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23 dicembre 2012

Gli scozzesi corrono con il vento

Ogni turbina eolica, in Scozia, ha un nome. C'è White Dragon e Windy Wallace, Highland Spinner e e Twisty Turner. Sono i bambini delle scuole di Inverness che le hanno chiamate così. Per loro sono figure amichevoli, anche perché da quel vento le loro famiglie ci guadagnano. La crescita fenomenale della produzione di energia pulita scozzese, considerata un caso di scuola nella corsa europea allo sviluppo sostenibile, è strettamente legata alla voglia di partecipazione di queste comunità.

"Le cooperative cresciute attorno ai parchi eolici della zona raccolgono oltre 2.500 famiglie, che hanno investito di tasca propria in totale 5 milioni di sterline", spiega Graham Strachan, presidente della prima cooperativa e anima dell'iniziativa, che ha coinvolto finora 5 diversi parchi eolici realizzati dall'italiana Falck Renewables. "Il ritorno sull'investimento è molto interessante, supera il 10%", precisa Strachan. E di questi tempi, non è facile trovare un investimento sicuro con rendimenti di questa portata. "C'è chi investe pochi soldi a nome dei suoi nipotini e chi ci mette tutta la liquidità che possiede per costruirsi una pensione", racconta Strachan. Le cooperative danno la possibilità ai singoli individui di acquistare una quota dei parchi eolici a partire da 250 sterline, poco più di 300 euro, e non oltre le 20mila. La prima cooperativa è stata quella di Boyndie, nell'Aberdeenshire. Sono seguiti i parchi di Kilbraur nel Sutherland, Ben Aketil sull'isola di Skye e Millennium vicino a Inverness. "Oltre 1 milione di sterline è arrivato finora alle comunità coinvolte e in complesso è prevedibile che riceveranno almeno 11 milioni di sterline nel corso della vita di questi impianti, cioè altri vent'anni", precisa Strachan.
La modalità di coinvolgimento è quasi sempre la stessa. Non appena una nuova centrale eolica viene pianificata, le comunità locali sono coinvolte e consultate ad ogni stadio dello sviluppo e nelle successive attività. Questo aiuta a creare i necessari legami con gli abitanti del luogo. Falck ha sperimentato anche un approccio che integra le turbine di proprietà della comunità nei progetti del gruppo, come nel caso del parco di Earlsburn nello Stirlingshire, dove una delle turbine è di proprietà del paesino di Fintry. Gli abitanti di Fintry desideravano da tempo una propria turbina e Falck ha lavorato con la comunità ad un piano per installarla accanto alle 14 già previste dal piano del suo parco. Con il ricavato della turbina, oltre 100mila euro all'anno, Fintry ha realizzato progetti per isolare le abitazioni, ha installato caloriferi nell'atrio del centro comunale e ha fornito caldaie a legna per il centro sportivo.
Più in generale, ogni progetto cerca di aggregare le risorse presenti sul territorio. Nella fase di costruzione e operatività dell'impianto, vengono stipulati contratti con aziende locali, laddove possibile e commercialmente fattibile. Fin dal primo parco eolico scozzese, realizzato nel 2006, Falck ha firmato contratti con imprese scozzesi per circa 40 milioni di sterline, con una media di 140 persone impegnate nei lavori di progettazione e costruzione. Il prossimo, in costruzione a Nutberry, sarà pronto a metà 2013. Si cerca inoltre di rendere le centrali eoliche parte integrante delle comunità in cui sono localizzate. Gruppi di scolari del luogo e di altre comunità vengono regolarmente a visitare i siti e gli stessi ingegneri di Falck forniscono spiegazioni sull'energia eolica alle scuole. In pratica, dopo aver abbandonato l'acciaio, l'azienda italiana sta riproponendo all'estero l'imprenditoria sociale che era il suo marchio di fabbrica a Sesto. La storia della sua crescita nel Regno Unito, dove ha altri tre progetti eolici già autorizzati, è la dimostrazione di come profitto e sviluppo possano essere raggiunti in modo sostenibile, creando benessere per tutti gli stakeholders: azionisti, dipendenti, territorio e comunità locali.

2 dicembre 2012

Parigi chiama Berlino: nasce l'Airbus delle rinnovabili?

Parigi chiama Berlino per agganciarsi alla transizione energetica del potente vicino, in uscita dal nucleare. Laurent Fabius e Delphine Batho, ministri degli Esteri e dell'Energia, hanno lanciato un deciso appello pubblico a favore di una politica comune "rinnovata, solidale e aggressiva" e per la "costituzione di un campione europeo dell'energia rinnovabile", un Airbus delle fonti verdi, a partire dalle eccellenze europee già presenti nel settore, dall'eolico al solare, dai veicoli elettrici alle energie marine, passando per l'efficienza energetica.

Eia
Dopo la Germania, anche la Francia comincia a prendere sul serio l'idea di una politica energetica che guardi oltre l'atomo. Non a caso Edf, Areva e Alstom si sono lanciate nel mondo delle fonti rinnovabili, costruendo dal nulla e con successo, ad esempio, un comparto eolico che fino a poco tempo fa non avevano. Sull'altra sponda del Reno, Siemens ha deciso di uscire completamente dal nucleare e si è buttata a corpo morto nell'eolico offshore, dove ormai ha una quota di mercato del 75%. Con un'alleanza in questo settore, Parigi e Berlino potrebbero creare un campione europeo imbattibile, capace di far fronte alla potente concorrenza cinese. Altrettanto potrebbero tentare mettendo a fattor comune le eccellenze di Alstom e Siemens sulle smart grid o sull'efficienza energetica. Per non parlare del solare, dove i big tedeschi, da Solarworld a Q-Cells, potrebbero felicemente coniugarsi con le regine francesi, come Soitec o Photowatt, recentemente acquisita da Edf.
L'appello dei ministri francesi è tanto più significativo, in quanto arriva dal campione mondiale dell'industria nucleare, che per cinquant'anni si è mosso in totale autarchia rispetto alla politica energetica europea. Ma dopo Fukushima anche la Francia, estremamente legata all'atomo con il 75% di produzione elettrica nucleare, ha deciso di scendere a quota 50% al 2025, limite entro il quale il Belgio si è dato l'obiettivo di uscire completamente dal nucleare, da cui oggi deriva il 51% della sua produzione elettrica. La Germania, da parte sua, conta di abbandonare l'atomo entro il 2022 e la Svizzera, con il 40% di produzione elettrica da nucleare, è intenzionata a seguirla. La decisione sulle tecnologie da privilegiare per sostituire quella parte del parco nucleare, che sta diventando progressivamente obsoleto e verrà spento, è la più importante scelta industriale cui sono chiamati i governi europei attualmente in carica.
Fabius e Batho non citano a caso l'esempio di Airbus, il consorzio d'imprese aeronautiche francesi e tedesche - cui si sono poi aggiunti spagnoli e britannici - creato nel 1970 per competere ad armi pari con i colossi americani del settore. Proprio Louis Gallois, ex numero uno di Airbus, è il mandarino a cui François Hollande ha affidato il compito di dare la sveglia alla competitività francese, commissionandogli un rapporto su cui è in corso un furioso dibattito interno. Lo stesso Hollande ha già suggerito, in un discorso sul futuro industriale europeo, che Parigi e Berlino "potrebbero costituire un'avanguardia, lanciando una cooperazione tra le aziende dei due Paesi impegnate nella transizione energetica". Un dibattito analogo infuria in Germania, dove Michaele Schreyer, ex commissaria europea dei verdi, combatte da anni per il lancio di un'agenzia europea per le rinnovabili, Erene, che faccia le funzioni svolte un tempo dall'Euratom per il nucleare. La grande industria ha preso perfettamente sul serio Angela Merkel nella sua svolta energetica fuori dall'atomo, che il ministro dell'Ambiente, il cristiano democratico Peter Altmaier, ha definito "il nostro sbarco sulla luna", intendendo con questo l'apertura di un orizzonte industriale totalmente nuovo. Ma la spartizione della nuova torta per ora è una battaglia tutta interna.
I francesi invece vogliono capire se la Germania, al cui recente miracolo economico ha contribuito non poco la crescita fenomenale dell'industria delle rinnovabili, vorrà "sbarcare sulla luna" da sola o in compagnia. Ha senso tappezzare di pannelli solari Made in China i campi del Nord della Germania, dove il sole non c'è, solo per mancanza di un progetto comune? Non sarebbe meglio lanciare una strategia continentale delle fonti rinnovabili, mettendo in rete il vento del Nord e il sole del Sud, le biomasse dei campi e le correnti marine della Manica, per convogliarle in un mercato comune, facendo leva sulle eccellenze di ogni Paese? E' quello che si chiede anche il commissario europeo Günther Oettinger quando invita i tedeschi a "includere l'Europa" nella loro svolta: "I costi della transizione saranno più bassi". E' quello che chiederanno anche Laurent Fabius e Delphine Batho "al Consiglio Energia della Ue in programma il prossimo maggio, facendo leva sulla cooperazione franco-tedesca". Gli altri, intanto, stanno a guardare.

22 novembre 2012

Le utilities hanno il mal di rating: è il nuovo che avanza

I produttori di energia da fonti rinnovabili lo ripetono da anni: con l'apporto di queste fonti pulite e gratuite, il prezzo dell'elettricità all'ingrosso è destinato a scendere e quindi ad alleggerire in bolletta il fardello dei famosi incentivi. Ora se ne sono accorti anche gli analisti finanziari, ma le conclusioni che ne traggono sono diverse. Quello che per i consumatori di energia si sta rivelando un effetto positivo, per le grandi utilities rischia di diventare un grosso danno.


La riduzione dei prezzi elettrici ha eroso i margini degli operatori che ricavano energia principalmente dalle fonti fossili, dice uno studio di Moody's. E ci sono già le prime vittime: Moody's ha tagliato il rating a lungo termine di Enel da Baa1 a Baa2 con outlook negativo, mentre Ubs ha declassato la tedesca Rwe e la francese Edf con la stessa motivazione. Non importa agli analisti se queste stesse aziende possiedono anche una bella fetta della potenza elettrica rinnovabile in Europa: il problema deriva dalle centrali a gas o a carbone, che hanno altissimi costi operativi, ma spesso girano a vuoto, soprattutto negli orari di punta per l'industria, quando un tempo guadagnavano di più, mentre oggi sono battute sul campo dalla produzione solare, che proprio in quegli orari gira al massimo. Nei Paesi dove la crescita delle rinnovabili è stata più marcata, come in Germania e in Italia, il prezzo dell'energia venduta in Borsa negli orari di punta si è ridotto quasi della metà rispetto ai picchi di cinque anni fa. Sono i costi operativi degli impianti tradizionali - che bruciano combustibili agganciati alle quotazioni del petrolio - a mettere al tappeto i ricavi delle grandi utilities elettriche. Gli analisti di Ubs prevedono che metà dei profitti, messi a segno dalle utilities europee con la vendita di energia elettrica, verranno spazzati via da qui al 2020, rivoluzionando completamente il panorama del settore. "Quelle che un tempo erano considerate aziende stabili, hanno visto il loro modello di business sconvolto e ci aspettiamo che la crescita progressiva della produzione rinnovabile intacchi ulteriormente la qualità del credito delle utilities europee", spiega Scott Phillips, autore dello studio di Moody's.
D'altra parte, gli investitori non premiano nemmeno i produttori di energia da fonti rinnovabili, che in Borsa vanno mediamente peggio del mercato, per colpa dei tagli generalizzati agli incentivi statali. Il Nex, l'indice globale più rappresentativo di questi titoli, ha perso il 15,5% nel secondo trimestre dell'anno, contro un -3,3% dell'S&P 500. L'Irex, indice corrispondente sul mercato italiano, è calato addirittura del 32% nel secondo trimestre dell'anno. Paradossalmente, quindi, le grandi utilities vengono punite sia quando producono energia da fonti fossili, sia quando investono nelle fonti rinnovabili.
Ma la débacle finanziaria non impedisce alle fonti verdi di crescere molto sul piano degli investimenti industriali, poiché risulta chiaro a tutti il valore di questa scommessa sul lungo termine. La rivoluzione del sistema elettrico europeo, quindi, è destinata a continuare. Oltre 100 gigawatt di potenza elettrica da fonti rinnovabili sono stati installati in Europa negli ultimi cinque anni, soprattutto in Germania, Italia e Spagna. E da qui al 2020 se ne aggiungeranno altri 150 gigawatt, secondo lo studio di Moody's. L'energia verde, che oggi contribuisce per un terzo della potenza elettrica installata in Europa, è destinata a salire al 50% nel 2020. Con i loro costi operativi bassissimi, questi impianti continueranno a comprimere i margini degli altri, destinati a produrre sempre di meno. L'irregolarità della produzione da fonti rinnovabili, però, impedisce di chiudere le centrali tradizionali. L'elettricità prodotta dal vento e dal sole non può essere accesa e spenta a piacimento, così come si può fare con le fonti fossili, che serviranno sempre per tappare i buchi quando si offusca il sole e cade il vento. La sfida centrale del prossimo decennio, per il sistema elettrico europeo, starà tutta nella soluzione di questo rebus. Moody's ricorda, come possibile soluzione, lo sviluppo di impianti di accumulo e in particolare il piano d'investimenti da 1 miliardo di Terna sulle batterie e il progetto sperimentale di E.on su un impianto a idrogeno. Ma la prospettiva degli accumuli, che risolverebbe l'intermittenza delle fonti pulite, può "penalizzare ulteriormente i prezzi di picco", incrementando la competitività delle rinnovabili ed emarginando ancor di più la produzione termoelettrica. Una prospettiva poco attraente per le utilities tradizionali.

14 maggio 2012

Architettura biomimetica per risparmiare risorse

Architetture nel deserto che imitano le forme di una chiocciola. Edifici nelle zone artiche che riescono a migliorare l'isolamento termico catturando la neve anche sulle superfici verticali come le conifere. Vetrate e serre che ampliano o riducono l'ombra con un sistema di schermature che si apre solo al calore del sole, grazie a un meccanismo chimico-fisico e non elettrico, come i petali dei fiori. L'ultima frontiera dell'edilizia sostenibile è la biomimesi, che non inventa niente ma imita semplicemente la natura e vi s'inserisce armonicamente, come i progetti presentati all'ultimo Design Challenge del Biomimicry Institute, dove ha vinto il team iraniano dell'Art University di Isfahan.

BioArch_Ventillation

Tra gli architetti che si occupano dei temi del design per la sostenibilità ambientale prevale la consapevolezza condivisa che per trasformare in modo realmente sostenibile il nostro modello di sviluppo sia diventato sempre più importante conoscere i sistemi naturali e apprendere le loro strategie evolutive, imparando dalla natura a operare, progettare e produrre senza spreco, senza rifiuti e emissioni, trasformando anzi i rifiuti in nuove risorse in un sistema a cascata estremamente efficiente. Di qui l'attenzione verso le strategie virtuose per la sopravvivenza e l'evoluzione dei sistemi biologici, che spesso si possono applicare anche allo sviluppo di soluzioni progettuali e tecnologiche innovative e sostenibili. Quest'attenzione non è una novità: già le case di Frank Lloyd Wright s'inserivano nella natura come pietre appoggiate nel deserto, con sistemi di costruzione, d'illuminazione e di ventilazione il più possibile naturali. La bioarchitettura, che si occupa della progettazione di edifici costruiti solamente con materiali edili non nocivi e tecnologie costruttive non dannose per la salute e per l'ambiente, facendo ricorso a materiali naturali o riciclabili, è ormai un metodo consolidato. Le case passive, che assicurano il benessere termico senza utilizzare impianti di riscaldamento convenzionali, sfruttando la somma degli apporti passivi di calore dell'irraggiamento solare trasmessi dalle finestre per compensare le perdite dell'involucro durante la stagione fredda, stanno diventando case attive, che producono più energia di quella che consumano con vari sistemi di generazione elettrica da fonti rinnovabili. Ma ora, partendo da tutte queste conoscenze, con i nuovi materiali a disposizione, l'architettura comincia a fare un passo ancora più in là.
A EcoBuild, la fiera londinese dell'abitare sostenibile, si sono visti grattacieli come organismi composti da catene di cellule che crescono una dall'altra in altezza, coperte da una membrana continua, la stessa che funge da copertura a molti stadi e alla Basketball Arena dei giochi olimpici di quest'estate. Si è visto il progetto del Blue Planet Aquarium di Copenhagen, che sarà il più grande del Nord Europa e simulerà la forma di un vortice d'acqua. Si è parlato del progetto di Mountain Band-Aid, vasta ma leggerissima struttura abitativa spalmata come una rete di protezione sulle pendici delle montagne dello Yunnan, nel Sud Ovest della Cina, per stabilizzarle contro il dissesto idrogeologico. E poi di innumerevoli progetti di abitazioni coperte da tetti verdi, quasi completamente mimetizzate nel paesaggio, come colline che s'inseriscono senza soluzione di continuità nella vegetazione circostante.
Il concetto è semplice: durante i suoi 4 miliardi di anni di esperienza, la natura ha sviluppato progetti di forma, di processo e di sistema che vale la pena di osservare, comprendere ed emulare. Da sempre l'uomo ha tentato di capire e imitare i processi naturali, ma oggi le maggiori conoscenze scientifiche e tecnologiche offrono spunti progettuali capaci di soddisfare sia i requisiti di funzionalità ed efficienza, sia i principi di sostenibilità ambientale. È quindi chiaro che la biomimesi può offrire notevoli vantaggi sia in termini di efficienza - perché in natura i processi avvengono a temperatura e pressione ambiente, utilizzando gli elementi chimici più comuni e in maniera limitata - sia in termini di sostenibilità, perché imitare la natura significa agire in accordo e non in contrasto con essa. Ma ispirarsi alla natura significa ragionare per relazioni, come impongono i criteri di certificazione Leed degli edifici eco-sostenibili: gli elementi che compongono un sistema sono una rete di relazioni inserita in reti più grandi, dove il risultato qualitativo dell'intero sistema è maggiore della somma delle singole parti. In linea con questo approccio, l'edilizia diventa punto di snodo per trasformare il nostro processo produttivo, che consuma risorse e produce rifiuti ed emissioni, in un modello produttivo sistemico, che preferisce le risorse vicine rispetto a quelle lontane e che attiva, con gli scarti di un sistema che alimentano l'altro, una collaborazione virtuosa tra i processi produttivi agricoli e industriali, il sistema naturale, il contesto territoriale e la comunità, dando vita così ad una rete di relazioni aperta che rivitalizza il territorio.

11 maggio 2012

Celle double-face e vetri solari: il fotovoltaico si fa in quattro

Pannelli fotovoltaici sfaccettati che generano molta più energia di quelli piatti, celle double-face che catturano l'energia del sole su tutte e due le superfici, vetri solari capaci di produrre energia a buon mercato con una tecnologia basata sul colore, sistemi integrati intelligenti che raccordano la produzione solare con l'efficienza energetica. Il fotovoltaico si fa in quattro per raggiungere in tempi brevi la grid parity, ovvero la competitività con i combustibili fossili, che in alcune zone d'Italia è già a portata di mano, anche grazie all'aumento costante del prezzo del petrolio.
Il calo dei prezzi dei moduli e l'esplosione del mercato interno cinese sono i fattori destinati a caratterizzare nei prossimi mesi il fotovoltaico mondiale, che cerca di aggiustare il tiro mano a mano che i diversi Paesi smettono di incentivarne la crescita, ormai esponenziale. Dopo la Spagna, che già nel 2010 aveva ridotto gli incentivi quasi a zero, anche il Regno Unito e la Germania hanno messo mano alle forbici con tagli significativi l'anno scorso e adesso l'Italia sta facendo lo stesso. Finita la pacchia europea, sul versante produttivo è iniziata così una fase di consolidamento a livello globale, che privilegia i produttori più impegnati nella ricerca e nell'innovazione, con la previsione di un'uscita dal mercato dei player industriali più deboli. 


Per restare a galla in questo mercato in tumultuosa evoluzione, va da sé che la creatività nell'innovazione è di cruciale importanza. Chi riuscirà a industrializzare ora le killer application di domani, è destinato a dominare la scena per molti anni a venire. Lo sforzo della ricerca si concentra in particolare sull'ulteriore miglioramento del rapporto fra efficienza e costo del modulo fotovoltaico. Il basso valore di questo rapporto rispetto ad altre fonti energetiche si traduce in un alto costo per kilowattora prodotto, almeno nel periodo di ammortamento dell'impianto, e costituisce il limite più forte all'affermazione su grande scala di questa tecnologia. Quindi la ricerca si indirizza verso la scoperta di materiali semiconduttori e tecniche di realizzazione che coniughino il basso costo con un'alta efficienza di conversione.
Dal silicio cristallino si è passati così al silicio ribbon, colato in strati piani come un nastro, al silicio amorfo che consente di realizzare moduli a film sottile, al tellururo di cadmio, solfuro di cadmio o arseniuro di gallio, tutti materiali più economici ma meno efficienti. Si lavora sui processi di produzione, sperimentando varie alternative di realizzazione, come le celle sfaccettate tridimensionali di Solar3D, che puntano a catturare la luce radente in tutte quelle angolature che adesso sfuggono ai moduli tradizionali, con una produzione di energia doppia rispetto all'attuale. Sono già industrializzate celle double-face, capaci di produrre energia da entrambe le facciate e quindi adatte per realizzare pareti libere, come i pannelli di protezione acustica lungo le autostrade. Ma si punta soprattutto all'integrazione negli edifici, come nel caso del vetro solare proposto da Oxford Photovoltaics, un'evoluzione che potrebbe presto permettere ai grattacieli di essere indipendenti dal punto di vista energetico. Nei vetri solari inventati da questo spin-off dell'università di Oxford, la luce del sole interagisce direttamente con il colorante, consentendo un costo di produzione non molto superiore ai pannelli tradizionali, calcolato dai ricercatori sui 35 centesimi per watt. Nel giro di un anno, quando l'industrializzazione sarà completata, potrebbero rivoluzionare un intero comparto: da un grattacielo alto 220 metri collocato in Texas e ricoperto interamente con vetro solare, si potrebbe generare fino a 5,3 megawattora al giorno, sufficienti per esempio ad alimentare 52.000 pc, rendendo l'edificio praticamente indipendente se affiancati a un'efficiente sistema di illuminazione a Led.

9 maggio 2012

La torre ecologica di Renzo Piano svetta sull'Europa

The Shard svetta sullo skyline di Londra con i suoi 310 metri d'altezza, come una gigantesca scheggia di vetro. L'ultima fatica di Renzo Piano è ormai completa e si avvicina a grandi passi all'inaugurazione, il 5 luglio, appena in tempo per assistere ai giochi olimpici, dal suo punto di vista privilegiato. Questa piramide scintillante che s'innalza dalla riva Sud del Tamigi a sovrastare tutta l'Europa, superando l'attuale primato della Commerzbank Turm di Francoforte, rappresenta il simbolo di un modo di costruire che unisce l'innovazione tecnologica più estrema alla sostenibilità ambientale. Richard Mawer, uomo chiave del team di Piano per la progettazione strutturale, è convinto che sia questo il futuro delle città: solo l'altezza unita all'attenzione per l'efficienza energetica e a uno sviluppo urbano basato sui trasporti pubblici può rispondere alla domanda crescente di spazio abitativo senza sprecare le risorse limitate che abbiamo a disposizione.

The-shard

Partiamo dallo sviluppo urbano. Spesso le torri così alte diventano "simboli arroganti e aggressivi del potere, egocentrici ed ermetici", come ha detto lo stesso Renzo Piano presentando il progetto. Non finirà così anche questa?

"No. The Shard s'inserisce in maniera organica dentro Southwark, il nuovo quartiere di Londra che si sta ridisegnando attorno alla London Bridge Station, uno dei cinque maggiori snodi infrastrutturali della città. Southwark era considerato fino a pochi anni fa solo un'immediata periferia industriale dismessa e ora è uno dei posti più gettonati della città, con la Tate Modern di Herzog & De Meuron, il Neo Bankside di Richard Rogers, il Bourough Market, il More London di Foster e il Riverside Walkway, che conduce fino al Design Museum di Joseph Conran. La nuova torre è stata progettata proprio per incrementare la densità di quest'area in pieno sviluppo".

I frequentatori di questa piccola città verticale come ci arriveranno?

"La torre è servita da una linea di metropolitana, sei linee ferroviarie e quattordici linee d'autobus. Dovrebbero essere abbastanza per le settemila persone che ci lavoreranno e i 200mila utenti che graviteranno ogni giorno sui negozi, uffici, alberghi, teatri, bar, ristoranti, sul museo e la galleria panoramica. All'intera costruzione sono stati assegnati soltanto 50 posti auto".

E con tutto questo vetro, non si morirà di caldo come in una serra, facendo schizzare alle stelle i consumi energetici per la climatizzazione?

"Al contrario, la doppia pelle della facciata passiva è stata realizzata in vetro a basso contenuto di ferro, con una serie di accorgimenti che consentiranno di risparmiare il 35% dell'energia normalmente necessaria per riscaldamento e raffreddamento. Delle aperture operabili sulla facciata consentono la ventilazione naturale dei giardini d'inverno inseriti lungo tutto l'edificio".


8 maggio 2012

Un giacimento nascosto che non sappiamo sfruttare

E' arrivata l'ora dell'efficienza energetica, la fonte di energia più abbondante e a buon mercato che abbiamo a disposizione. Un primo accenno l'abbiamo avuto dal Quinto Conto Energia: incentiva il fotovoltaico, ma obbligherà tutti gli impianti costruiti su edifici a presentare una certificazione energetica con le indicazioni precise degli interventi da fare per migliorare la prestazione dell'immobile. Poi è arrivata la Strategia Energetica Nazionale, tratteggiata per la prima volta dal ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera in Senato. Qui l'efficienza energetica sta al primo punto fra i cinque elencati dal ministro come prioritari per il governo. Un segnale inequivocabile che qualcosa si sta muovendo. Sull'efficienza, ha detto Passera, "possiamo e vogliamo perseguire una vera leadership industriale nel settore". Come? Passera indica quattro linee d'intervento: le normative ad hoc per migliorare gli standard di edifici e apparecchiature; l'enforcement delle norme; la sensibilizzazione dei consumatori e la revisione degli incentivi. Ad oggi, l'unico incentivo che stimola l'efficienza energetica è la detrazione fiscale del 55% sulle riqualificazioni. E dall'anno prossimo non è più sicuro nemmeno quello. Per la modernizzazione del sistema, dice Passera, servirà una strategia energetica "chiara, coerente e condivisa", che "inizieremo a discutere con tutti gli attori rilevanti in estate". Non è mai troppo tardi.


Sull'efficienza in edilizia, siamo già stati messi in mora da Bruxelles: a fine aprile la Commissione ha deferito l'Italia alla Corte di Giustizia Ue per non essersi pienamente conformata alla direttiva del 2002 sul rendimento energetico nell'edilizia. Il procedimento d'infrazione contro l'Italia è partito nel 2006, con lettere e pareri motivati al nostro Paese, che non si è conformato "alle disposizioni relative agli attestati di rendimento energetico". Le distorsioni del mercato italiano, del resto, sono sotto gli occhi di tutti. E' vero, infatti, che dal primo gennaio è obbligatorio per chi vende o affitta un immobile dichiarare la classe energetica di appartenenza, ma è anche vero che dilagano gli attestati offerti da sedicenti certificatori senza neanche vedere l'immobile, via email e a prezzi stracciati. Un obbligo rispettato così, ovviamente non serve a nulla.
In un Paese dove la maggior parte degli immobili sono in classe G, con un dispendio energetico di oltre 160 kilowattora per metro quadro per anno, si sta perdendo un'occasione preziosa di metter mano al problema. E una grande opportunità di business, visto che la riqualificazione degli immobili è l'unico segmento dell'edilizia che mostra ancora qualche segnale di vita. In base agli ultimi dati diffusi dal Cresme, nel 2011 gli investimenti destinati alle nuove costruzioni non hanno superato i 60 miliardi, mentre la manutenzione ne ha messi a segno 108, quasi il doppio, divisi tra manutenzione ordinaria (30 miliardi) e straordinaria (78,2 miliardi). Tradotto in percentuali, significa che gli investimenti nelle nuove costruzioni contano ormai solo per il 37% del mercato (e ancora di meno, al 31%, se si tolgono le realizzazioni per il fotovoltaico). La sostenibilità ambientale, dunque, se coltivata con normative mirate e incentivi efficaci, potrebbe diventare una miniera d'oro per l'edilizia in crisi e far decollare un settore, quello dell'impiantistica, oggi dominato dai tedeschi. Non a caso l'efficienza energetica, che in Germania si prende sul serio, lassù ha ricadute importanti anche sul mercato immobiliare, con un immobile di classe A che vale il 30% in più di uno di classe G.
L'International Energy Agency definisce l'efficienza energetica "il combustibile nascosto del futuro" e sostiene che potrebbe avere un peso determinante nella lotta globale alle emissioni climalteranti: se sfruttata a fondo, potrebbe abbatterle del 71% da qui al 2020, contro appena il 18% attribuito alle fonti rinnovabili. Per la Commissione, con l'efficienza energetica potremmo ridurre del 40% i consumi di energia in Europa. Confindustria, da parte sua, ha stimato un impatto economico complessivo di quasi 15 miliardi di euro da qui al 2020, valutato considerando sia l'onere sullo Stato a seguito di politiche di incentivazione, sia la valorizzazione dell'energia risparmiata. In pratica, adottando iniziative che tendano a stimolare il mercato verso l'efficienza energetica nei vari ambiti (industria, terziario, residenziale e trasporti), si potrebbero muovere 130 miliardi di euro di investimenti e crearei 1,6 milioni di posti di lavoro, con un risparmio complessivo di 20 milioni di tonnellate di petrolio. Come dire togliere 23 milioni di automobili dalle strade italiane.

6 maggio 2012

Sorpresa, l'Italia quest'anno rientra nei parametri di Kyoto

Calano i consumi di energia e così l'Italia rientra finalmente nei parametri di Kyoto, proprio nell'ultimo anno di vita del protocollo. Nel primo trimestre 2012, infatti, la domanda di energia si è ridotta dell'1,7%, ma la flessione di marzo, del 10,2%, indica un trend discendente ancora più marcato. Il tonfo è particolarmente evidente nella contrazione del 5% della domanda di elettricità (che mette in evidenza la crisi dell'industria), mentre il petrolio ha registrato una flessione del 10% e il gas del 22%. In controtendenza solo il carbone (+14,2%) e le fonti rinnovabili (+9,2%). Complessivamente, i consumi di combustibili fossili nel primo trimestre del 2012 si sono ridotti di 9,3 milioni di tonnellate rispetto al 2011, tanto che l'Italia per la prima volta è rimasta fuori dalla classifica dei primi quindici Paesi al mondo per consumi di prodotti petroliferi, scivolando al sedicesimo posto, alle spalle di Spagna e Indonesia.
Di questo passo, secondo i calcoli del Rie, la proiezione a fine anno delle emissioni italiane si attesterà a 473,3 milioni di tonnellate, un calo dell'8,3% rispetto ai valori del 1990, per la prima volta inferiore ai 483,2 milioni di tonnellate (-6,5% rispetto al '90) previsto come target di Kyoto. Prosegue, quindi, la decarbonizzazione dell'economia italiana che ha caratterizzato gli ultimi tre trimestri del 2011. Resta però un gap medio annuale per l'intero periodo 2008-2012 pari a 20 milioni di tonnellate all'anno, che il governo italiano dovrebbe coprire ricorrendo ai meccanismi flessibili del protocollo.

La vera sfida, ora, è quella che ci attende di qui al 2020, quando bisognerà andare ben oltre il vecchio protocollo di Kyoto. Sul target 20-20-20 il ministro dell'Ambiente Corrado Clini ha presentato al Cipe un piano nazionale dovrebbe portare l'Italia a rispettare gli impegni assunti nei confronti di Bruxelles. Anzi, Clini ha specificato che il piano del governo tiene conto del fatto "a livello europeo stiamo convergendo verso una strategia di lungo termine che prevede che una riduzione delle emissioni nel 2020 del 25%, entro il 2030 del 40%".
Ma non va dimenticato che i risultati ottenuti finora, più che sull'efficienza energetica, si basano sulla crisi dell'industria italiana. A causa del calo della produzione, negli ultimi mesi il mercato elettrico italiano è completamente cambiato. A marzo l'energia elettrica richiesta, 27,4 miliardi di kilowattora, è calata del 5,2% anno su anno. In aprile, addirittura, si è rischiato di far entrare in crisi il sistema elettrico, con un carico della rete ridotto nelle ore vuote sotto i 30mila megawatt, quando l'equilibrio del sistema ne richiederebbe almeno il 10% in più e con una domanda alla punta sui 42.000 megawatt, quando si potrebbe considerare normale per il mese di aprile un valore sui 47-48.000. Da qui l'andamento anomalo della Borsa elettrica, dove l'eccesso di offerta ha completamente modificato l'andamento dei prezzi, causa anche l'esplosione delle rinnovabili intermittenti. Eccesso di offerta generato, secondo Energy Advisors, da "incomprensibili decisioni d'investimento di diversi operatori, che hanno continuato a realizzare nuova potenza quando ormai il mercato era diventato lungo, che ora non riescono ad utilizzare se non in misura molto limitata".
La crescita della produzione fotovoltaica ha ribaltato i meccanismi di formazione dei prezzi, che schizzano nelle ore serali, in particolare quando il sole non alimenta più gli impianti fotovoltaici e i cicli combinati devono intervenire immettendo dosi massicce di energia termoelettrica a caro prezzo, per cercare di recuperare i margini che non riescono più a ottenere nelle ore di maggiore produzione solare. La robusta presenza del fotovoltaico smorza quindi i prezzi al picco diurno, ma per contro genera un aumento delle quotazioni nelle ore serali, dalle 18 alle 24. Risultato: il prezzo medio sale a causa dei rincari nelle ore vuote. E alla fine dei conti chi ci rimette sono sempre i consumatori, che continuano a pagare l'energia elettrica il 30% in più della media europea.

26 aprile 2012

I cinesi vogliono Vestas, campione malato del vento europeo

Prima ci sono state le schermaglie, adesso è battaglia dura. I due campioni cinesi dell'eolico, Goldwind e Sinovel, puntano a scalare Vestas, gigante malato del Nord Europa. Se ce la faranno, Pechino diventerà leader su tutte le fonti rinnovabili, non solo sul solare che domina già con i suoi pannelli a buon prezzo, ma anche sul vento dove finora era l'Europa a prevalere.

La battaglia infuria in questi giorni alla Borsa di Copenhagen: le azioni della danese Vestas, primo gruppo eolico del mondo con il 15 per cento del mercato, sono schizzate in alto sulle voci di Opa imminente. Pioniera delle turbine già negli anni Settanta, Vestas è oggi alle prese con un crollo dei profitti derivante dall'aspra concorrenza sul mercato eolico e ha appena cambiato buona parte del management per raddrizzare la barra del timone. Il governo danese ha già messo in chiaro che non si opporrà in alcun modo: "Quello che sta accadendo riguarda il mercato privato, è escluso un intervento del governo", ha detto il ministro dell'Energia Martin Lidegaard. Ma la partita è tutt'altro che semplice. Il vasto e composito azionariato di Vestas renderebbe difficile il raggiungimento di un'adeguata soglia di adesione all'offerta. E i due contendenti per ora non si pronunciano ufficialmente.
Il colosso danese, che nel 2011 ha registrato un calo di fatturato del 15 per cento rispetto all'anno precedente (5,8 miliardi di euro contro i quasi 7 del 2010) e ha perso 166 milioni contro un utile netto di 156 milioni nel 2010, ha lasciato sul campo il 70 per cento del valore in Borsa nell'ultimo anno. Ma il suo margine operativo è comunque il triplo di quello di Goldwind e quattro volte quello di Sinovel, mentre il valore complessivo dell'azienda (2,3 miliardi di euro) è pur sempre 20 volte i ricavi di Goldwind e quasi 30 volte quelli di Sinovel.
Vestas resta quindi ardua da scalare, malgrado la crisi. Le sue prospettive, inoltre, non sono così disperanti. Il business eolico europeo è previsto in forte crescita in questo decennio, con un giro d'affari che dovrebbe triplicare fino a 95 miliardi di euro nel 2020, soprattutto grazie alle installazioni offshore nel Mare del Nord, di cui Vestas sta già approfittando alla grande. Le ordinazioni per il leader europeo del vento sono arrivate a un livello record nel 2012 (+40% rispetto al 2011) e il consenso degli analisti per quest'anno si attesta su oltre 7 miliardi di fatturato e il ritorno all'utile. Dopo il collasso ai vertici di febbraio, quando Vestas ha perso in un colpo solo il presidente, il direttore finanziario e altri due membri del board, ora ha appena insediato alla presidenza Bert Nordberg, uno specialista di ristrutturazioni che arriva da Sony Ericsson, mentre l'amministratore delegato è rimasto Ditlev Engel, in carica dal 2005 e deciso a recuperare il terreno perduto. Engel, 47 anni, aveva messo a disposizione il suo mandato dopo aver ammesso i "pesanti errori" commessi sotto la sua gestione, ma è stato confermato su indicazione del nuovo presidente, con cui ha concordato la nuova strategia della rinascita. L'azienda si appresta a tagliare il 10 per cento dei posti di lavoro e a chiudere almeno uno dei suoi stabilimenti, per limare 150 milioni dai costi operativi.
I tagli sono un duro colpo per l'economia danese. Vestas, che conta attualmente 22mila dipendenti, ha intenzione di ridurre soprattutto la sua forza lavoro in patria e di chiudere uno stabilimento nel Nord della Danimarca, dov'è nata e dove impiega 14mila persone. Aarhus, il primo porto danese, che ha visto la nascita di quest'industria negli anni Settanta con lo sviluppo delle turbine nella loro forma attuale, si considera la "capitale mondiale del vento", sia perché il 90% del business eolico danese ha origine da quelle parti, sia per la crescente distesa di parchi eolici, sulla terraferma e offshore, che generano oltre il 20% dell'energia elettrica del Paese. Ma Vestas, cresciuta a passo di carica nell'ultimo decennio, non è solo una potenza locale: ha impiantato fabbriche di turbine nei cinque continenti, dagli Usa alla Cina, dalla Spagna all'Australia, passando per l'Italia, dove impiega oltre 700 persone, distribuite fra lo stabilimento di Taranto e un importante centro di manutenzione, responsabile di più di 1800 turbine in diversi parchi eolici sparsi su un'area di mercato che comprende, oltre all'Italia, vari Paesi del Nord Africa, dei Balcani e del Medio Oriente, tra cui Albania, Egitto, Libia e Giordania.
Sarà un boccone molto grosso da digerire per i cinesi.

28 marzo 2012

L'Italia fa dietro front sul solare come tedeschi e spagnoli

La capacità fotovoltaica installata in Italia ha ormai raggiunto la soglia dei 13 gigawatt, come si evince dai dati forniti in tampo reale dal Gestore dei Servizi Energetici, che la settimana scorsa indicava ben 338.656 impianti in esercizio, per una capacità complessiva di 12.970 megawatt complessivi. Di questi, ben 9.000 megawatt sono stati realizzati 2011, quando l'Italia è diventata il primo mercato mondiale del solare per l'installato annuale, scavalcando la Germania. Al tempo stesso, è salito il costo degli incentivi al fotovoltaico, che ormai ha superato i 5,6 miliardi di euro all'anno. Ora la domanda chiave che si pongono gli operatori è: quando verrà raggiunto il limite di spesa? L'attuale sistema incentivante, ricordiamo, nasce con due scadenze: una temporale, al 31 dicembre 2016, e una di obiettivi, che si pone un tetto di 23 gigawatt e uno di spesa annua in incentivi a 6 miliardi di euro. Siamo ancora lontani dai 23 gigawatt di potenza, ma ci avviciniamo rapidamente al limite di spesa. Per di più, a togliere il sonno agli operatori ci sono le ultime dichiarazioni dei due Corradi, il ministro dell'Ambiente Clini e il ministro dello Sviluppo Passera, che concordano su un vigoroso taglio degli incentivi.

 Le bozze più aggiornate del quinto conto energia, che potrebbe entrare in vigore già in luglio, prevede una forte limitazione per il tetto di spesa a 500 milioni di euro l'anno - quasi dimezzato rispetto all'attuale - ma soprattutto un registro obbligatorio per tutti gli impianti con potenza superiore ai 3 kilowatt: in questo modo anche l'impiantino domestico dovrà passare sotto le forche caudine di una rigorosa graduatoria, che favorirà le tipologie più integrate, meno invasive, dedicate al recupero di spazi da risanare o basate sulle tecnologie più innovative ed efficienti, in modo da garantire una spinta all'innovazione e una buona redditività anche con incentivi decisamente ridotti rispetto agli attuali.
Gli operatori, da parte loro, chiedono a gran voce di piantarla con le instabilità normative, che negli ultimi anni hanno tormentato il settore con sei diverse versioni delle politiche di sostegno. Valerio Natalizia, presidente Gifi-Anie, ha definito le continue variazioni "un fattore di forte squilibrio per il mercato".
Ma quello italiano non è l'unico sistema incentivante ballerino. Il Bundestag tedesco ha appena approvato una proposta di legge sulla rimodulazione del conto energia presentata il mese scorso dal governo, introducendo una riduzione del 20-30% agli incentivi. Nonostante il drastico taglio, il 2012 sarà per il fotovoltaico tedesco un ennesimo anno record, con nuova capacità installata per 8.000 megawatt, secondo la Confindustria tedesca, il cui direttore generale, Martin Wansleben, ha spiegato che "il prezzo dei pannelli solari è sceso nel solo 2011 di circa il 40% e scenderà ancora quest'anno grazie ai nuovi processi produttivi e all'inasprirsi della concorrenza". Dunque, ha detto Wansleben in una nota, "ci possiamo aspettare buoni ritorni economici dagli impianti solari nonostante la riduzione degli incentivi". Nel Regno Unito, dal 1° aprile la tariffa in conto energia per gli impianti al di sotto dei 4 kilowatt sarà praticamente dimezzata e scenderà ulteriormente tre mesi dopo a seconda della potenza avviata nel periodo, con ricadute proporzionali alla dimensiopne degli impianti.
Malgrado il ridimensionamento degli incentivi, la vita continua per il solare. In base al rapporto Clean Energy Trends 2012 della società specializzata Clean Edge, il fatturato mondiale delle tre principali fonti rinnovabili - fotovoltaico, eolico e biocarburanti - è salito del 31% nel 2011 rispetto al 2010, fino a 246 miliardi di dollari. In dettaglio, il mercato fotovoltaico è salito dai 71,2 miliardi di dollari del 2010 a 91,6 miliardi nel 2011 (+28,6%), grazie a un installato aumentato del 69%, fino 26 gigawatt complessivi.
Il boom del settore, che proseguirà nei prossimi anni arrivando a un fatturato di 130,5 miliardi nel 2021, è dovuto secondo Clean Edge alla contrazione del prezzo dei moduli (-40% negli ultimi due anni), destinata peraltro a proseguire: nel 2021, il costo del kilowattora fotovoltaico sarà pari a un terzo dell'attuale. I dati appena diffusi da Npd Solarbuzz sono persino migliori di quelli di Clean Edge, considerando che il centro studi californiano indica 27,4 gigawatt installati nel 2011, per un giro d'affari di 93 miliardi di dollari, nonostante il calo del 28% sul prezzo dei moduli, che quest'anno è destinato a ridursi di un ulteriore 29%, il che dovrebbe portare a dimezzare il costo del kilowattora fotovoltaico nel giro di 5 anni.

18 marzo 2012

Gottardo in dirittura finale, ma in Val di Susa si combatte

Sarà il tunnel più lungo del mondo ed entrerà in esercizio nel 2016, in anticipo rispetto alla scadenza prevista del 2017. Il nuovo traforo del Gottardo, dopo 10 anni di lavori, è ormai in dirittura d'arrivo: l'ultimo diaframma di roccia è caduto già un anno fa. Ora nei due tubi sotterranei vengono installati i binari e tutte le altre attrezzature. In questi due budelli ai piedi delle Alpi, i treni viaggeranno senza dislivello a 250 chilometri all'ora, consentendo di tagliare a 2 ore e mezza il viaggio Milano-Zurigo, dalle 4 ore di oggi, con importanti ricadute sul traffico merci per tutta la direttrice Rotterdam-Genova. Con i suoi 57 chilometri, la nuova galleria supera l'Eurotunnel sotto la Manica e per scavarla è stato estratto dalla montagna materiale sufficiente a costruire cinque piramidi di Cheope, destinato a realizzare diverse isole artificiali nel lago dei Quattro Cantoni. L'opera è stata affidata a un consorzio internazionale, in cui gli svizzeri lavorano fianco a fianco con ingegneri tedeschi e minatori austriaci, sloveni o polacchi. Il potenziamento delle trasversali ferroviarie elvetiche, che prevede investimenti complessivi in varie aree per oltre 22 miliardi di euro, è stato approvato dai cittadini, attraverso referendum, già nel lontano '98. In questo modo gli svizzeri aprono di tasca propria una straordinaria porta, che consentirà di collegare per la prima volta le ferrovie italiane alle rete europea ad alta velocità, mentre il nuovo Fréjus tra l'Italia e la Francia accumula anni di ritardo sulla tabella di marcia.


Finora i tunnel che bucano il Gottardo, sia quello ferroviario che quello stradale, hanno costretto chiunque volesse accedervi a salire ben settecento metri, dalla base della montagna fino a quota 1150 metri. L’itinerario ferroviario, costruito alla fine dell’800, è troppo ripido per consentire il passaggio dei treni ad alta velocità, che hanno bisogno di un tracciato sostanzialmente pianeggiante, e soprattutto per i treni merci, che sono costretti a utilizzare motrici potentissime per scavalcare quel dislivello a passo di lumaca. La nuova linea, invece, correrà a non più di 550 metri sul livello del mare, con un dislivello di appena cento metri dalla pianura Padana alla stazione di Basilea.
La rivoluzione più importante sarà il trasferimento del traffico merci dalla gomma alla rotaia. Sull’autostrada fra Lucerna e Milano viaggiano infatti quasi tutte le merci in transito fra l'Europa e il Nord Ovest d’Italia. Secondo le stime dell’Unione Europea, il traffico alpino raddoppia ogni otto anni e dall’epoca del tragico rogo dell’autunno 2001 gli ingorghi provocati dal sistema d’ingressi contingentati nel tunnel autostradale del Gottardo sono quasi quotidiani. E’ per questo che i confederati, coscienti di non poter deviare ancora a lungo il fiume dei Tir lontano dalle loro valli vietando l’ingresso ai camion con più di 28 tonnellate, hanno avviato fin dagli anni Novanta un vasto dibattito politico e gli studi di fattibilità per il progetto complessivo, chiamato AlpTransit, volto a trasferire il flusso di merci dai camion ai treni, con tre diversi tunnel ferroviari.
Il primo ramo del grande progetto infrastrutturale, quello della galleria del Lötschberg-Sempione, è già operativo da fine 2007. Lungo 34,6 chilometri, meno spettacolare del nuovo Gottardo ma altrettanto utile, il tunnel del Lötschberg facilita il collegamento tra Milano e Berna, sulla linea di Domodossola e del Sempione, aprendo una porta verso la Francia alternativa al famoso traforo ferroviario sulla Torino-Lione. Il terzo ramo, quello sotto il Monte Ceneri in Ticino, entrerà in funzione nel 2019.

12 marzo 2012

Il gas degli stoccaggi Eni? Meno di un terzo è estraibile

Quanto gas si può immagazzinare nei depositi di Stogit, la società di Snam che possiede gli stoccaggi? E soprattutto: quanto di quel gas può essere davvero utilizzato? La domanda, dopo l'ultima emergenza, se la sono posta in parecchi. E la risposta è sorprendente: "Solo 1,4 miliardi di metri cubi delle riserve strategiche si possono effettivamente estrarre", stima Roberto Bencini, geologo esperto di idrocarburi con una lunga esperienza in Lasmo, società di esplorazione dell'Eni, e oggi passato a dirigere Independent Resources, azienda promotrice di un progetto di stoccaggio a Rivara, in Emilia. "Gli altri 3,6 miliardi, che Stogit dichiara come estraibili, in realtà non potrebbero mai uscire, perché manca la pressione sufficiente", valuta Bencini. Quindi dei 5 miliardi di metri cubi di gas qualificati come riserve strategiche e remunerati come tali a Stogit, che nel suo bilancio 2010 dichiara ricavi di 67 milioni in relazione allo stoccaggio strategico (sui 355 complessivi), meno del 30 per cento sarebbe effettivamente utilizzabile.


Già in occasione della crisi del 2006, quando il blocco delle forniture russe costrinse Stogit ad attingere alle riserve strategiche per 780 milioni di metri cubi, lo stesso Paolo Scaroni, numero uno dell'Eni, rilasciò delle dichiarazioni che misero in allarme gli operatori: "A questo ritmo in 20 giorni scenderemo a 2 miliardi di metri cubi. E nessuno c'è mai andato, quindi non si sa bene cosa succederebbe. In quelle condizioni non sappiamo quanto gas si possa estrarre, per unità di tempo, di fronte a un'improvvisa richiesta elevata". Per fortuna le forniture ripresero, ma quel dubbio è rimasto.
In tutti gli stoccaggi, il gas iniettato non è mai completamente estraibile. Per questo si divide tecnicamente in working gas e cushion gas, ovvero gas erogabile e gas cuscinetto, che serve per dare la pressione necessaria a far uscire il resto e non esce mai. Stogit quantifica il working gas stoccabile nei suoi depositi in 15,7 miliardi di metri cubi, destinati a salire a 18 miliardi entro il 2015, grazie alla sovrapressione degli stoccaggi esistenti e all'apertura di un nuovo sito a Bordolano, vicino Cremona. Di questi, 5 miliardi di metri cubi sono considerati strategici, in un Paese estremamente dipendente dal gas come l'Italia, dove metà dell'energia elettrica si produce bruciando metano. Di norma non escono, ma devono essere erogabili in ogni momento. "Nell'ultima crisi, il mese scorso, è emerso chiaramente che più si va avanti nella stagione e più diventa difficile estrarre gas dagli stoccaggi, svuotati dai consumi invernali", obietta Davide Tabarelli di Nomisma Energia. "E' discutibile affermare che la riserva strategica sia realmente erogabile, quindi quel gas andrebbe qualificato come gas cuscinetto, non come working gas", afferma Tabarelli. Il cushion gas, però, non può essere remunerato nello stesso modo di una riserva strategica. Nel bilancio 2010 è collocato tra le attività non correnti, insieme agli immobili, impianti e macchinari.
Questo dato assume un particolare interesse nell'imminenza della dismissione di Snam, imposta all'Eni dal decreto Cresci Italia. In base a una proposta avanzata da Scaroni, il cane a sei zampe potrebbe incassare 6,7 miliardi dalla vendita del 52% di Snam, di cui la metà dalla Cassa Depositi e Prestiti. Nel perimetro della vendita rientreranno anche gli otto siti di stoccaggio, che costituiscono la quasi totalità dei depositi italiani di gas naturale. Gli stoccaggi sono giacimenti esauriti sparsi fra Lombardia, Emilia-Romagna e Abruzzo. Per l'Eni è pratico riciclarli, ma non in tutti i depositi la produttività è la stessa. "Negli otto siti di Stogit lo strato di stoccaggio è prevalentemente sabbioso e il gas depositato s'insinua fra i granelli di sabbia, non in una fessura aperta nella roccia. Per estrarlo bisogna farlo passare attraverso questo labirinto, non in un'autostrada sgombra come accade nel calcare fratturato, quindi il gas estraibile è meno della metà del volume complessivo", fa notare Bencini. Incrociando i dati sulla produttività massima, misurata durante la crisi del 2006, con le quantità immesse nell'estate successiva, quando i depositi furono riempiti fino all'orlo, è facile evincere che il gas estraibile è ben meno di quanto si creda: quasi 4 miliardi di metri cubi di riserva strategica mancano all'appello.
La constatazione riporta alla ribalta l'urgenza di potenziare gli stoccaggi italiani, su cui negli ultimi vent'anni si è avanzato il sospetto di sottoinvestimento strategico, considerando anche il fatto che ampliando l'offerta si darebbe una limata ai prezzi, oggi superiori del 30% rispetto alle medie europee. In questo senso, la separazione proprietaria imposta dal decreto Cresci Italia potrebbe mettere in moto un processo virtuoso, a tutto vantaggio dell'interesse nazionale.

21 febbraio 2012

Berlino, Silicon Allee del Vecchio Continente

C'è una città dove nei caffè girano più iPad che giornali di carta, dove 81 start-up digitali sono state finanziate nel 2011 dai capitalisti di ventura con 136 milioni di euro, dove i quartieri a Nord Est vengono comunemente chiamati Silicon Allee. Ma non è Palo Alto e non siamo in California. Siamo in Germania e la mecca delle start-up è Berlino. La vecchia Berlino del Muro, dove si trasferivano i disoccupati cronici per godere dei sussidi più alti, la Berlino dei grigi funzionari ministeriali, la Berlino "povera ma sexy" del primo sindaco dichiaratamente gay della Germania, Klaus Wowereit, si è trasformata da brutto anatroccolo dell'economia sussidiata nel più bel cigno dell'imprenditorialità hi-tech europea. Un circolo virtuoso di buone università tecniche, manodopoera giovane e smart, affitti bassi e strutture pubbliche efficienti l'ha fatta diventare in due decenni il centro propulsore dell'innovazione più dinamico del Vecchio Continente. La regola d'oro di Richard Florida, l'inventore del Creativity Index, secondo cui talento, tolleranza e tecnologia attirano i creativi, a Berlino ha funzionato a meraviglia. E l'afflusso in massa degli investitori lo dimostra.


"Le buone idee hanno bisogno di un contesto ricco di nutrimento per realizzarsi: la Technische Universitaet sta facendo un lavoro fantastico per promuovere la creatività degli informatici e incoraggiare lo spirito imprenditoriale, così le start-up che s'insediano qui hanno facile accesso ai giovani talenti", spiega Niklas Zennstroem, il fondatore di Skype, che ha investito 3,1 milioni di euro nella start-up berlinese 6Wunderkinder con il suo fondo Atomico. "In più, la città dispone di incubatori e parchi tecnologici che aiutano i primi passi delle imprese, mentre gli affitti bassi danno più margine di manovra sul lungo periodo", fa notare Zennstroem. Gli spazi di co-working dilagano in città e il wi-fi libero è sempre più diffuso. Non solo incubatori pubblici, ma anche privati si stanno insediando qui, come Springstar di Klaus Hommels, uno dei finanziatori di Spotify. Hommels concorda con Zennstroem: "Berlino ha una buona probabilità di diventare la Silicon Valley d'Europa". I vantaggi sui costi, ad esempio rispetto a Londra, secondo lui sono determinanti. "Chi vuole aprire una start-up a Londra, deve pagare più del doppio, sia per il personale che per la logistica", fa notare Hommels. Ecco perché negli ultimi due anni si è insediata qui una comunità sempre più numerosa di nuove imprese digitali, non solo tedesche ma anche provenienti dal resto d'Europa.
Fra le più interessanti c'è Wooga, che spopola nel mondo del gaming con Monster World; SoundCloud, comunemente definita "YouTube della musica", con 10 milioni di utenti iscritti; KaufDa, un'app ormai presente sul 15% degli smartphone tedeschi, che aiuta gli utenti a trovare offerte in prossimità alla loro posizione; ResearchGate, un social network focalizzato sul target specifico dei ricercatori, che ha già 1,3 milioni di iscritti; Upcload, un sito web che misura istantaneamente la taglia delle persone con una videocamera e promette di rivoluzionare il mondo delle vendite d'abbigliamento online; Changers, che mette in comunicazione l'energia verde con i social network, offrendo ai clienti che comprano i suoi pannelli anche un contatore capace di postare su una pagina di Facebook i valori dell'energia prodotta; 12designer, il più grande mercato di compravendita di web-design; Chocri, che ha enorme successo con l'idea di vendere online cioccolata personalizzata, sia nella forma che nei gusti; Mister Spex, il più grande rivenditore online di occhiali di tutti i tipi; Readmill, un sito di social sharing per ebooks insediato nell'ex quartier generale della Stasi. Con questi e altri innovatori della rete, oggi Berlino sta raggiungendo la massa critica sufficiente a sprigionare una forza d'attrazione naturale per chiunque voglia inserirsi in un'economia di distretto. Non a caso stanno affluendo qui anche i grandi capitali di rischio americani, come Index e Accel.
Certo, la fama di capitale più cool del momento non basta per fare di una città il centro tecnologico di un continente. Ma è anche vero che nell'indice di Richard Florida delle città più creative la qualità della vita gioca un ruolo importante: il vibrante panorama culturale, l'accessibilità delle manifestazioni più importanti, dai concerti alla Berlinale, incentivano l'affluenza di talenti creativi. Se sei giovane, hungry e foolish, Berlino è perfetta.

14 febbraio 2012

Il solare alla resa dei conti del taglio dei sussidi

Fallimenti a catena, licenziamenti, taglio degli incentivi e crollo verticale del valore delle società, che nel 2011 hanno perso oltre 30 miliardi di dollari in Borsa. Il settore fotovoltaico mondiale, che l'anno scorso ha messo a segno complessivamente il miglior risultato della sua storia, grazie all'avvio di nuovi impianti per un totale di 28 gigawatt (+67% rispetto al 2010), è sconvolto dalla potente frenata di fine anno, dal calo del prezzo dei pannelli e dall'agguerrita concorrenza. In base ai dati di Solarplaza, la capitalizzazione delle 10 maggiori società quotate si è contratta di 16,5 miliardi di dollari in pochi mesi. E anche in Italia si sente la crisi.
L'americana Memc ha fermato lo stabilimento di Merano e la giapponese Mitsubishi sta riducendo drasticamente la sua presenza, dopo aver mandato a casa il numero uno della divisione fotovoltaica Gualtiero Seva. Il distretto padovano della green economy, con cinquemila addetti, sta perdendo Solon, che ha chiuso la linea di produzione delle celle e messo in cassa integrazione 80 dipendenti. Il gruppo tedesco, uno dei pionieri del settore, ha portato i libri in tribunale a dicembre e ora si parla di un interesse da parte della società emiratina Microsol. Fallimento anche per la rivale Solar Millennium mentre Q-Cells, un altro colosso tedesco del sole, è finita in mano ai creditori. Sumco, primo produttore fotovoltaico nipponico, ha appena annunciato l'uscita dalla lavorazione del silicio e sta per licenziare 1300 dipendenti, il 15% della sua forza lavoro. La britannica Bp ha deciso di uscire dal fotovoltaico, dov'era entrata 40 anni fa, e di smantellare la sua Bp Solar, come Nuon, controllata dalla svedese Vattenfall, che ha messo in vendita il ramo solare.

In Italia, il settore sta soffrendo anche per l'ennesima variazione normativa, contenuta nel decreto liberalizzazioni, che segna la fine degli incentivi per gli impianti a terra sui terreni agricoli, con una moratoria di 12 mesi per gli impianti inferiori a 1 megawatt, il cui iter autorizzativo sia partito prima dell'entrata in vigore del decreto. I rappresentanti dei produttori e installatori nazionali di pannelli sottolineano che "la mancanza di indirizzi chiari rischia di allontanare definitivamente gli investitori". Anche gli agricoltori di Confagricoltura hanno preso posizione contro l'inatteso stop, criticando apertamente il blocco agli impianti di piccole dimensioni e quello retroattivo per i grandi parchi sopra 1 megawatt, che erano fatti salvi dalla precedente normativa purché in funzione entro il marzo 2012.
Proprio nel 2011, paradossalmente, l'Italia è diventata il primo mercato mondiale del solare, con 9 gigawatt installati contro i 7,5 della Germania. Dietro il tandem italo-tedesco, che nel 2011 ha rappresentato quasi il 60% dell’installato mondiale, spicca il risultato della Cina con 2 gigawatt entrati in funzione nell'anno, seguita da Usa, Francia e Giappone. Il Vecchio Continente resta comunque la regione guida del fotovoltaico, con quasi 21 gigawatt connessi alla rete l'anno scorso. In Italia, il fotovoltaico ha coperto nel 2011 il 3,5% della richiesta di energia elettrica, mentre nel 2012 la produzione solare dovrebbe arrivare a soddisfare il 6% della richiesta.
Ma il taglio agli incentivi previsto nel decreto liberalizzazioni non è l'ultimo in vista. "Il governo ha indicato in 6-7 miliardi all'anno il tetto degli incentivi per il solare fotovoltaico e già l'incertezza della dizione 6-7 miliardi come tetto massimo sta provocando non pochi dubbi, perché molte banche cautelativamente si assestano sul valore inferiore", spiega Gianni Silvestrini, direttore del Kyoto Club. Resta da chiedersi quando si raggiungeranno queste soglie. Con il ritmo di 3 gigawatt all'anno di potenza installata si raggiungerebbe il tetto di 6 miliardi all'anno attorno alla metà del 2012 e i 7 miliardi alla fine del 2013. Se l'installato annuo si fermasse a 2 gigawatt, il primo step sarebbe raggiunto a fine 2012, mentre i 7 miliardi all'anno a fine 2014. "In relazione ai valori di potenza installata, il mercato italiano potrà dunque contare ancora su incentivi per un periodo oscillante tra 1,5 e 3 anni. Se il mercato viaggerà su potenze elevate, oltre i 3 gigawatt all'anno, per evitare un blocco totale degli incentivi è possibile che venga proposta una loro rimodulazione", precisa Silvestrini. E' chiaro dunque che ci si dovrà confrontare nel medio periodo con un contesto in cui il solare dovrà camminare sulle proprie gambe. Una prospettiva a cui molte aziende del settore farebbero bene a prepararsi.

31 gennaio 2012

A Berlino il taxi si chiama con un clic...

Mentre in Italia le città sono in ostaggio dei tassisti in rivolta, in Germania un'applicazione per smartphone sta rivoluzionando il mercato dei taxi. MyTaxi consente di mettersi direttamente in comunicazione con le macchine più vicine, lanciando la richiesta senza passare dal radiotaxi. Il tassista che risponde per primo prende la corsa e il cliente può vedere sullo schermo la sua foto, il suo nome, numero di telefono e il percorso che sta facendo per raggiungerlo, con una stima dei tempi d'attesa. Il punto di forza dell'applicazione è la sua semplicità, che elimina le interminabili attese telefoniche e privilegia il rapporto diretto fra tassista e cliente.


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In pochi mesi myTaxi si è diffusa in una trentina di città e 800mila clienti potenziali l'hanno già scaricata gratis, a fronte di settemila taxi registrati fino ad oggi, sui complessivi 50mila circolanti. Ma la nuova tecnologia sta già facendo qualche vittima. L'80 per cento dei tassisti tedeschi, infatti, è affiliato a una centrale di radiotaxi, a cui myTaxi ora sta tagliando l'erba sotto i piedi. Il modello di business introdotto dalla nuova tecnologia rende obsolete le centrali, che in Germania incassano fra i 100 e i 200 euro al mese dai tassisti per i loro servizi. Con myTaxi, invece, non c'è un abbonamento fisso, ma solo una commissione di 79 cent per ogni corsa procurata.
"Facendo i calcoli su un volume d'affari medio, la centrale mi costa almeno tre volte tanto per veicolare lo stesso numero di corse", spiega Thomas Heinrich, tassista berlinese. Per questo le centrali si stanno organizzando con delle applicazioni in concorrenza e in certi casi arrivano perfino a ventilare un divieto di usare myTaxi ai tassisti affiliati. Nonostante le resistenze, l'uso di myTaxi cresce a vista d'occhio: Sven Kuelper e Niclaus Mewes, fondatori di IntelligentApps, ora vogliono espandersi all'estero e hanno aperto agli investitori. Daimler (che produce l'80% dei taxi tedeschi) e Deutsche Telekom hanno risposto subito all'invito, con un'iniezione di 10 milioni di euro. Si prospettano così delle partnership strategiche che potrebbero allargare gli orizzonti del servizio, includendo altri aspetti della mobilità urbana oltre ai taxi, dal car sharing ai servizi di pagamento via smartphone.
Dopo la Germania, le prime tappe sono state Vienna e Zurigo. Adesso Kuepler e Mewes puntano sull'Olanda e sulla Spagna. In febbraio sbarcheranno a Barcellona.

23 gennaio 2012

Concordia: S&P declassa l'Italia, ma non Carnival

Paradossi del rating: l'Italia declassata di due gradini mentre Carnival, il numero uno delle crociere inchiodato al discredito del mondo dal naufragio della Concordia, non subirà alcuna conseguenza da parte delle agenzie di rating. Standard & Poor's ha già dichiarato che manterrà saldo il suo BBB+, allo stesso livello del nostro debito sovrano. Nessuna conseguenza anche per l'altro leader di mercato, Royal Caribbean. "Abbiamo considerato uno scenario in cui il disastro avrà un impatto del 3% sull'utile netto nel 2012 rispetto alle precedenti aspettative", spiega S&P, aggiungendo che questa variazione rientra nelle naturali oscillazioni e non sposta il livello del rating. Ma come? Se il lunedì dopo il naufragio il titolo di Carnival ha lasciato sul tappeto il 20% del suo valore ed è sotto del 33% rispetto a un anno fa, ci dev'essere pure un motivo. A prescindere dalle perdite legate allo specifico disastro (95 milioni di dollari solo per l'inutilizzo della nave), basta un giro in rete per rendersi conto che dopo il naufragio le sue crociere si vendono a sconto dell'80%. E non è un caso: chi si imbarcherebbe oggi su una nave Carnival senza pensarci due volte, dopo aver toccato con mano l'incredibile inaffidabilità dei suoi comandanti? Più in generale, chi non si è chiesto quanto siano sicuri questi palazzi galleggianti carichi di 5-7000 persone, oltre il triplo di quelli del Titanic? Già domenica 15, il Financial Times titolava: "Il disastro della Concordia riaccende il dibattito sulla dimensione delle navi", dando voce a esperti ferocemente critici sui discutibili livelli di sicurezza di questo tipo di turismo, uno dei pochi settori in crescita malgrado la crisi. Da qui in poi, sembrava che nulla sarebbe più stato come prima per il business delle crociere. E' proprio la crescente dimensione delle navi (e dei ricavi per passeggero, arrivati a 240 dollari al giorno) che negli ultimi vent'anni ha consentito al turismo crocieristico di lievitare da un pubblico di 3 milioni e mezzo nel 1990 agli attuali 20 milioni di passeggeri, con ricavi stimati di 34 miliardi di dollari nel 2012, secondo Cruise Market Watch. Carnival è leader di mercato con quasi 10 milioni di passeggeri all'anno su 103 navi e 10 diversi brand, dall'italiana Costa all'americana Seabourn. Contro ogni dubbio sulla sicurezza, ben sette colossi del mare saranno varati globalmente quest'anno - fra cui Disney Fantasy, con i suoi interni ispirati al mondo dei pirati in versione Capitan Uncino - aggiungendo oltre 18mila posti ai 400mila attuali. Si riempiranno? Per ora gli esperti credono di sì, a dispetto dei morti del Giglio. The show must go on.

21 gennaio 2012

Lirosi, servono liberalizzazioni rapide e concrete

Plaude alle liberalizzazioni in dirittura d'arrivo. Ma Antonio Lirosi, già Mister Prezzi e soprattutto braccio destro del Bersani liberalizzatore nel 2006 su tariffe e concorrenza, chiede "cambiamenti immediati e percepibili" per "ridare fiducia ai cittadini" e "rilanciare la domanda interna".
Cosa manca alla "lenzuolata" di Monti?
"Abbiamo perso molto tempo e adesso bisogna recuperarlo. Finalmente andiamo verso un provvedimento ampio che inciderà su diversi settori per ridare linfa all'economia reale. Ma è molto importante varare norme chiare, che portino a dei cambiamenti rapidi e reali. Non è il momento di perdersi in chiacchiere".
Partiamo dall'energia, uno dei settori in cui il divario dei prezzi rispetto all'Europa è più eclatante...
"Bene la separazione di Snam Rete Gas dall'Eni. Ma perché non renderla immediatamente operativa invece di rimandare di altri sei mesi, a un futuro decreto? Se c'è la volontà politica, questa operazione si può fare anche subito, non ci sono grandi ostacoli tecnici. E darebbe sicuramente fiato alla concorrenza".
E la distribuzione dei carburanti?
"Si può fare di più. Qui bisogna proprio cambiare l'assetto del mercato, che è influenzato all'80% dalle compagnie petrolifere. L'obiettivo è una rete distributiva svincolata dai produttori, dove i benzinai siano commercianti puri e anche la grande distribuzione entri nel gioco. Devono diventare una controparte rispetto alle compagnie, in grado di spuntare le migliori condizioni di acquisto del prodotto finito, per poi offrire al pubblico il prezzo più concorrenziale. L'intervento che si profila, invece, è parziale. Il numero degli esercizi cui si applicherebbe l'eliminazione dell'esclusiva è esiguo, sembra una marcia indietro rispetto alle prime bozze".
A proposito di commercio: le farmacie?
"Qui manca la liberalizzazione dei farmaci di fascia C, che è l'unico mezzo per inoculare un po' di concorrenza su questo mercato. Aumentare il numero delle farmacie non basta, bisogna puntare a istituire due canali diversi in competizione l'uno con l'altro. Con 5mila farmacie in più, si rischia di far solo aumentare il numero dei monopolisti e di far saltare la rete delle parafarmacie. Così, invece che abbatterli, i prezzi aumenteranno".
Passiamo alle assicurazioni: Rc auto?
"Qui ci vuole una riforma complessiva del mercato, che va ripensato insieme alle compagnie. L'assurdo sistema del bonus-malus, che è diventato un malus-malus, va completamente rivisto. Se il 97% degli automobilisti sta nelle prime tre classi di merito vuol dire che siamo quasi tutti automobilisti virtuosi, eppure paghiamo sempre di più lo stesso. Va detto, inoltre, che il sistema della scatola nera non funziona: è costoso e in base alle sperimentazioni non porta a grandi risultati".
Altre perplessità?
"Bisogna vedere l'impianto definitivo dei provvedimenti: il diavolo sta nei dettagli, soprattutto in materia di liberalizzazioni. Peccato, però, aver fatto girare le bozze giorni prima, in questo modo aumentano le pressioni e si rischia di annacquare le norme".

18 gennaio 2012

La bolletta è sempre più verde? Ma i dati non sono realistici

E' A2A la società elettrica più verde d'Italia, battendo sul filo di lana Enel. La maglia nera spetta, invece, a Eni e Acea. Il 39% dell'energia prodotta dall'utilitity milanese viene, infatti, da fonti rinnovabili. Enel arriva al 38%, mentre Eni e Acea sono quasi a zero. Le due società sul podio superano nettamente la media italiana: le fonti rinnovabili hanno coperto nel 2010 il 22,8% della domanda nazionale e nel 2011, in base ai dati preliminari del Gestore servizi energetici, il 24,8%.


FONTI - "Per giudicare quant'è verde un produttore, l'unico parametro serio è analizzare con quali fonti alimenta le sue centrali, che siano gas, petrolio, carbone, acqua, vento o sole", commenta Davide Tabarelli, di NomismaEnergia, che ha stilato la graduatoria. Non sempre, però, il merito di produrre energia pulita risulta evidente. A partire dalla prossima bolletta, grazie a una delibera dell'Authority, il consumatore che compera energia verde dovrà ricevere l'indicazione del mix di fonti energetiche utilizzato per la sua fornitura, oltre all'informazione sul mix tecnologico complessivo dell'energia venduta, già obbligatoria nei confronti di tutti i clienti. Il nuovo provvedimento fa parte di un insieme di regole a favore della trasparenza, promulgate dall'Autorità presieduta da Guido Bortoni per garantire che l'energia elettrica acquistata come "verde" sia effettivamente prodotta con fonti rinnovabili e non venga commercializzata più volte. Ma questo dato, che i consumatori potranno leggere in bolletta, è facilmente manipolabile perché non rispecchia la produzione effettiva delle singole aziende, che possono gonfiarlo comprando quote di energia verde sul mercato.
QUOTE - "La certificazione dell'energia immessa in rete come rinnovabile è un dato teorico, perché gli elettroni sono tutti uguali, non cambiano colore a seconda della fonte di origine", spiega Gerardo Montanino, direttore operativo del Gestore Servizi Energetici. Il Gse è l'unico ente di certificazione delle garanzie d'origine dell'energia venduta ai consumatori e in questa veste garantisce che "la composizione del mix medio nazionale utilizzato per la produzione dell'energia elettrica immessa nel sistema italiano nel 2010" comprenda un 35,2% di fonti rinnovabili. Da cosa dipende la discrepanza fra le due quote, quella del 22,8% pubblicata dallo stesso Gse nel Bilancio elettrico italiano e quella indicata nel Mix medio nazionale? Soprattutto dalle importazioni di energia dall'estero. Importazioni che, pur provenendo prevalentemente da Paesi dove la fonte dominante è il nucleare (75% in Francia e 40% in Svizzera), sono misteriosamente certificate dai rispettivi operatori di rete all'80% da fonti rinnovabili. Il che aggiunge di colpo alla produzione nazionale di energia verde, arrivata nel 2010 a 76 terawattora, altri 35 terawattora importati: quasi il 50% in più.
DISTORSIONE - "La qualifica di quell'energia come rinnovabile è discutibile e rappresenta una grave distorsione del mercato", commenta Tabarelli. In più, le aziende elettriche possono arricchire le loro credenziali verdi acquistando quote di produzione dagli operatori specializzati in eolico o fotovoltaico. Così il mix di energia venduta sul mercato libero dall'Enel, ad esempio, si fregia di un 72,5% proveniente da fonti rinnovabili, quando la produzione verde effettiva del gruppo in Italia si aggira sul 38%, composto da un 30,2% di idroelettrico e un 7,6% di altre rinnovabili. Percentuale comunque molto alta rispetto alla media italiana e agli altri produttori, ma ben lontana da quel 72% certificato in bolletta. "Le quote che acquistiamo dagli altri produttori non sono altro che una testimonianza in più della nostra politica di attenzione alle fonti verdi", spiega Gianfilippo Mancini, capo dell'energy management del gruppo. Non è solo greenwashing? "No, perché in questo modo contribuiamo alla crescita delle fonti pulite nel sistema elettrico italiano", fa notare Mancini.
VIRTUOSI - Ma gli esperti da quest'orecchio non ci sentono. "Nella graduatoria delle società più virtuose, non prendiamo neanche in considerazione gli scambi di tipo commerciale certificati dal Gse", precisa Tabarelli. Resta da chiedersi che senso ha imporre l'obbligo di pubblicare in bolletta il mix energetico del fornitore, se poi le informazioni presentate rischiano di essere fuorvianti per il consumatore medio, che non ha certo l'occhio per distinguere i dati della produzione industriale da quelli commerciali. "A quel punto, sarebbe quasi meglio non dire nulla", commenta Alessandro Marangoni di Althesys, casa madre dell'indice Irex, sull'andamento in Borsa delle imprese quotate specializzate in fonti rinnovabili. L'intento dell'Authority non era certamente quello di confondere le idee ai clienti, ma semmai di chiarirle.

14 gennaio 2012

Masciandaro, declassare le agenzie di rating

"C'è da meravigliarsi dell'attenzione che ancora si accorda alle agenzie di rating". Per Donato Masciandaro, direttore del Centro Paolo Baffi di economia monetaria e professore alla Bocconi, i giudizi di queste società non dovrebbero più avere gli effetti roboanti che hanno sui mercati.
Perché?
"La fortuna delle agenzie di rating è nata quando hanno cominciato a fornire delle informazioni inedite. La loro attività era determinante per tre motivi: perché visitando gli emittenti ottenevano informazioni a cui nessun altro aveva accesso, perché i loro metodi di analisi o il loro personale erano considerati di una qualità superiore e perché erano soggetti terzi, percepiti come indipendenti. In questo modo sono diventate talmente utili che gli investitori non potevano più prescindere dai loro giudizi".
E ora?
"Ora non è più così: i loro giudizi si basano su informazioni pubbliche, le stesse che possiamo avere tutti; i loro metodi di analisi sono sempre più diffusi e non sono migliori di quelli usati da altri analisti; non sono più soggetti indipendenti, da quando si fanno pagare i loro giudizi dalle stessosocietà emittenti".
Ma allora perché restano così determinanti?
"Solo perché sono diventati parte integrante delle regole. I loro giudizi sono stati istituzionalizzati con il loro inserimento nella regolamentazione dei mercati. Tutto il loro peso dipende da questo".
Che cosa bisognerebbe fare per ridurre questo peso?
"Basterebbe 'declassare' i loro giudizi alla stregua di quelli formulati da tanti altri soggetti privati, che vengono utilizzati dagli investitori come strumenti d'informazione, ma non hanno lo stesso effetto sui mercati, perché non fanno parte di nessuna regolamentazione".
Ma se non sono più utili come una volta, perché non si cambia?
"Il problema è che questo ruolo esagerato delle agenzie di rating fa comodo un po' a tutti. Fa comodo agli emittenti, che hanno capito che per soddisfare i mercati non serve un comportamento virtuoso, ma solo un buon rating. Fanno comodo agli investitori, che non devono più andarsi a cercare le informazioni più esclusive, perché sanno già che il mercato andrà dietro al giudizio delle agenzie di rating. E fanno comodo anche alle autorità di controllo, che grazie a loro possono evitare di prendersi alcune responsabilità".
Contenti tutti, ma le distorsioni restano: non c'è speranza di uscirne?
"Negli Stati Uniti ci stanno provando, in Europa no. Anzi, si sta andando nella direzione opposta e si cercadi correggere queste distorsioni imbrigliando le agenzie di rating in regole più stringenti. Ma il punto non è questo".
E qual è?
"Bisogna toglierle dalle regolamentazioni, riducendo il loro status a quello di tutte le altre società di analisi. Altrimenti i mercati continueranno a essere dominati dallo strapotere ingiustificato di un oligopolio".

10 gennaio 2012

Corsa degli investitori al super-Bund

Gli investitori strapagano i Bund pur di mettere i capitali al riparo. Per la prima volta la Germania ha collocato titoli con rendimenti negativi. Nell’asta di ieri sono stati infatti collocati 3,9 miliardi di euro in Bund a sei mesi a un tasso d’interesse del -0,01 per cento. Questo significa che gli investitori non guadagneranno nulla dall’acquisto di questi titoli, anzi, alla fine dei conti sarà il ministero del Tesoro di Berlino a guadagnarci: come se per accendere un mutuo fosse la banca a pagare chi prende i soldi in prestito e non viceversa. In pratica, gli investitori hanno preferito rinunciare al profitto a beneficio della certezza degli investimenti. L’Agenzia delle Finanze tedesca comunica che la domanda ha superato di 1,8 volte l’offerta. Al contrario, il differenziale tra i Btp italiani e i titoli di Stato tedeschi è volato oltre i 530 punti, con un rendimento del 7,17%, non distante dai massimi di 566 accusati alla vigilia delle dimissioni di Silvio Berlusconi dalla presidenza del Consiglio. La Germania, secondo gli operatori, «è ormai l’unico Paese in area euro percepito come sicuro e quindi sui titoli tedeschi viene parcheggiata la liquidità seppure questi abbiano un costo». A livello generale, c’è «una fame di titoli di Stato quasi esclusivamente di breve o brevissimo termine». Questo vuol dire che nessuno scommette sulla sopravvivenza dell’euro oltre un orizzonte di pochi mesi. Se la situazione dovesse precipitare, infatti, chi avrà in mano titoli di debito tedeschi potrebbe approfittare di un’immediata rivalutazione del "nuovo marco" del 30/40%, con una plusvalenza corrispondente, rispetto alle valute europee più deboli. E dopo? Dopo il "super-marco" darebbe un bel filo da torcere all'export tedesco. Ma questo è un problema che nessun investitore si pone adesso.

2 gennaio 2012

Energia 2.0, entriamo nell'era della generazione distribuita

Le fonti dell'energia cambiano. E cambiano le dimensioni. Dopo l'era delle grandi centrali a carbone o a olio combustibile e dei mega-reattori nucleari, stiamo entrando nell'epoca dell'energia 2.0. Eolico, fotovoltaico e bioenergie invitano alla generazione distribuita. Perfino il nucleare diventa piccolo, con mini-reattori interrati capaci di alimentare un villaggio o una cittadina. Mille impianti sparpagliati sul territorio ora gravano sulla rete e la costringono a diventare più magliata e più intelligente, inventandosi nuove soluzioni di accumulo per livellare i picchi della domanda e della produzione. Un'industria che sembrava ormai più che matura sta vivendo una rivoluzione imprevedibile. Da questa rivoluzione industriale deriva un'importante fetta della crescita economica recente, in controtendenza rispetto alla crisi, ma anche una forte spinta all'innovazione. Il fotovoltaico abbandona il silicio cristallino per orientarsi verso nuovi materiali, l'eolico cambia forma per andare a cercare i venti tangenti di bassa quota, che le pale grandi non percepiscono nemmeno.




"La mini-pala di Renzo Piano è una delle varie iniziative che abbiamo preso per sfruttare al meglio le risorse sul territorio", spiega Francesco Starace, numero uno di Enel Green Power, sempre alla ricerca di strumenti nuovi per produrre energia pulita. Con il prototipo da 55 kilowatt di potenza, che ora verrà sottoposto a un anno di test nelle strutture di collaudo dell'Enel prima di poter essere installato in campo aperto, Starace vuole andare a intercettare i venti che s'incanalano nelle valli, più modesti ma pur sempre efficaci per far girare un alternatore, se le strutture sono abbastanza leggere da coglierli. Non a caso la pala di Renzo Piano è stata soprannominata la "libellula" e potrà dare il suo contributo alla produzione di energia pulita in tutte le situazioni che per le pale grandi non sono remunerative, a partire dalla diga foranea di Genova, dove probabilmente troverà il suo primo utilizzo. Per seguire la sua vocazione nello sfruttamento delle fonti rinnovabili, Enel Green Power ha anche realizzato a Catania, in joint venture con Sharp e StM, uno stabilimento di produzione di pannelli a film sottile, la nuova frontiera del fotovoltaico, che utilizza molto meno silicio per tradurre in elettricità i raggi del sole. Un passo coraggioso per una società leader mondiale nella produzione di energia verde, non di pannelli. "Non vogliamo inventarci un mestiere nuovo, ma se ci mancano gli strumenti per operare al meglio, cerchiamo di colmare il gap", commenta Starace.
La nuova frontiera delle rinnovabili, secondo Starace, sono poi le tecnologie ibride, quelle che mettono assieme diverse fonti per ottimizzare i risultati. "Nei nostri impianti di Reno, in Nevada, stiamo sperimentando un'ibridizzazione fra il geotermico e il solare fotovoltaico, che ci consente di aumentare la potenza proprio negli orari di picco della domanda, quando tutti i condizionatori sono accesi", precisa Starace. In Nevada si prepara un'evoluzione ancora più ardita, con l'aggiunta all'impianto già ibrido del solare termodinamico, l'unica fra le tecnologie solari capace di produrre energia elettrica anche di notte, grazie al fortissimo calore accumulato nei tubi pieni di sali fusi, su cui per tutto il giorno si concentrano i raggi del sole grazie ai grandi specchi parabolici. "Un complesso ibrido di questo tipo aumenta di molto la potenza di un impianto e potrà essere ripetuto anche in altre situazioni analoghe, dove abbiamo molto spazio vuoto, come nel deserto di Atacama in Cile", argomenta Starace.
Nel geotermico di casa nostra, invece, a Larderello in Toscana, lo spazio per grandi centrali solari termodinamiche non c'è. Ma abbiamo le biomasse, in particolare tutti quei resti dell'agricoltura che normalmente vengono buttati e invece potrebbero servire come combustibile per contribuire a far girare le turbine delle centrali elettriche alimentate dal calore della terra. "Su questo abbiamo già un accordo con Coldiretti e Confagricoltura, per stimolare la filiera agroenergetica, che in Italia è ancora poco sviluppata", fa notare Starace. Tutte queste tecnologie esistono già, ma ora si cominciano a immaginare applicazioni sempre più innovative, con ricadute di non poco conto per il sistema elettrico: da un lato un netto miglioramento per la sostenibilità di un comparto che resta fra i principali responsabili delle emissioni a effetto serra; dall'altro lato maggiori spazi di partecipazione dal basso al mercato libero dell'energia elettrica, anche per i piccoli consumatori e produttori, già chiamati in inglese "prosumer". Starà a noi, se ne saremo capaci, il compito di trarne tutti i vantaggi possibili.