Charles Darwin diceva che non è mai la
specie più forte a prevalere, ma quella più capace di adattarsi al
cambiamento. La stessa regola si può applicare anche alla storia
dell'umanità: non sono le società più forti a prevalere, ma quelle
più flessibili. Nella nostra epoca, vincerà chi saprà affrontare
meglio i due principali cambiamenti in corso: l'inurbamento e il
riscaldamento del clima.
Per la prima volta nella storia, dall'anno
scorso la popolazione urbana del pianeta ha superato quella rurale.
Per questo abbiamo bisogno di "città agili", corvette da
filibustieri più che galeoni spagnoli, capaci di adattarsi alle
nuove esigenze di abitabilità, mobilità e anche, nel caso, agli
inconvenienti tipici dell'effetto serra: alluvioni, tempeste, sbalzi
climatici. Città piene di verde, dove l'acqua in eccesso possa
essere riassorbita e filtrata naturalmente, non foderate di cemento e
asfalto che fa da tappo. Città evoluzionarie, non bloccate da
normative fisse, dove le regole si adattino ai tempi, premiando i
risultati finali - in termini di energia, acqua ed emissioni
risparmiate - non imponendo quali lampadine dobbiamo usare o quali
auto dobbiamo guidare. Città rapide, dove la densità abitativa
aiuti a sfruttare i piedi o la bici per gli spostamenti di corto
raggio e dove gli insediamenti si sviluppino lungo le direttrici del
trasporto pubblico su rotaia, più che lungo le strade, scoraggiando
l'uso dell'auto. La crescita sostenibile dovrebbe tradursi in strade
sgombre e abitazioni ariose, orientate in modo da rendere la
climatizzazione necessaria solo pochi giorni all'anno. Concentrando
gli sforzi su edifici e trasporti, che sono responsabili del 40 e del
28% delle emissioni a effetto serra, potremmo tagliare una bella
fetta della CO2 che produciamo, con grande sollievo dell'ambiente, ma
anche della vivibilità cittadina. Non dimentichiamo poi che i
megawatt costano, mentre i negawatt ci fanno risparmiare. E quindi,
tanto di guadagnato.
L'evoluzione verso un modello dinamico di città, verso una correzione di rotta a piccoli passi e non più basata sui mega-progetti si legge ormai da vari anni in tutti i contributi più significativi alla letterattura di settore: da "Green Metropolis" di David Owen a "Triumph of the City" di Ed Glaeser, da "Walking Home" di Ken Greenberg a "Urbanism in the Age of Climate Change" di Peter Calthorpe, fino all'ultimo "The Agile City" di James Russell, il mantra della crescita sostenibile non parla più solo di pannelli solari sul tetto, ma di cambiare modi e luoghi in cui si costruisce, bloccando la crescita auto-centrica dei sobborghi sventagliati a caso attorno alle metropoli e in generale gli insediamenti sorti da greenfield.
In ultima analisi, riqualificare è più importante di edificare da zero e la densità urbana si scopre molto più virtuosa dell'idillio bucolico caro a Thomas Jefferson. A Manhattan e a Parigi girano sicuramente meno auto pro capite e più metropolitane che a Monticello, il suo amato villaggio nelle campagne della Virginia: per renderle efficienti non occorre inventare nulla, basta affinare le mille tattiche già esistenti e renderle sempre più diffuse con gli incentivi giusti. La città si riconosce più intelligente della campagna e il grigio più verde del verde. Il discorso di Russell arriva fino a mettere in questione il sacro diritto alla proprietà immobiliare, caro a tutto il mondo occidentale, ma soprattutto agli americani: è lecito costruire insediamento dopo insediamento sulla riva dell'oceano, per accontentare tutte le richieste? Come la mettiamo con gli uragani e le alluvioni? Quando questa gente rimarrà senza casa, come nel caso Katrina, chi pagherà gli aiuti? E non è un discorso solo americano: basta andare in Costa del Sol, per capire i danni della cementificazione diffusa. Quando il sistema dei mutui crolla, come ora, altro che agilità: siamo al rigor mortis...
L'evoluzione verso un modello dinamico di città, verso una correzione di rotta a piccoli passi e non più basata sui mega-progetti si legge ormai da vari anni in tutti i contributi più significativi alla letterattura di settore: da "Green Metropolis" di David Owen a "Triumph of the City" di Ed Glaeser, da "Walking Home" di Ken Greenberg a "Urbanism in the Age of Climate Change" di Peter Calthorpe, fino all'ultimo "The Agile City" di James Russell, il mantra della crescita sostenibile non parla più solo di pannelli solari sul tetto, ma di cambiare modi e luoghi in cui si costruisce, bloccando la crescita auto-centrica dei sobborghi sventagliati a caso attorno alle metropoli e in generale gli insediamenti sorti da greenfield.
In ultima analisi, riqualificare è più importante di edificare da zero e la densità urbana si scopre molto più virtuosa dell'idillio bucolico caro a Thomas Jefferson. A Manhattan e a Parigi girano sicuramente meno auto pro capite e più metropolitane che a Monticello, il suo amato villaggio nelle campagne della Virginia: per renderle efficienti non occorre inventare nulla, basta affinare le mille tattiche già esistenti e renderle sempre più diffuse con gli incentivi giusti. La città si riconosce più intelligente della campagna e il grigio più verde del verde. Il discorso di Russell arriva fino a mettere in questione il sacro diritto alla proprietà immobiliare, caro a tutto il mondo occidentale, ma soprattutto agli americani: è lecito costruire insediamento dopo insediamento sulla riva dell'oceano, per accontentare tutte le richieste? Come la mettiamo con gli uragani e le alluvioni? Quando questa gente rimarrà senza casa, come nel caso Katrina, chi pagherà gli aiuti? E non è un discorso solo americano: basta andare in Costa del Sol, per capire i danni della cementificazione diffusa. Quando il sistema dei mutui crolla, come ora, altro che agilità: siamo al rigor mortis...
Gli esempi virtuosi, per fortuna, non
mancano. Ormai ci sono edifici, anche grandi, che riescono a ridurre
le emissioni a zero, in perfetta autosufficienza, come la California
Academy of Science a San Francisco o il nuovo Centro Culturale
Stavros Niarchos ad Atene, di Renzo Piano. Zero. Fino a pochi anni
fa, un taglio delle emissioni del 20-30 per cento faceva già
notizia. Addirittura, ci sono insediamenti che riescono ad andare in
positivo, come Dockside Green a Victoria, in Canada, che produce più
energia di quanta ne consumi, imbrigliando le risorse naturali del
territorio. Altri optano per adeguarsi alla natura invece di
combatterla, come a Ijburg, un nuovo quartiere di Amsterdam, dove
molte case sono galleggianti e non circolano macchine. Sono edifici e
quartieri che non richiedono tecnologie futuristiche ma strumenti che
abbiamo già, non impongono particolari rinunce agli abitanti, né
grandi variazioni nello stile di vita. L'investimento iniziale è
alto, ma di solito si ammortizza rapidamente. L'impatto zero ormai è
a portata di tutti, basta volerlo.
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