7 milioni, per un valore che, solo nei primi dieci mesi del 2010, è stato pari a 6,4 miliardi di euro. Dopo di noi, ma a grande distanza, ci sono i francesi, i tedeschi e gli spagnoli.

Le raffinerie italiane, fino a ieri, si servivano del pregiato greggio di Bu Attifel e ora devono sostituirlo per ragioni tecniche con qualità simili provenienti dalla Nigeria e dall'Azerbaigian, ma in un frangente del genere il loro prezzo ha iniziato a lievitare. Insomma, il petrolio che arriva in Italia costa di più e alla lunga questi costi si riverseranno sul portafoglio dei consumatori. Il rischio, dunque, è che sul lungo termine a sostenere i maggiori costi dell'embargo voluto dalla coalizione siano solo i consumatori italiani.

Il blocco della produzione nel Paese nordafricano inoltre, ha già comportato un impatto negativo per almeno 500 mila barili al giorno sulla produzione dell'Eni, l'azienda occidentale più esposta con Tripoli. Senza considerare che l'Eni vantava fino a prima dell'escalation militare concessioni con una durata assicurata fino al 2042 per i giacimenti di petrolio e al 2047 per quelli di gas. Non è chiaro se queste condizioni rimarranno valide dopo la fine della guerra. Per ora, nessuno è in grado di prevedere il costo complessivo, quando la situazione sarà tornata alla normalità.


21 marzo 2011

Dopo Fukushima, riscossa del gas naturale liquefatto

Il Giappone piange sulle macerie del terribile disastro, ma Peter Voser, numero uno di Royal Dutch Shell, non ha potuto reprimere un sorriso annunciando l'invio, già in corso, delle prime forniture straordinarie di gas naturale liquefatto verso i terminali di rigassificazione di Tokyo. Il colosso anglo-olandese sarà il primo ad approfittare del rimbalzo del prezzo del gas, che in pochi giorni è schizzato in su del 12%, mentre le quotazioni dell'uranio crollavano del 20%. Ma non sarà certamente l'ultimo. Gazprom e Qatargas si sono messi subito a disposizione e schiere di trader sono già in caccia di navi gasiere in giro per il mondo, il cui carico possa essere dirottato sul Giappone.

Il trend sul mercato delle materie prime rispecchia il panico scatenato dall'incidente nucleare di Fukushima. In particolare, salgono i prezzi sulla piazza del National Balancing Point inglese, uno dei principali punti di negoziazione europei, considerato il mercato di riferimento per il Gnl, un idrocarburo liquido ottenuto raffreddando a -162° il gas naturale appena estratto, per poi poterlo trasportare liberamente via nave. Nel 2010, l'Europa ha ricevuto 76 miliardi i metri cubi di questo gas, di cui 26 a destinazione flessibile. Quest'anno, Deutsche Bank prevede che verranno dirottati dall'Europa al Giappone fra i 5 e i 12 miliardi di metri cubi, mandando in orbita i prezzi europei. Tokyo è il primo importatore mondiale di gas naturale liquefatto - con cui alimenta un terzo del suo imponente sistema elettrico - e ne avrà ancora più bisogno nei prossimi mesi: solo per rimpiazzare la produzione di Fukushima dovrebbe aggiungere quest'anno 12 miliardi di metri cubi di Gnl agli 88 miliardi importati nel 2010, già una cifra da record. Ma la rivoluzione che si sta profilando sul mercato delle materie prime energetiche va al di là del problema giapponese.

La chiusura di 7 centrali in Germania, il ripensamento degli svizzeri sui 2 reattori in progetto, il congelamento delle 23 centrali in costruzione in Cina e degli 11 previsti in Russia non depongono a favore di una grande crescita del nucleare nel prossimo futuro. A tutto vantaggio del gas, oltre che del carbone e delle fonti rinnovabili. "Un evento come questo potrebbe riagganciare al petrolio il prezzo europeo del gas, che si era staccato dalla cavalcata del greggio", ha spiegato Simon Henry, direttore finanziario di Shell, presentando la strategia della major. Nell'ultimo anno, infatti, le quotazioni del gas si erano disaccoppiate dal petrolio grazie a un surplus di offerta, derivato dalle abbondanti estrazioni di gas non convenzionale che hanno inondato di metano a buon prezzo il mercato americano, liberando vasti volumi di Gnl per il resto del mondo. Si era interrotto così un legame storico, con il petrolio in continua turbolenza per le tensioni geopolitiche e il gas al bello stabile. Ma ora il rimbalzo dei prezzi indica una netta inversione di tendenza, alla luce della reazione emotiva che sta bloccando in tutto il mondo i programmi nucleari esistenti.

"Se davvero dovessimo andare verso un mondo senza il nucleare, il gas sarebbe senz'altro la soluzione più efficiente per sostituire quella quota di produzione elettrica", spiega Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia. In base ai suoi calcoli, studiati per CorrierEconomia, bisognerebbe estrarre globalmente 1000 miliardi di metri cubi di gas in più da qui al 2020 per "tappare il buco" lasciato aperto dal tramonto dell'atomo. Una quantità gigantesca, quasi equivalente alla produzione combinata di Stati Uniti e Russia, le due grandi potenze gasiere del mondo. "Più plausibile sarebbe uno scenario in cui la quota del nucleare venisse coperta al 40% dal gas, al 40% dal carbone e al 20% dalle fonti rinnovabili", commenta Tabarelli. Ma anche così, si tratterebbe di estrarre quasi 300 miliardi di metri cubi di gas e oltre 500 milioni di tonnellate di carbone in più. "Sotto il profilo ambientale, sarebbe un disastro", ammette Tabarelli, ricordando le 300mila vittime annuali attribuite all'inquinamento delle 400 centrali a carbone cinesi. Già la chiusura di 7 reattori tedeschi rischia di causare problemi enormi alla Germania, cui mancherà di colpo quasi un decimo della produzione di energia elettrica. Con cosa sostituirla? "Il gas sarebbe la soluzione meno inquinante, ma più cara. Il rischio è invece che si ricorra all'economica ma pestilenziale lignite", precisa.

E le fonti rinnovabili? Anche per loro il disastro giapponese può rappresentare una bella spinta. Nei giorni immediatamente successivi, mentre tutte le Borse cadevano, i titoli delle compagnie legate al solare o all'eolico hanno preso il volo. Fra i produttori di turbine e aerogeneratori, Nordex è salita del 19 per cento, Broadwind Energy del 24. Nel solare, la tedesca SolarWorld ha guadagnato il 23 per cento, l'americana Sunpower l'11, la Suntech il 10, First Solar l'8, invertendo una serie nera dovuta al taglio dei sussidi statali europei e in particolare italiani. Fra le società nostrane, splende Enel Green Power, che ha in programma investimenti per 6,4 miliardi nelle fonti rinnovabili, da qui al 2015. Ma corrono anche Kerself, KR Energy, Kinexia, Falck e Alerion. A livello globale, l'indice dell'energia pulita, l'S&P Global Clean Energy Index, ha registrato un balzo del 6 per cento. Potrebbere essere la riscossa per un settore sempre troppo dipendente dagli incentivi pubblici.


19 marzo 2011

A Tokyo un terzo dei livelli di radioattività medi di Roma

Fra le news dell'ambasciata italiana a Tokyo, ne segnalo una particolarmente interessante:

"Una squadra altamente specializzata della Protezione Civile italiana, composta di sei tecnici ed esperti, e’ operativa da questa mattina presso l’Ambasciata al fine di fornire orientamento e supporto alle attivita’ che la Sede diplomatica sta mettendo in atto a tutela della collettivita’ italiana in Giappone.

Le prime rilevazioni dei livelli di radioattivita’ sono state effettuate a partire dall’aeroporto di Narita, lungo il tragitto verso Tokyo e sul tetto dell’Ambasciata.

I valori della radioattivita' di fondo misurata in tutti i punti di rilevazione sono del tutto compatibili con quelli forniti dalle Autorita’ giapponesi e riportate sui siti istituzionali (tra cui quello del Governo Metropolitano di Tokyo che pubblica ogni ora i dati della radioattivita' massimo/ minimo/ media, sul sito del Tokyo Metropolitan Institute of Public Health http://113.35.73.180/monitoring/index.html).

Inoltre, avendo la possibilita' di effettuare una misura spettroscopica, i tecnici hanno avuto la possibilita' di ESCLUDERE la presenza di radiazione proveniente da isotopi radioattivi (NON ci sono isotopi artificiali, ossia quelli che possono essere stati prodotti in un reattore nucleare).

I valori in questione sono dell’ordine di 0.04 microsievert/ora, circa un terzo del valore di radioattivita' ambientale tipico della citta' di Roma (0.25 microsievert/ora). Tali risultanze portano al momento ad escludere qualunque rischio di contaminazione in corso a Tokyo".

Questa rilevazione risale alla sera del 16 marzo (ore 22.30 locali), il giorno dopo la quarta e ultima esplosione, che ha causato un picco di radioattività attorno alla centrale.

Le rilevazioni sono state ripetute tutti i giorni, fino ad oggi (lì è notte ora) e hanno dato esattamente gli stessi risultati.

 


16 marzo 2011

Tokyo alla paralisi energetica: il contributo dei rigassificatori

Un drastico programma di riduzione dei consumi elettrici è partito immediatamente dopo il terremoto di venerdì in Giappone e durerà settimane, se non mesi, coinvolgendo tutta la popolazione del Nord, fino a Shizuoka, 200 chilometri a Sud di Tokyo. Sul fronte industriale, i blackout programmati coinvolgono soprattutto l'industria automobilistica (Toyota, Nissan e Honda hanno chiuso gli stabilimenti) e informatica (Panasonic, Sony e Toshiba sono ferme), ma anche le altre. Difficile dire quanto durerà il blocco. Con 11 reattori fermi su 54, di cui alcuni talmente danneggiati da dover chiudere per sempre, è chiaro che ci vorrà tempo per tornare alla normalità.

Il Giappone, con 279 gigawatt di potenza installata, è il terzo consumatore di elettricità al mondo, dopo gli Usa e la Cina, ma è un Paese povero di risorse naturali e soddisfa un quarto della sua domanda elettrica attraverso il nucleare. Con 54 reattori, per complessivi 49 gigawatt, è la terza potenza mondiale nel nucleare civile, dopo gli Stati Uniti e la Francia. Sul fronte dei combustibili fossili, è il terzo consumatore di petrolio, dopo gli Stati Uniti e la Cina, e il secondo importatore netto, ma solo il 10% del suo sistema elettrico va a olio combustibile. E' il primo importatore mondiale di gas naturale liquefatto (Lng) e di carbone, con cui manda avanti oltre metà del suo sistema elettrico. Il rimanente 10% è coperto dall'idroelettrico e da altre fonti rinnovabili.

Ma il terremoto e lo tzunami di venerdì scorso non hanno abbattuto solo una parte del sistema nucleare: hanno anche travolto una grande diga - il cui crollo ha spazzato via 1800 case a valle - che supportava una centrale idroelettrica da 300 megawatt. Per fortuna la parte principale delle risorse idroelettriche giapponesi è localizzata al Centro-Sud del Paese, altrimenti il tributo di vite umane sarebbe stato ancora più alto. E' stata chiusa anche la centrale elettrica di Kashima, con oltre 4 gigawatt installati una delle più grandi centrali ad olio combustibile del mondo. E hanno dovuto fermarsi cinque raffinerie, con una capacità complessiva di 1,2 milioni di barili di greggio al giorno. In complesso, si calcola che manchi all'appello circa un quarto del fabbisogno elettrico nazionale.

Sono ancora attivi, invece, i terminali di rigassificazione, per cui il Giappone sta aumentando l'import di gas naturale liquefatto per compensare i blocchi dei reattori nucleari con le centrali a gas. Gazprom ha già promesso una fornitura extra di 200mila tonnellate di gas naturale liquefatto e altre forniture sono in arrivo dai mercati europei. Se il sistema produttivo giapponese riuscirà a rimettersi in moto in tempi brevi sarà solo grazie a questi impianti, che consentono una grande flessibilità di approvvigionamento. In Italia, dove dipendiamo da quattro tubi - tutti di proprietà dell'Eni - per le forniture di gas, questa flessibilità ce la sognamo. 


Giappone: dallo tsunami alla fusione del nocciolo

La crisi nucleare giapponese si aggrava. Dopo le esplosioni verificatesi nei reattori 1 e 3 della centrale di Fukushima Daiichi, con relativa fuoriuscita di radioattività, è ora il surriscaldamento del reattore 2 a tenere il mondo con il fiato sospeso.

In questa unità, l'ultima esplosione non ha fatto saltare il tetto come negli altri casi e quindi potrebbe aver danneggiato le strutture interne di contenimento. L'acqua di mare che viene pompata continuamente per raffreddare il nocciolo, infatti, sparisce a una velocità superiore rispetto ai normali tempi di evaporazione, di conseguenza c'è il sospetto di una perdita dalla camera interna del reattore. L'altra ipotesi è che la temperatura sia talmente alta all'interno da far evaporare l'acqua molto più in fretta del previsto.

L'esplosione è da ricondursi, come negli altri casi, alla tendenza dell'acqua a dividersi in ossigeno e idrogeno, in presenza di metallo. L'idrogeno può esplodere al contatto con l'aria esterna, quando viene sfiatato per diminuire la pressione. Ma da qui a danneggiare la camera interna del reattore, ce ne corre. Il combustibile nucleare è contenuto in un rivestimento, che a sua volta è alloggiato in un cilindro d'acciaio chiamato "vessel". Attorno a questo c'è un'altra struttura blindata di cemento armato di spessore notevole, che resiste anche alle bombe atomiche. Poi c'è una terza barriera, a prova di bomba, che racchiude tutta l'area nucleare nel cemento armato speciale spesso un paio di metri. L'esplosione dell'idrogeno è avvenuta all'esterno di queste tre barriere.

L'azienda elettrica Tepco e l'Agenzia per la sicurezza nucleare nipponica (Nisa) ritengono che le strutture di contenimento del reattore non siano state danneggiate, ma è stato comunque chiesto l'aiuto dell'Agenzia internazionale dell'energia atomica. Secondo la Nisa, le possibilità di un'estesa fuga di vapore radioattivo dalla centrale sono "estremamente basse", mentre l'Aiea ha per il momento classificato l'incidente di Fukushima al livello 4 della scala Ines (nessuna contaminazione radioattiva dell'ambiente circostante ma danni a cose e persone a diretto contatto con la camera di sicurezza del reattore).

In realtà, dopo l'ultima esplosione questa classificazione non è più corretta, perché sono stati registrati livelli pericolosi di radioattività nel giro di 30 chilometri dalla centrale e picchi anomali anche a Tokyo, a 250 chilometri di distanza, seppure non pericolosi per la salute umana.

Nel cuore del reattore, intanto, la temperatura continua a salire. L'azienda elettrica Tepco ha ammesso che il processo di raffreddamento non si è ancora stabilizzato e quindi le barre di combustibile del reattore 2 sono state esposte per tre volte, con inizio di fusione del nocciolo. Probabilmente anche nelle unità 1 e 3 le barre sono state esposte per un certo tempo. Bisognerebbe sapere quanto tempo è durata l'esposizione per capire se siamo arrivati alla fusione del nocciolo. Questo avviene se il sistema di raffreddamento non riesce a star dietro alle perdite d'acqua dovute all'evaporazione (o altro) e la temperatura all'interno del vessel diventa così alta da danneggiare o disallineare le barre di uranio e grafite spesse un centimetro, che bombardate di neutroni producono calore. La fissione allora diventa incontrollata e nel giro di qualche ora porta alla fusione. "Non possiamo controllare se sta accadendo, ma è probabile", ha detto il capo di gabinetto del governo di Tokyo, Yukio Edano.

Una fusione del nocciolo non è ancora la peggiore delle ipotesi. Nel caso dell'incidente di Three Mile Island, il nocciolo fuso è rimasto all'interno del vessel, senza far danni all'esterno. Con la fusione, però, le barre di uranio possono raggiungere temperature fino a duemila gradi, nel qual caso potrebbero bucare le barriere di contenimento e sprofondare nel terreno, rilasciando nell'ambiente quantità massicce di materiale radioattivo. Questa è la peggiore delle ipotesi. Sarebbe la prima volta nella storia. Per evitarlo, bisogna puntare a riprendere il controllo del processo di raffreddamento, sperando che le barriere di contenimento tengano fino a quando la temperatura nel vessel comincerà a diminuire. E' quello che i tecnici giapponesi stanno cercando di fare.


13 marzo 2011

Rischio nulceare giapponese: il mistero della fusione del nocciolo

La peggiore delle ipotesi? Fusione del nocciolo con esplosione del reattore. In questo caso la fuoriuscita di materiale radioattivo sarebbe inevitabile e massiccia. Un'ipotesi teorica, mai accaduta nella storia del nucleare civile. Nell'incidente di Three Mile Island, nel 1979, si arrivò alla fusione del nocciolo. Ma senza danni, perché il reattore rimase perfettamente integro. Dalla centrale non uscì nulla e tutto il materiale sta ancora chiuso lì dentro, annegato in un sarcofago di cemento. A Cernobyl non si arrivò mai alla fusione del nocciolo, ma ci fu un'esplosione da cui fuoriuscì una parte del combustibile radioattivo. Le conseguenze furono molto più gravi, come sappiamo.

Nel caso di Fukushima Daiichi, non sappiamo ancora con certezza come stiano le cose. L'agenzia di sicurezza nucleare giapponese sostiene che le quattro centrali più vicine all'epicentro del terremoto siano state subito spente e nega la fusione del nocciolo nell'unità numero 1 della centrale di Fukushima. L'esplosione, dovuta a un problema al sistema di raffreddamento, dovrebbe avere intaccato solo le pareti esterne della centrale, non il reattore. Ma la fuoriuscita di cesio indica che ci sia stata una fusione di combustibile, anche se probabilmente non del nocciolo. E quindi resta un'incongruenza fra quanto dichiarato e l'evidenza dei fatti.

La centrale di Fukushima è un bestione composto da 6 unità per quasi 5 gigawatt di potenza: potrebbe soddisfare da sola un decimo del fabbisogno italiano di energia elettrica. Costruita nel '66, la centrale utilizza dei reattori Bwr (Boiling Water Reactor) costruiti da General Electric, Toshiba e Hitachi. Il nocciolo di un reattore Bwr può essere immaginato come la resistenza elettrica che scalda l'acqua in un comune bollitore da cucina: è immerso nell'acqua e diventa molto caldo. L'acqua lo raffredda e allo stesso tempo trasporta via il calore, di solito sotto forma di vapore, per far girare delle turbine che generano elettricità. Se l'acqua smette di fluire, abbiamo un problema. Il nocciolo si surriscalda e sempre più acqua si trasforma in vapore. Il vapore causa una forte pressione nella camera interna del reattore, un contenitore sigillato. Se il nocciolo - composto principalmente di metallo - diventa troppo caldo, tande a sciogliersi e alcune componenti possono infiammarsi.

Nella peggiore delle ipotesi, il nocciolo si scioglie completamente e buca il fondo della camera interna, cadendo sul pavimento della camera di contenimento, un altro contenitore sigillato. Questo è progettato apposta per evitare che il contenuto del reattore penetri all'esterno. Il danno a questo secondo contenitore può essere anche grave, ma in linea di principio dovrebbe poter evitare una fuga radioattiva nell'ambiente circostante. L'espressione "in linea di principio", però, è sempre relativa. I reattori sono progettati per avere diversi livelli di sicurezza, in modo da far scattare un'altra procedura se la prima fallisce. Ma quel che è successo a Fukushima dimostra che non sempre si riesce a mantenere il controllo del sistema. Il terremoto ha fatto spegnere automaticamente i reattori in funzione, ma ha anche tolto la corrente alle pompe che facevano fluire l'acqua di raffreddamento del nocciolo. I generatori diesel si sono attivati per ovviare al blackout, ma sono partiti con un'ora di ritardo rispetto all'interruzione di corrente, non si sa perché. Questo ha scatenato il surriscaldamento del reattore.

Nel caso di Three Mile Island, non si è arrivati alle estreme conseguenze, perché la camera di contenimento ha tenuto. A Cernobyl, un reattore considerato inaccettabile in base agli standard occidentali proprio per la mancanza di sistemi multipli di sicurezza, la fuoriuscita di materiale radioattivo avvenne a causa dell'esplosione, che scagliò in aria il combustibile nucleare, non in seguito a una fusione.

Nel caso di Fukushima Daiichi, il monitoraggio dell'International Atomic Energy Agency (il braccio di sicurezza nucleare delle Nazioni Unite) ci dice che il reattore è stato spento subito. Ma il riscaldamento continua attraverso la reazione nucleare, che ci mette molto tempo prima di esaurirsi. Non possiamo sapere se la drammatica esplosione cui abbiamo assistito attraverso le riprese televisive abbia davvero intaccato solo le pareti esterne della centrale. L'unica fuoriuscita radioattiva di cui siamo a conoscenza è derivata dalla necessità di sfiatare la pressione che si era creata nella camera di contenimento. Questa manovra, resasi necessaria per contenere il surriscaldamento, dovrebbe far uscire solo isotopi radioattivi che decadono rapidamente, prodotti dall'acqua di raffreddamento. Resta da spiegare la presenza di isotopi di cesio. Questi sono prodotti dalla reazione nucleare del nocciolo e dovrebbero restare confinati all'interno del reattore. Se sono stati registrati all'esterno della centrale, vuol dire che il nocciolo ha cominciato a disintegrarsi.

 


10 marzo 2011

Fotovoltaico: il rischio è finire come la Spagna

Il rischio è sotto gli occhi di tutti. Il fotovoltaico italiano potrebbe finire come quello spagnolo.

In Spagna le tariffe incentivanti troppo generose hanno finito col drogare il mercato, facendo crescere il settore del fotovoltaico e il costo pubblico degli incentivi a ritmi non sostenibili, tanto che il governo, nel 2009, è dovuto correre ai ripari. «Le tariffe sono state abbassate con effetto retroattivo – ha spiegato l'esperto spagnolo David Perez, di Eclareon, al convegno  di stamattina Governare la crescita del fotovoltaico, organizzato dal Kyoto Club – e sono stati introdotti dei tetti alla potenza incentivabile». L'effetto sul mercato è stato quello di un vero e proprio blocco, tanto che il giro d'affari del fotovoltaico spagnolo è passato dai 18 miliardi di euro del 2008 ad appena 650 milioni nel 2010, con la perdita di un terzo dei posti di lavoro del settore. Una vera e propria ecatombe, simile allo scenario che potrebbe aprirsi in Italia dopo l'approvazione del decreto Romani.

Ma da oggi si è accesa una protesta unitaria delle principali categorie di produttori (Aper, Assosolare, AssoEnergie Future, Gifi/Anie, Anev, Ises Italia) contro il provvedimento di riordino del sistema. Cuore delle azioni di protesta è stato il teatro Quirino a Roma, dove c'erano 2.000 persone tra cui anche il segretario del Pd Pier Luigi Bersani. La contrarietà al provvedimento è arrivata anche in rete: dal collegamento via web tv con il teatro romano (in streaming con 450 micro-emittenti) all'apertura del sito www.sosrinnovabili.it (60.000 contatti in 4 giorni), fino alle condivisioni su Facebook per oltre 50.000 contatti e 8.000 sostenitori in poche ore, testimonianze su Skype e oltre 45.000 e-mail di protesta inviate al governo. I produttori chiedono essenzialmente di correggere il provvedimento approvato dal governo la scorsa settimana: in particolare di cancellarne la retroattività, considerata illegittima. Ma soprattutto, in vista dell'incontro di martedì 15 marzo convocato dal ministro dello Sviluppo Economico Paolo Romani, chiedono di poter sedere al tavolo insieme con banche e Confindustria. Altrimenti, meditano su una manifestazione di piazza e non nascondono l'intenzione di considerare ''tutte le vie legali per far decadere questo decreto incostituzionale'', ricorrendo dal ''Tar, alla Corte costituzionale, alla Corte di giustizia Ue'', senza escludere la possibilità di ''avviare una class action''.

Gli effetti prodotti dal decreto che blocca gli incentivi al fotovoltaico al 31 maggio sono già evidenti, con le banche che ritirano i finanziamenti e i cantieri che chiudono. Ma è solo l'inizio. ''Sarebbe come chiudere la Fiat - ha detto Angelo Bonelli, presidente dei Verdi - si mandano di botto a casa 140.000 persone''. Intanto la Aecos, un'azienda della Sardegna con 30 dipendenti, porta la protesta anti-decreto sul tetto del proprio stabilimento, dove da tre giorni si alternano i lavoratori. ''Siamo soprattutto venditori e agenti bloccati - spiega Giampiero Pittorra, titolare dell'impresa - mentre mandiamo avanti il più possibile il lavoro degli installatori'' per tentare di anticipare a maggio ''le commesse previste per agosto ed oltre'' pari a ''1 megawatt'' che tradotti sono tra ''i 2 e i 3 milioni di euro''.

La ricetta per evitare un blocco analogo a quello che ha afflitto il mercato iberico, però, esiste. Prevede un taglio sostanziale degli incentivi (almeno del 20-30%) da programmare sul medio e lungo periodo, sul modello di quanto accade in Germania. «Il sistema tedesco – ha spiegato Alex Sorokin, di Interenergy, al convegno del Kyoto Club – funziona col meccanismo della feed-in-tariff: lo stato riconosce al produttore di energia fotovoltaica un certo incentivo, ma a questo non si aggiunge anche il prezzo di mercato dell'elettricità, come avviene in Italia. In questo modo, il costo complessivo per la collettività si riduce, e il rischio di “bolle” e specluazioni è inferiore». Gli imprenditori scelgono se incassare gli incentivi oppure vendere l'energia al prezzo di mercato, quando questo si rivela più conveniente. Questa, però, non è l'unica differenza rispetto al modello di casa nostra. «Le tariffe incentivanti tedesche – ha aggiunto Sorokin – si abbassano gradualmente in proporzione alla crescita del mercato e al calo dei prezzi degli impianti».  La legge che regola il sistema feed-in-tariff tedesco viene revisionata ad intervalli regolari di quattro anni, garantendo in questo modo una certa stabilità al meccanismo e rassicurando gli operatori sulle possibilità di rientro degli investimenti.

Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, è scettico, da parte sua, sull'adeguatezza dell'obiettivo che l'Italia si è data in materia di sviluppo dell'energia solare. «Gli 8 Gigawatt di potenza fotovoltaica che il nostro Paese aveva scelto come target per il 2020 rappresentano una soglia fin troppo cautelativa, soprattutto se confrontati con i 52 Gw della Germania». Secondo Tabarelli, accontentarsi di un risultato del genere impedirebbe all'Italia di rispettare l'impegno assunto in sede comunitaria: soddisfare, entro il 2020, il 17% del consumo nazionale di elettricità con energia da fonti rinnovabili.


9 marzo 2011

Fotovoltaico: cancellato per decreto

Domani alle 9.30 le associazioni che rappresentano il settore delle fonti rinnovabili (Aper, Assosolare, Anev, AssoEnergie Future, Gifi, Ises Italia) incontrano imprese e cittadini al teatro Quirino di Roma per spiegare gli effetti immediati del decreto ammazza-rinnovabili e per rilanciare una "collaborazione paritaria tra il governo e l’industria per una legislazione finalizzata alla reale promozione delle rinnovabili in Italia che dia certezze nel lungo periodo".

Già venerdì il ministro Paolo Romani incontrerà tutti gli operatori del settore: "Massimo in due settimane vogliamo produrre un provvedimento che dia certezze al settore, in modo che le nostre banche, i nostri imprenditori e i nostri produttori abbiano la possibilità di investire in base a quanto consentito e consentibile da parte dei cittadini", ha dichiarato nel corso dell'audizione in Commissione Industria del Senato.

Ma il decreto ha già fatto effetto, prima ancora di essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Le banche hanno immediatamente tirato i remi in barca e tutti i progetti in corso si sono fermati, con danni colossali ai soggetti coinvolti e la prospettiva reale di perdere l'unico settore in forte crescita nel panorama industriale italiano, così com'è successo in Spagna.

In una lettera aperta al Presidente del Consiglio dal titolo Cancellati per Decreto, pubblicata oggi in uno spazio pubblicitario su diversi quotidiani, quindici imprese del settore "che impiegano centinaia di lavoratori e hanno circa 1,3 miliardi di euro investiti in impianti che entreranno in esercizio oltre il 31 maggio 2011" polemizzano duramente con il governo: "Se si vogliono cambiare le regole, che lo si faccia ma qualsivoglia cambiamento non deve avere alcun impatto retroattivo e sui lavori in corso".

Così non è, grazie alle gravi incongruenze contenute nel decreto e messe in luce dall'avvocato Paolo Falcione di DLA-Piper anche in una lettera diretta al presidente Giorgio Napolitano, per invitarlo a non firmare una normativa palesemente illegittima. Ma il suo appello è caduto nel vuoto.

"Il comma 9-bis - spiega Falcione - pone come data di scadenza del 3° Conto Energia il 31 maggio 2011. Termine che si pone in palese violazione dell’art. 41 della Costituzione che tutela l’iniziativa economica privata, in quanto le decisioni di investimento relative al 3° Conto Energia sono state fatte facendo affidamento su un regime adottato nell’agosto 2010 ed entrato in vigore il 1° gennaio 2011 e previsto fino a tutto il 2013. E se è vero che l’ammissione all’incentivo è ex post rispetto all’allacciamento, non per questo si può ledere l’affidamento degli investitori: infatti essi si assumono il rischio costruzione, ma non di repentino mutamento del quadro legislativo. La norma rasenta la modifica retroattiva di regimi di incentivazione, regolarmente sanzionata come illegittima dal Consiglio di Stato".

Per di più, il decreto impone che il quarto Conto Energia venga adottato in tempi strettissimi, entro il 30 aprile 2011, ma se ciò non avverrà per ritardo o perché cadrà il governo prima, il comma 9-bis è indipendentemente idoneo a bloccare l’attuale 3° Conto Energia.

"Da ultimo - precisa Falcione - il quarto Conto Energia si baserebbe su scaglioni annuali di potenza massima incentivabile. Si deve allora ipotizzare che si torni ad una ammissione ante costruzione, altrimenti non sarebbe un regime di incentivo ma una sorta di roulette russa, in cui ogni primo gennaio si riparte da zero in un meccanismo di chi prima arriva meglio alloggia, che in Italia, per esperienza, incentiva solo la corruzione".

 

 

 


4 marzo 2011

Presidente, non firmi il decreto ammazza-rinnovabili

Il decreto ammazza-rinnovabili ha fortissimi profili di incostituzionalità: in primo luogo quello legato all’eccesso di delega. In sostanza, il Parlamento ha delegato il Governo a recepire la direttiva europea a favore delle rinnovabili, ma il Governo non ha in nessun modo recepito i pareri espressi dalle Commissioni Parlamentari, cioè dall’istituzione delegante. È solo uno dei punti su cui il decreto legislativo licenziato dal Consiglio dei Ministri di ieri appare viziato da gravi difetti di costituzionalità.

Per questo, Aper, Assosolare, Asso Energie Future e Gifi, le associazioni di categoria che rappresentano la quasi totalità del settore fotovoltaico, hanno lanciato oggi in una conferenza stampa congiunta un appello al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano perché non firmi il decreto legislativo che getta il settore delle rinnovabili nell’incertezza, aprendo la strada a una crisi che non si fermerà alle aziende del fotovoltaico e dell’eolico.

 “ Lo schema di Decreto Legislativo nel testo adottato dal Consiglio dei Ministri è palesemente illegittimo sotto il profilo costituzionale in quanto viola uno dei principi cardine del nostro ordinamento giuridico che è la certezza del diritto e la tutela dell’affidamento ed è in contrasto altresì con le norme internazionali della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Inoltre è un atto arbitrario del Governo senza l’intesa delle Regioni che si sono pronunciate su un testo sostanzialmente da quello approvato dal Consiglio dei Ministri. Sono state inoltre violate le prerogative parlamentari e, in particolare, la delega conferita al Governo. In altre parole il governo ha adottato un testo con finalità opposte a quelle fissate dal Legislatore”, ha detto Pietro Pacchione, consigliere delegato di Aper, associazione che raccoglie 480 imprese operanti nel settore delle rinnovabili.

“So che già molte migliaia di messaggi stanno arrivando al sito e ai fax del Quirinale per chiedere di fermare oggi il decreto, prima che centinaia di piccole imprese vadano a gambe all’aria: già numero istituti di credito hanno fatto sapere che in queste condizioni, i finanziamenti necessari alle aziende e alle famiglie per installare un pannello fotovoltaico sono stati bloccati. Non si può giocare con la vita 150.000 lavoratori”, ha dichiarato Massimo Sapienza, presidente di Asso Energie Future in rappresentanza di 40 importanti aziende che lavorano esclusivamente nell’ambito delle rinnovabili.

Secondo Gianni Chianetta, presidente di Assosolare , associazione che raccoglie circa 90 imprese del settore, “la scelta del governo è stata irresponsabile, probabilmente non si rende ancora conto delle conseguenze economiche e sociali. Il vuoto normativo nel quale ci troviamo ha bloccato i cantieri in corso e quelli che stavano per partire, e a breve si vedranno anche i drammatici effetti sull’occupazione e sulle imprese, in primis quelle italiane. Il costo in bolletta non giustifica un simile colpo di mano che non ha tenuto conto del parere delle camere. Gli italiani pagano l’1,6% per il fotovoltaico contro l’8% dei tedeschi. Assosolare da mesi ha dialogato bene con il governo e tantissimi senatori e parlamentari che oggi sono contrari a quanto deliberato e farà valere le proprie ragioni nelle sedi opportune”.

Valerio Natalizia, presidente di Gifi ha chiarito che “il decreto come approvato determina sin da subito effetti pesantemente negativi quali il ricorso immediato alla cassa integrazione straordinaria (stimabile in oltre 10.000 unità direttamente impegnate nel settore), il blocco degli investimenti per i prossimi mesi di oltre 40 MLD di euro, il blocco delle assunzioni e la perdita di qualificati posti di lavoro. Inoltre subiranno un blocco immediato gli ordinativi già in corso per un valore di circa 8 MLD di euro e i contratti già stipulati per circa 20 MLD di euro. Tutti gli investitori nazionali ed internazionali si sono fermati attendendo la pubblicazione di un nuovo sistema incentivante”.

 Le associazioni, riunite su un solo fronte nell’appello al Capo dello Stato affinché non firmi il decreto, viziato da diversi elementi di incostituzionalità, hanno inoltre confermato la volontà di percorrere tutte le strade giuridiche e istituzionali per sensibilizzare sul tema i soggetti decisori. Non escludono pertanto azioni legali direttamente presso le istituzioni europee.


2 marzo 2011

E' italiana la superbatteria finanziata dal governo Usa

Un litro di benzina contiene 35 volte l'energia immagazzinata in una batteria convenzionale al piombo e 6 volte quella contenuta in una batteria agli ioni di litio, la più usata nelle auto elettriche di ultima generazione. "In questo rapporto, chiamato densità energetica, sta tutto il problema dei veicoli elettrici", ragiona Riccardo Signorelli, che di batterie se ne intende. Se esistessero delle batterie in grado di raggiungere la stessa densità energetica dei combustibili fossili e di caricarsi istantaneamente come un serbatoio alla pompa, il motore a combustione interna, insieme ai suoi mefitici gas di scarico, sarebbe già andato in pensione.

La missione di Signorelli, come scienziato e come imprenditore, è fare concorrenza alla benzina, migliorando la performance delle batterie. E ci riesce abbastanza bene: in 13 anni di studio, a partire dalla laurea in ingegneria elettrica al Politecnico di Milano fino al dottorato al Massachusetts Institute of Technology, questo bergamasco di 32 anni ha messo a punto un primo prototipo, che usa minuscole strutture di nanotubi al carbonio per immagazzinare energia. "Non si tratta di una batteria vera e propria, ma di un capacitore, che ha una densità di potenza molto maggiore delle batterie e può caricarsi e scaricarsi istantaneamente, quasi all'infinito, perché funziona in base a un principio fisico, non elettrochimico", spiega Signorelli, che ha passato i suoi sei anni al Mit insieme a Joel Schindall, direttore del mitico Lees (Laboratory for Electromagnetic and Electronic Systems), a mettere a punto la tecnologia dei nanotubi al carbonio. Ora il suo ultracapacitore ha ricevuto 5,3 milioni di dollari dal governo americano e altri 2 da investitori privati, per finanziarne lo sviluppo e l'industrializzazione, nel giro di due anni. Con il grant del ministero dell'Energia, Signorelli ha fondato la sua impresa, FastCap, arruolando anche Schindall come consulente, e parla ormai più volentieri l'inglese dell'italiano, soprattutto se il discorso si fa tecnico.

Le pareti dei tubi sviluppati da Signorelli hanno uno spessore di appena 12 atomi e crescono, come fili d'erba, alloggiando nei minuscoli interstizi particelle cariche di energia. In questo modo, si possono immagazzinare moltissime particelle cariche in un piccolo spazio, con strutture leggere. E siccome la connessione è fisica, non chimica, le particelle cariche possono staccarsi e attaccarsi quasi istantaneamente. Il risultato è una struttura ridotta, con una densità di potenza molto alta. In pratica, l'obiettivo di Signorelli è arrivare alla dimensione di una batteria da torcia, capace di contenere meno energia di una batteria elettrochimica, ma in grado di caricarsi e scaricarsi in due secondi. Aggregato alla batteria di un veicolo, il suo ultracapacitore si attiverebbe per l'avviamento, le accelerazioni e decelerazioni rapide, allungando la vita della batteria e riducendo dimensioni e costi. Sarebbe la soluzione ideale per alcuni dei problemi fondamentali delle batterie al litio: durata, costo e dimensioni.

"Stiamo ancora lavorando per ottimizzare il risultato, abbassando al minimo pesi, volumi e costi, ma abbiamo già ricevuto molte segnalazioni d'interesse da parte dell'industria automobilistica", racconta Signorelli, che fin da ragazzo, all'istituto tecnico Pesenti di Bergamo, ha sempre avuto la passione dell'elettricità e ora è molto soddisfatto di poter dare un contributo "energetico" in un momento di svolta per il mondo dei trasporti.