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30 settembre 2011

Revenge of the Electric Car, alle volte ritornano

Alle volte ritornano. Vi ricordate lo splendido documentario di Chris Paine sulle auto elettriche, "Who killed the electric car?"

 Bene, il lavoro del regista americano ha avuto un seguito, che si chiama "Revenge of the Electric Car", nelle sale americane da luglio. "Who killed the electric car?" raccontava di come, nel 1996, fosse stato affossato il primo modello di auto elettrica realizzato da General Motors, la EV1. I responsabili? Le grandi compagnie petrolifere, che si erano messe di traverso, perché non avvenisse il temuto passaggio da benzina a elettricità. Nel nuovo film, Paine racconta il lavoro di oggi a favore della mobilità a batterie proprio della Gm, della Nissan e della Tesla, azienda californiana specialista di auto sportive.  A parlare sono i due amministratori delegati di Nissan e Tesla, Carlos Ghosn (che insieme a Renault guida il gruppo oggi più impegnato nel settore) e il giovane Elon Musk, più per la Gm l’ex vicepresidente e veterano del mondo dell’auto Bob Lutz. "Revenge of the electric car", uscito quest'estate a New York e in arrivo sugli schermi europei, spiega dunque la rinascita del sogno elettrico, in un sequel trionfale dove vincono gli eroi del nuovo corso. Per ora non sono ancora arrivati i cinesi, ma forse quelli chiuderanno la trilogia.

27 settembre 2011

E.on, il gigante si è ristretto

L'uscita dall'atomo della Germania fa le prime vittime. E.on, il gigante malato, ristruttura la sua filiale italiana, perdendo l'amministratore delegato Luca Dal Fabbro, che lascia dopo appena un anno. L'ex ad italiano Klaus Schaefer, invece, raddoppia: dopo aver occupato per un anno l'ambita posizione di ad di Ruhrgas (il braccio di E.on nel gas), andrà a dirigere la nova business unit di vendita del gas, che vedrà Ruhrgas accorpata a E.on Energy Trading, in seguito alla drastica ristrutturazione in atto.

 E.on ha perso quest'anno quasi metà della sua capitalizzazione, ridotta a 28 miliardi, a fronte di 34 miliardi di debito. Il titolo è sceso fino a 13 euro dai 25 di gennaio (già la metà dei 50 euro del gennaio 2008) e il rischio di scalata è fortissimo. Sulle 11 centrali nucleari di sua proprietà, quattro sono state spente e per le altre è in programma la chiusura entro dieci anni. Un danno grave - quantificato in 1,9 miliardi solo sui primi 6 mesi di quest'anno - di cui il colosso di Duesseldorf sta chiedendo conto al governo tedesco per vie legali. Intanto il numero uno Johannes Teyssen cerca di tenere la barca in equilibrio con vigorosi tagli e una decisa sterzata. Il primo passo è la razionalizzazione delle operazioni in Europa, per indirizzare nuove risorse verso i mercati emergenti, soprattutto India, Brasile e Turchia. Ma la novità più importante è l'integrazione di E.on Energy Trading con E.on Ruhrgas, due strutture parallele che si occupano di vendite: in questo modo, Teyssen spera di ottenere un taglio dei costi di 1,5 miliardi all'anno, da qui al 2015. Saltano così una serie di poltrone, anche nei due consigli d'amministrazione, mentre l'ad di Ruhrgas Klaus Schaefer andrà a dirigere entrambe le unità a partire dal primo ottobre. Non basta. La rete di 12mila chilometri di gasdotti dovrà essere venduta. In realtà la divisione trading di Ruhrgas era un business in perdita, per colpa dei contratti fissi di lungo termine con Gazprom, e la riduzione era nell'aria già da tempo. Ma nessuno si aspettava un taglio così radicale.
E' stato l'incidente di Fukushima e la conseguente moratoria nucleare tedesca ad accelerare la ristrutturazione. A fine agosto, E.on ha annunciato 11mila tagli sugli attuali 80mila dipendenti, di cui la metà in Germania. La settimana scorsa, in una lettera interna agli 800 dipendenti che lavorano nel quartier generale di Duesseldorf, l'ex presidente Bernhard Reutersberg, ancora membro del board, ha annunciato che in quella sede un posto di lavoro su due sarà tagliato. In pratica, E.on si avvia a una vera e propria rivoluzione e tra i dipendenti è già in uso la sigla "E.on 2" per designare il nuovo volto dell'azienda, che punta a focalizzarsi molto sulle fonti rinnovabili e sul gas. La trasformazione del gruppo da "utility europea a fornitore specializzato globale di soluzioni energetiche" è stata delineata da Teyssen nella convinzione che "la sovracapacità in molti mercati energetici, i mutamenti tecnologici e gli interventi dei politici e dei regolatori continueranno a causare negli anni a venire considerevoli effetti avversi al settore".
In termini operativi, già quest'anno ci sarà un forte sviluppo delle attività in Russia e in Scandinavia, mentre le riduzioni maggiori colpiranno la Germania e il Regno Unito. Nel resto d'Europa, compresa l'Italia, per ora l'attività dovrebbe rimanere stabile. Ma il primo effetto di un ridimensionamento è già visibile in Italia, con l'accorpamento dei ruoli di presidente e amministratore delegato nelle mani di Miguel Antoñanzas e l'uscita di scena del numero uno Luca Dal Fabbro. Il manager, proveniente dall'Enel dov'era stato responsabile marketing di Enel Trade e direttore generale di Enel Energia, cambia veste ed entra come azionista in Domotecnica, leader nazionale nel franchising per le aziende d'installazione termoidraulica, diventandone anche l'amministratore delegato. Per E.on Italia, si ridimensiona così anche il board, composto da tre membri invece di quattro. Ma non è detto che questo passo giustifichi le voci di possibili cessioni ricorrenti sul ramo italiano del gruppo.

24 settembre 2011

L'Italia si scopre Paese del sole

Italia primo mercato mondiale del fotovoltaico quest'anno. La stima è di SolarPlaza, che nel 2011 prevede per il solare italiano una crescita superiore a quello tedesco, fino ad oggi mercato di riferimento per l'energia del sole. E non stupisce, visto che ormai siamo ben oltre i 10mila megawatt installati, secondo i dati del Gestore dei Servizi Energetici, contro i 1000 megawatt dell'inizio 2010 e i 3000 dell'inizio di quest'anno. In un anno e mezzo abbiamo decuplicato la potenza installata e secondo il Gse arriveremo a quasi 12mila megawatt entro fine anno, con oltre 350mila impianti in esercizio.


E' un boom rapidissimo, che sembra destinato a continuare. L'Italia, se queste previsioni si riveleranno esatte, nel 2011 avrà installato il triplo della potenza realizzata in Germania, da oltre un decennio leader del mercato fotovoltaico mondiale. A oggi, in totale, sono entrati in esercizio oltre 270mila impianti. La Puglia, con circa 1.685 megawatt per 17.812 impianti in esercizio, mantiene il primato della regione con maggiore potenza installata, mentre la Lombardia resta in testa alla classifica delle regioni con maggior numero di impianti in esercizio (38.810 per 993 megawatt), seguita dal Veneto, con 36.066 impianti per 894 megawatt. La Germania, che l'anno scorso ha realizzato nuova potenza fotovoltaica per oltre 7mila megawatt, resterà comunque al primo posto per potenza cumulata e SolarPlaza sostiene che ci vorrà ancora qualche anno di crescita robusta prima che l'Italia possa conquistare la palma anche in questa classifica. L'autorevole società di analisi sottolinea che al momento la crescita del fotovoltaico è ancora legata ai sistemi incentivanti, ma ritiene che nei prossimi anni la situazione sia destinata a cambiare a seguito della riduzione del costo dei moduli, già sceso del 60% negli ultimi 3 anni. La battuta d'arresto tedesca dipende proprio dal taglio degli incentivi deciso quest'anno dal governo, mentre quelli italiani continuano ad attirare investitori da tutto il mondo, malgrado l'inattesa riduzione dei sussidi, che da fine giugno sono stati decurtati del 20%. E questa è la vera notizia: la crescita continua. Dopo il rush finale per rientrare nel regime incentivante più favorevole, che ha portato a un boom d'installazioni nei primi mesi dell'anno, lo slancio si è solo lievemente ridotto, ma non sgonfiato com'era previsto.
Solsonica, il primo produttore italiano di celle e moduli fotovoltaici, ha aumentato le vendite di pannelli del 48% tra il 1° giugno e il 31 agosto, per un controvalore stimato di oltre 38 milioni di euro. Enel Green Power ha inaugurato un nuovo impianto da 6 megawatt in Veneto, a Canaro vicino Rovigo. TerniEnergia tra il 1° luglio e il 31 agosto ha collegato in rete 28 impianti di taglia industriale. Viaggia ormai verso i 50 megawatt la capacità fotovoltaica installata in Italia da Solar Ventures: nel solo mese di agosto l'azienda ha annunciato di aver connesso 20 megawatt su un totale di sei impianti in Sardegna, Piemonte e Puglia. Il gruppo Magaldi - leader nella produzione di impianti industriali per il trasporto di materiali ad alta temperatura, con base a Salerno – ha realizzato in Campania 4 impianti fotovoltaici della capacità di 5,3 megawatt su tetti di grandi capannoni industriali. Fintel ha annunciato la connessione di un parco da 5,2 megawatt vicino a Macerata, grazie al quale ha raggiunto gli 11,4 megawatt installati. Phoenix Solar ha reso noto di aver fornito i pannelli per tre impianti per circa 4 megawatt totali connessi entro il 31 agosto, e di avere ricevuto un ordine per un impianto su tetto da 227 kilowatt.
Di pari passo con il boom d'installazioni, calano i prezzi. E anche su questo fronte, l'Italia è in pole position: in base all'ultimo rapporto dell'European Photovoltaic Industry Association, sarà l'Italia il primo Paese europeo in cui il costo dell'energia fotovoltaica raggiungerà la parità con quello delle fonti tradizionali, la cosiddetta "grid parity". Il rapporto Solar Photovoltaics Competing in the Energy Sector, redatto in collaborazione con AT Kearney, prevede che il fotovoltaico raggiungerà la grid parity nel 2013 in Italia, per poi estendersi entro il 2020 agli altri Paesi europei, anche in considerazione dell'aumento del prezzo dell'elettricità prodotta con altre fonti. Il rapporto Epia prevede di qui al 2020 un ulteriore potenziale di riduzione del costo del fotovoltaico del 50%: dai 0,16-0,35 euro a kilowattora del 2010 a 0,08-0,18 euro a kilowattora nel 2020 a seconda degli impianti e dell'irradiazione solare.
A livello globale, la riduzione più drastica sta avvenendo negli Stati Uniti, dove il costo degli impianti fotovoltaici è sceso del 17% nel 2010 rispetto all'anno precedente e di un ulteriore 11% nei primi 6 mesi del 2011. Il dato emerge da un rapporto del Lawrence Berkeley National Laboratory, secondo cui il calo è derivato non solo dal calo del prezzo dei moduli registrato negli ultimi due anni, ma anche dalla discesa del 18% tra il 2009 e il 2010 di altri costi come inverter, installazione e commercializzazione.

22 settembre 2011

Il vento è ripartito, ma non soffia da queste parti

L'eolico ha ripreso a correre a livello globale, ma in Italia la crescita resta lenta. Con 18,4 gigawatt installati nella prima metà dell'anno e 43,9 previsti a fine anno, nel 2011 l'energia del vento mette a segno un balzo che per ora supera il 20% rispetto all'anno scorso. Nei primi sei mesi del 2011, in base al rapporto della World Wind Energy Association, la potenza totale installata è arrivata a 215.000 megawatt. Un quarto di questi si trovano in Cina (52.800 megawatt), che nel primo semestre dell'anno ha consolidato la sua leadership avviandone altri 8.000. Gli Usa si sono invece fermati a 2.252 megawatt in più, mantenendo comunque il secondo posto con un totale di 42.432 megawatt installati. Ma la vera sorpresa del rapporto è l'India, che con 1.480 megawatt avviati nel primo semestre ha raggiunto quota 14.550 ed è sempre più vicina alla Germania (+766 megawatt a 27.981 megawatt) e alla Spagna (+480 megawatt a 21.150 megawatt). L'Italia arriva in sesta posizione con 6.200 megawatt, grazie a un installato superiore a quello della Francia (6.060 megawatt), ormai tallonata dalla Gran Bretagna, a 5.707 megawatt.

Saranno proprio questi due Paesi, secondo la European Wind Energy Association, a mettere a segno la crescita più spettacolare nei prossimi anni. In base al rapporto Pure Power, nel 2020 l'Unione raggiungerà una capacità eolica pari a 265 gigawatt, in grado di soddisfare il 18,4% di consumi elettrici europei, soprattutto grazie alla cavalcata del Regno Unito, che dovrebbe sestuplicare la sua potenza eolica da 5.204 a 34.000 megawatt, e della Francia, da 5.660 a 26.000 megawatt. In tutti e due i casi, il balzo spettacolare avverrà grazie all'eolico offshore, che Francia e Inghilterra stanno sviluppando aggressivamente proprio in questo periodo. Ma anche Germania e Spagna - che dovrebbero raddoppiare da 27.214 a 52.000 megawatt e da 20.676 a 42.500 megawatt rispettivamente - puntano molto sull'offshore.
Non a caso il vento del mare è quello che raccoglie maggiori investimenti. Il fondo americano Blackstone, ad esempio, ha appena annunciato un investimento di 2,5 miliardi di euro nelle acque del Mare del Nord tedesco per i parchi di Meerwind e Noerdlicher Grund, che avranno assieme una potenza di oltre 600 megawatt. A New York il tratto di oceano davanti a Long Island è destinato a ospitare 700 megawatt di pale, con un investimento di 2,7 miliardi di dollari, grazie alla nascita di un consorzio fra la Long Island Power Authority (Lipa), la New York Power Authority (Nypa) e l'operatore Con Edison.
In Italia, invece, l'eolico offshore resta al palo prima ancora di nascere. Tutti gli investimenti proposti, da quello di Effeventi al largo della costa molisana a quello di Enel Green Power davanti a Gela, fino al progetto più recente nel golfo dell'Asinara in Sardegna, sono stati immediatamente stoppati dalle resistenze locali. Ma in base alle valutazioni dell'Associazione Nazionale Energia del Vento, l'eolico offshore potrebbe arrivare almeno fino a 680 megawatt installati entro il 2020. E secondo Bruno Baldissara dell'Enea, "in uno scenario particolarmente favorevole si potrebbero superare i 1.500 megawatt". Resta il fatto che le caratteristiche dei nostri mari non sono ideali per questa tecnologia, che si sviluppa meglio sui fondali bassi come quelli che si trovano nei mari del Nord.
Il rapporto Pure Power prevede che l'Italia passi dai 5.797 megawatt eolici in funzione a fine 2010 (3,2% della domanda) a 18.000 megawatt nel 2020, equivalenti a una copertura del 10% dei consumi elettrici italiani, ma le incertezze normative per ora frenano la crescita potenziale. "Mentre il mondo intero riconosce nell'eolico un settore strategico per crescita e sviluppo, in Italia l'ennesimo taglio del 10% previsto con la Robin Tax è sintomo dello scarso interesse da parte del governo per un comparto che potrebbe rilanciare l'economia nazionale con importanti benefici in termini di occupazione", commenta Simone Togni, presidente dell'Associazione Nazionale Energia del Vento. Il potenziale occupazionale dell'eolico, secondo le valutazioni dell'Anev, è di 67.010 addetti al 2020, nel caso il settore riprendesse a crescere come l'anno scorso, prima del taglio degli incentivi, già decurtati del 35% prima ancora della Robin Tax. Malgrado il rallentamento, comunque, ancora qualcosa si muove: il 7 ottobre Falck Renewables inaugura il parco eolico più grande d'Italia tra Buddusò e Alà dei Sardi. Con 69 turbine e 138 megawatt di potenza installata, il nuovo parco è uno dei maggiori a livello europeo. Collocato in una delle zone più ventose del Paese, consentirà di generare 330 gigawattora all'anno di energia pulita, sufficiente per coprire il fabbisogno di 110.000 famiglie. Proprio grazie all'eolico, Falck Renewables ha archiviato il primo semestre dell'anno con una crescita a due cifre: i ricavi a 114 milioni (+32%), il margine operativo lordo in aumento del 39% a 65 milioni e l'utile netto in aumento del 59% a 14,3 milioni. In barba alla Robin Tax e al taglio degli incentivi.

19 settembre 2011

Occhio allo spread fra il greggio europeo e americano

Lo spread tra Bund e Btp agita i sonni degli italiani, ma c'è un altro spread che ci terrà svegli tutti, alla lunga: quello fra il prezzo del petrolio americano ed europeo, che sta facendo andare alle stelle le quotazioni globali di greggio. Solo lo sblocco del petrolio libico potrebbe gettare acqua sul fuoco di questo differenziale.

A Londra, sui circuiti dell'InterContinental Exchange, il Brent europeo in consegna ottobre supera i 110 dollari al barile, mentre sui circuiti del Nymex il West Texas Intermediate, stessa consegna, è sceso sotto quota 84: il differenziale ormai supera i 26 dollari, un record storico, e non si fermerà qui. Il petrolio libico viene raffinato tutto in Europa e quindi influisce sul listino di Londra, non su quello di New York. "La prospettiva che la produzione libica torni a fluire nei tubi ridurrà la pressione sul Brent - commenta Michael Wittner, capo delle materie prime di Société Générale - ma i tempi della ripresa restano un'enorme incognita". Gli analisti prevedono che la battaglia interna al Consiglio Nazionale di Transizione sulla gestione del tesoro nazionale sarà lunga e che il differenziale di prezzo fra le due qualità di greggio sia destinato ad allargarsi, anche fino a 50 dollari al barile.

Abdeljalil Mayouf, portavoce della compagnia petrolifera controllata dai ribelli, l'Arabian Gulf Oil Company, ha dichiarato che "possiamo avviare la produzione in qualsiasi momento, anche senza le compagnie internazionali" e che "non abbiamo problemi con le compagnie occidentali, ma abbiamo difficoltà politiche con la Russia, la Cina e il Brasile". Ahmed Jehani, responsabile della ricostruzione, sostiene al contrario che "i contratti petroliferi antecedenti sono sacrosanti" e che "non verranno fatte discriminazioni politiche di alcun tipo", rassicurando tutti i contendenti, in particolare Cina e Russia. Ma le impostazioni divergenti interne al campo dei ribelli rischiano di allungare molto i tempi di ripresa della produzione. Goldman Sachs prevede 12-18 mesi solo per superare la soglia produttiva dei 500.000 barili al giorno e tempi ancora più lunghi per tornare ai livelli pre-crisi di 1,6 milioni di barili (oggi siamo a 60mila). Wood MacKenzie, società di analisi specializzata nei mercati petroliferi, è ancora più pessimista: stima 36 mesi secchi per ritornare ai livelli pre-crisi. L'esperienza di precedenti conflitti, dalla rivoluzione iraniana del '79 allo sciopero prolungato in Venezuela nel 2002-2003, insegna che alla radice dei ritardi ci sono proprio i contrasti politici in seno ai vincitori, non i danni materiali alle infrastrutture. "La guerra in Iraq dimostra che la ripresa della produzione dipende dall'efficacia della pacificazione nazionale", rileva Lawrence Eagles, capo della ricerca petrolifera di JPMorgan ed ex dirigente dell'International Energy Agency.

La questione è particolarmente importante per l'Italia, che prima della crisi riceveva dalla Libia circa un quarto del suo fabbisogno di petrolio e oltre il 10% dei suoi consumi di gas naturale. I francesi sono convinti di uscire vincitori dalla competizione: già in aprile, secondo indiscrezioni, Total avrebbe concluso un accordo segreto con i ribelli per assicurarsi una quota del 35% della produzione libica di greggio. Paolo Scaroni, numero uno dell'Eni, non ci crede: "Non c'è ragione di cambiare operatori che lavorano lì da anni e conoscono il territorio come nessun altro", ha detto. Ai tempi di Gheddafi, l'Italia era al primo posto nella graduatoria dell'export libico di petrolio, con il 28% della produzione, la Francia al secondo, con il 16%, la Cina al terzo con l'11% e la Spagna al quarto con il 10%. Ma ora Parigi vanta il merito di essere stata la prima a riconoscere il Consiglio Nazionale di Transizione. In realtà, l'unica certezza è che la produzione libica ci metterà diversi anni per essere ripristinata ai livelli pre-crisi. E questo influirà molto sul differenziale di prezzo fra greggio europeo e americano.

Normalmente lo spread è inverso. Il Wti americano viene scambiato a un prezzo superiore in ragione della maggiore leggerezza, del basso contenuto di zolfo e dei costi di trasporto, più alti negli Stati Uniti. Le ragioni che da alcuni mesi hanno spinto al rialzo il Brent sono legate alla persistente instabilità politica del Nord Africa, mentre il petrolio americano ha visto calare le sue quotazioni grazie alle scorte record. La produzione americana e canadese di greggio continua a crescere, ma la crisi economica ha ridotto i consumi e non ci sono abbastanza oleodotti per portare il petrolio del Nord verso i porti del Golfo del Messico. Così i serbatoi di Cushing, il centro di raccolta in Oklahoma che dà il prezzo al Wti, continuano a riempirsi. In Europa, invece, succede il contrario. "A un certo punto, da qui alla prossima estate, il differenziale di prezzo fra Brent e Wti potrebbe raddoppiare", spiega Ed Morse, capo della ricerca sulle materie prime di Citi. Solo lo sblocco del petrolio libico getterebbe acqua sul fuoco. Con il Brent al di sopra dei 110 dollari al barile, non manca l'incentivo finanziario per indurre Tripoli a mettersi d'accordo in fretta con le compagnie. Ma non è detto che lo stimolo sia sufficiente a superare le divisioni.


14 settembre 2011

Balzo dei prezzi del gas per l'industria italiana

Aumenti del 35-40% sul prezzo del gas per l'industria ceramica. E' questo l'esito dei contratti appena chiusi per il prossimo anno termico, in partenza il 1° ottobre. Per le imprese del distretto, già messe in difficoltà dalla crisi, è una mazzata potente. "Il costo della materia prima per noi è la voce principale insieme al personale e incide almeno del 20% sui costi di produzione", spiega Armando Cafiero, direttore generale di Confindustria Ceramica. Un aumento di questa portata, quindi, rischia di spingere fuori mercato i produttori più deboli.

Come si giustifica il nuovo balzo dei prezzi? "E' vero che le quotazioni del petrolio sono aumentate molto quest'anno e il prezzo del gas mantiene ancora un aggancio all'andamento del greggio, ma è anche vero che fra i prezzi italiani e quelli europei, già più alti rispetto al mercato americano, c'è un divario del 15-20%, il che penalizza moltissimo la competitività dell'industria italiana", precisa Cafiero. Come mai? "In Italia c'è pochissima liquidità sul mercato del gas, ma non perché non ne arrivi abbastanza. Le forniture correnti abbondano rispetto alla domanda, che è calata per le note difficoltà dell'industria. Ma la capacità d'importazione è sottoutilizzata dall'Eni, che la sfrutta solo al 60% e non consente ad altri di far passare il proprio gas nelle infrastrutture inutilizzate. La conservazione di quote di capacità non utilizzata evidentemente riduce la competizione e la liquidità del nostro mercato", sostiene Cafiero. La denuncia dei consumatori industriali in materia di limitazioni nelle disponibilità di trasporto da mercati più maturi e competitivi non è nuova. Ma in questi tempi di crisi, la richiesta di liberalizzazione del mercato del gas si fa particolarmente pressante.

"E' urgente mettere a disposizione dei soggetti industriali parte della capacità d'importazione inutilizzata sui gasdotti Transitgas e Tag (provenienti dal Nord Europa e dalla Russia)", sollecita Confindustria Ceramica. L'idea è quella di una concessione interrompibile, che possa essere restituita in qualsiasi momento al titolare, nel caso abbia necessità di utilizzarla. In questo modo i grandi consumatori di gas, riuniti in consorzio, potrebbero già oggi acquistare materia prima sui mercati europei e aumentare così la liquidità e la competitività del mercato italiano, senza danneggiare le prerogative dell'Eni, proprietario di Snam Rete Gas, cui si riconoscerebbe il diritto di rioccupare con il suo gas le quote di capacità concessa, in caso di necessità per il sistema.


12 settembre 2011

A Marcoule salta un inceneritore, non una centrale nucleare

Una fornace è esplosa oggi nel sito nucleare per il trattamento delle scorie di Marcoule, nel Sud della Francia, provocando la morte di una persona e quattro feriti, di cui uno grave. Il sito, di proprietà della società Edf, non contiene alcuna centrale nucleare, a differenza di quanto diffuso da molti organi d'informazione. A Marcoule, sede della prima centrale nucleare francese, non ci sono reattori in funzione: l'ultimo è stato spento nell'84. Dal '99 il sito viene sfruttato per lo smaltimento di scorie provenienti dall'industria nucleare, dai centri di ricerca e dagli ospedali.
La fornace saltata in aria fa parte di un inceneritore attivo all'interno del Centre Nucléaire de Traitement e Conditionnement (Centraco), dove vengono bruciati soprattutto oggetti metallici, come vasche, pompe o utensili, usciti dalla manutenzione dei reattori o dallo smantellamento di centrali, ma anche tute da lavoro, guanti e in misura minore rifiuti liquidi, come soluzioni di lavaggio, solventi, resine e residui oleosi. I rifiuti solidi vengono introdotti nella camera primaria, mentre i liquidi anche in quella secondaria, a seconda della composizione chimica. Il motivo dell'esplosione non è stato ancora chiarito, ma potrebbe trattarsi della reazione al calore eccessivo di un materiale non conforme alle temperature d'incenerimento.
L'obiettivo principale dell'incenerimento è di comprimere il volume delle scorie radioattive, che si riducono da 10 a 17 volte e poi vengono sottoposte a un riprocessamento nelle unità specifiche. I residui usciti dall'inceneritore sono recuperati e mischiati a una matrice solida per renderli inerti, infine introdotti in fusti metallici e trasportati nel centro di smaltimento dell'Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti radioattivi.
L'Agenzia per la Sicurezza Nucleare ha annunciato che è stata contenuta completamente all'interno della fornace. Anche la polizia ha confermato che non ci sono state contaminazioni fuori dall'impianto, che si trova a circa 30 chilometri da Avignone e a circa 80 chilometri dalla costa mediterranea.

7 settembre 2011

Le vie della mobilità sostenibile sono (quasi) infinite

Dall'auto elettrica alla bicicletta, dal car-sharing ai mezzi pubblici: le vie della mobilità sostenibile sono (quasi) infinite. L'importante è ridurre l'inquinamento dei motori a combustione interna nelle aree più densamente popolate, quelle dove oggi si concentra maggiormente. Se è vero che le città, come dice l'economista di Harvard Ed Glaeser, sono la migliore invenzione dell'umanità, è anche vero che rischiano di diventare invivibili se non si applicheranno soluzioni di mobilità intelligente, nella prospettiva di una rapida crescita della popolazione urbana: saremo 9 miliardi nel 2050, all'80% concentrati nelle metropoli. E quindi cerchiamo di non soffocarle con i nostri tubi di scappamento.

"In centro senza la macchina!" è appunto lo slogan della European Mobility Week, che si svolge dal 16 al 22 settembre e a cui partecipano 25 città italiane. Per aderire, bisogna dimostrare di aver adottato una qualsiasi misura in favore del trasferimento permanente di spazi urbani dalle auto ai pedoni, alle bici o al trasporto pubblico. E questo sta diventando il punto centrale dell'azione di molti sindaci che dettano l'agenda della sostenibilità in Europa e oltre. La vivibilità cittadina, infatti, non si compone di una singola misura, ma di una serie di buone pratiche applicate a tappeto per molti anni. E' il caso di Zurigo, che vanta una ripartizione modale del 63% su trasporto pubblico e solo del 25% su auto privata, o di Copenhagen, dove il 36% della mobilità urbana si risolve con la bici (26% in auto), ma anche di New York, dove un fiume di pendolari si riversa su Manhattan via treno o via traghetto. I tre modelli sono diversi, ma puntano nella stessa direzione: abbassare il più possibile la quota di auto private circolanti nello spazio urbano. All'altro capo della graduatoria, in Europa, si collocano Torino e Palermo, con una prevalenza del 79 e 78% dell'auto privata sulle altre opzioni di mobilità, contro il 5 e il 9% del trasporto pubblico. Milano è una via di mezzo, con il 47% di auto private nella ripartizione modale, non lontano da Roma (53%), Madrid (48%) e Budapest (46%). Tra i casi più virtuosi, oltre a Zurigo e Copenhagen, troviamo Berlino e Vienna (31%).

A New York, solo il 24% dei pendolari usa la macchina per arrivare in ufficio: il 41% usa la metropolitana, il 12% l'autobus e gli altri vanno in bici, in treno o in traghetto. La metropolitana è talmente importante per gli abitanti della Grande Mela, che è sempre in funzione, 24 ore su 24, così come il treno dei pendolari che viene dal New Jersey, il Path. I newyorkesi macinano complessivamente oltre 18 miliardi di miglia sui mezzi pubblici ogni anno, contro i 2,8 miliardi degli abitanti di Los Angeles e i 2,2 miliardi dei cittadini di Chicago. L'alta incidenza dei trasporti pubblici sulla mobilità cittadina ne fa una delle città più efficienti del mondo industrializzato: il consumo pro-capite di idrocarburi equivale alla media americana del 1920.

Stesso discorso vale per Zurigo: la capitale finanziaria della Svizzera è considerata un modello a livello globale per la funzionalità dei suoi mezzi pubblici, che attirano il 63% degli spostamenti. Questa prevalenza è stata ottenuta migliorando costantemente l'offerta e coordinando le 41 diverse compagnie di trasporti pubblici di tutta la regione, che insieme gestiscono 262 linee, per 2300 chilometri complessivi, con un unico biglietto comune. Corine Mauch, prima donna e primo sindaco apertamente gay a guidare la più grande città elvetica, ha incentrato sul trasporto pubblico la sua campagna elettorale nel 2008, promuovendo un referendum per ancorare nella Costituzione cittadina il concetto di società a 2000 watt, passato a larga maggioranza. Mauch applica una politica sempre più restrittiva sui parcheggi in centro, dove ormai si può lasciare la macchina solo per un'ora, pagando tariffe salatissime e con la certezza di una multa in caso di inadempienza. Copenhagen, la città campione mondiale della bici, dove solo il 26% dei tragitti cittadini si copre in auto, non è da meno: la difficoltà di lasciare la macchina e la certezza della pena rappresentano un deterrente formidabile per gli automobilisti. Ma in ultima analisi, quello che conta di più è la fierezza degli abitanti nel perseguire uno stile di vita che rende l'aria più respirabile e consegna ai posteri una metropoli dove fa piacere abitare.


5 settembre 2011

Battaglia d'autunno per l'auto elettrica

La battaglia d'autunno per l'auto elettrica è cominciata. Autolib’, il servizio di car-sharing elettrico in partenza a Parigi, potrebbe essere il primo passo di una vera rivoluzione per la mobilità urbana, non solo sul piano tecnologico ma anche di sistema. In città il traffico veicolare è di gran lunga il primo responsabile delle emissioni di polveri sottili e di ossidi di azoto, i precursori dell’ozono. A fine agosto, in base ai dati elaborati da LaMiaAria.it, la qualità dell’aria di Milano era "eccellente". Il riposo estivo, con le auto in trasferta, ha fatto scendere al minimo i livelli d’inquinamento. Ma fra non molto ricominceremo a contare i giorni di sforamento dei livelli di PM10: nel 2010 sono stati 134 a Torino, 95 a Napoli, 87 a Milano, 67 a Roma, 65 a Firenze e via enumerando.
Da Parigi, invece, arriva aria nuova. Silenziose e prive di emissioni, tremila auto elettriche made in Italy stanno per invadere la Ville Lumière e 81 comuni limitrofi. Blue Car, disegnata da Pininfarina con la tecnologia di Vincent Bolloré, sarà la protagonista assoluta di questo gigantesco programma di mobilità sostenibile, il più grande del mondo, con un bacino d’utenza di quattro milioni di clienti fra la capitale e l’Ile de France. Blue Car è la prima auto elettrica prodotta in serie alimentata da batterie ai polimeri di litio-metallo, una tecnologia innovativa in grado di memorizzare, a parità di peso, fino a cinque volte l'energia delle batterie tradizionali e quindi di aumentare notevolmente l'autonomia dei veicoli. Alla batteria è abbinato un dispositivo per lo stoccaggio dell'energia, un supercapacitore che recupera e immagazzina l'energia in frenata, per poi renderla disponibile alla ripartenza del mezzo. I grandi produttori come Renault e Peugeot, che stanno investendo miliardi di euro nello sviluppo dell'auto elettrica, hanno preferito le batterie agli ioni di litio, considerate meno instabili. Blue Car dichiara un'autonomia di 250 chilometri, contro i 100 della Smart ED, i 110 della Nissan Leaf o i 160 della Renault Fluence.
Bolloré è convinto della sua scelta, che sta sperimentando da dieci anni con la società Batscap, insieme al colosso dell'energia Edf: la nuova fabbrica di Ergué-Gabéric, nel suo feudo di Finistère, servirà proprio per alimentare le Blue Car destinate ad Autolib'. Il senso industriale della sua sfida è evidente: se riuscirà a convincere il pubblico della bontà di questa tecnologia, alle sue batterie si aprirà un vasto mercato. Per questo ha partecipato alla gara parigina, indetta l'anno scorso, impegnandosi a investire almeno 60 milioni di euro nell'impresa. Così ha battuto due rivali ben più strutturati di lui per la loro esperienza in reti di trasporto: Veolia e il consorzio formato da Ratp, Sncf, Vinci e Avis. Il Comune di Parigi gli ha assegnato in concessione 700 stazioni di parcheggio e ricarica, di cui 500 in superficie e 200 in garage sotterranei. Le prime vetture, già omologate, saranno in circolazione da settembre, in tempo per la presentazione ufficiale durante la Nuit Blanche, il 1° ottobre. A livello di massa, il lancio del servizio è previsto a partire da dicembre. Chiunque potrà accedervi, con soli 12 euro al mese di costo fisso e una tariffa variabile a seconda delle ore di utilizzo.
Ma Autolib’ sarà un laboratorio interessante anche sotto altri punti di vista. Il car sharing elettrico, infatti, rappresenta una sfida per il modello di automobilismo proprietario, profondamente radicato nella nostra società. Non a caso la rivoluzione parte da Parigi, dove appena il 42% degli abitanti ha la macchina. Solo a Londra (36%) e New York (20%) le vetture private sono ancora meno diffuse, mentre Roma e Milano, con oltre 70 auto ogni cento abitanti, hanno un tasso di motorizzazione fra i più alti al mondo. «Modificando i tradizionali confini fra mobilità individuale e trasporto pubblico, Autolib’ porterà nuova linfa alla progettazione della mobilità urbana», spiega Sylvain Marty, direttore del consorzio misto titolare dell’iniziativa. In questo senso, il nuovo servizio dovrebbe aiutare i parigini a ripensare l’intero sistema: i treni del Réseau Express Régional e la fitta rete del metro si potrebbero vedere come le grandi arterie di un organismo complesso, di cui le auto elettriche diventeranno i capillari, quell’ultimo miglio capace di portare gli utenti a destinazione, da porta a porta. E senza gas di scarico.

2 settembre 2011

Embargo al petrolio siriano: l'Italia resiste

Con l'embargo al petrolio siriano, decretato oggi in sede europea, l’Italia resta a secco di un'altra importante fonte di approvvigionamento. Mancano già all’appello le forniture libiche, pari al 23% del nostro fabbisogno. A queste si andrà a sommare un altro 3% che proveniva dalla Siria. Ammanco a cui negli ultimi mesi si sta facendo fronte ricorrendo sempre più ai fornitori dell’Est, Azerbaijan in testa.

L’embargo all’acquisto, importazione e trasporto di greggio e prodotti petroliferi dalla Siria metterà a dura prova il regime di Bashar al Assad. La Ue assorbe, infatti, il 95% del petrolio siriano, di cui un terzo finisce in Italia. Da qui la richiesta italiana, ignorata da Bruxelles, di posticipare il bando alla fine di novembre, allo scopo di salvaguardare i contratti già in essere tra imprese europee e siriane. Non a caso, in cima agli acquirenti c'è TotalErg. L'export di greggio contribuisce per quasi un terzo alle entrate del governo di Damasco.